PROCESSO AEMILIA: IL MALSANO PATTO POLITICO
Paolo Bonacini, giornalista
In video conferenza nell’aula bunker di Aemilia il pentito Giuseppe Giglio torna a parlare dell’accordo tra la ‘ndrangheta emiliana e il capogruppo del PDL Giuseppe Pagliani: voti e finanziamenti in cambio di promesse contro le interdittive antimafia. Una storia che dopo l’assoluzione nel rito abbreviato sarà il processo d’appello a riprendere in mano.
“Diletto è venuto da me e mi ha spiegato: guarda che l’incontro con Pagliani non è solo per le interdittive. Abbiamo fatto un patto politico che ci darà del lavoro. In cambio noi gli dobbiamo trovare dei voti e gli finanziamo i finanziamenti”.
Finanziare i finanziamenti è una immagine che rende superfluo il contesto. E’ come l’atleta che deve correre la corsa, o il boxeur che deve combattere il combattimento. Non contano il chi, che cosa, dove quando è perché; c’è solo l’imperativo assoluto, la pura sostanza dell’obbiettivo da raggiungere. Che un politico in carriera identifica volentieri con i soldi per la campagna elettorale e i voti per avere successo.
I capitoli del colpevole accordo tra la ‘ndrangheta e il capogruppo del PDL in consiglio provinciale a Reggio, Giuseppe Pagliani, li raccontano i riscontri processuali già noti che hanno portato prima al suo arresto, nel gennaio 2015, e poi alla sua assoluzione nel rito abbreviato un anno dopo. Ma a questi elementi l’omonimo Giuseppe, Giglio di cognome, unico esponente pentito della cosca al processo Aemilia, aggiunge con le sue confessioni dettagli non secondari, che hanno già convinto la Direzione Distrettuale ad impugnare l’assoluzione in appello.
Il 9 febbraio 2016 i PM Mescolini e Ronchi chiedono a Giglio perché Alfonso Diletto, uno dei capi della ‘ndrangheta emiliana, sia andato a trovarlo a casa sua la sera del 20 marzo 2012.“Per chiedermi di andare alla cena del giorno dopo organizzata agli Antichi Sapori di Gaida: la cena con Pagliani”.
E’ in quella prima confessione che Giglio si abbandona alla involontaria ridondanza dei finanziamenti da finanziare. Parla del primo incontro ristretto con Pagliani che si è svolto nell’ufficio di Nicolino Sarcone il 2 marzo precedente, alla presenza anche del fratello Gianluigi, di Alfonso Diletto, Pasquale Brescia, Alfonso Paolini e Antonio Muto: tutti pezzi grossi della ‘ndrangheta reggiana. Giglio non c’era ma sa di cosa si è discusso: “Lì c’è stato il patto politico: da una parte promesse di voti e finanziamenti, dall’altra promesse di lavori in regione, in provincia e in comune. E in più un quieto vivere per il Prefetto, perché aveva alzato un polverone”.
Il quieto vivere per il Prefetto, che nel 2012 era la dottoressa Antonella De Miro, mette onestamente qualche brivido. E’ lei che all’inizio di quell’anno bollava con le interdittive antimafia diverse imprese in odore di ‘ndrangheta. Colpiti furono Palmo Vertinelli, Alfonso Paolini, Antonio Muto, Pasquale Brescia, Michele Colacino, Nicolino Sarcone. “Molti di questi interdetti erano alla cena del 21 marzo” ricorda Giglio nella confessione del 26 aprile di quest’anno. E la dottoressa Beatrice Ronchi della DDA gli risponde con una battuta: “Sarcone era più che interdetto”.
Il prefetto De Miro era allora il primo e potente nemico nel mirino della cosca emiliana; veniva dalla Sicilia dove si impara presto che la mafia non è letteratura e alla Sicilia è infine ritornata nel 2015, con il ruolo di prefetto di Palermo. Nell’ottobre del 2015 il consiglio comunale di Reggio Emilia le ha conferito la cittadinanza onoraria con un voto unanime in sala del Tricolore. Ha votato sì anche Forza Italia il cui capogruppo è Giuseppe Pagliani; lo stesso che tre anni prima stringeva la mano a chi auspicava un quieto vivere per il prefetto.
Durante gli interrogatori estivi Giuseppe Giglio è tornato più volte sulla cena agli “Antichi Sapori” e c’è tornato anche in questi giorni, in videoconferenza al processo Aemilia. Martedì 13 dicembre 2016 è il presidente del collegio giudicante Francesco Caruso a rivolgere le domande concentrandosi sui dettagli che riguardano gli imputati del rito ordinario.
“Cosa ci può dire di Pasquale Brescia e Alfonso Paolini? Conoscevano Nicolino Sarcone e Francesco Lamanna?” E’ da lì che si parte per ritornare a Pagliani e all’accordo del 2012. Giuseppe Giglio, come sempre ripreso di schiena in una piccola stanza di un luogo protetto e messo in onda attraverso un una rete digitale protetta, parla della cena del 21 marzo definendola “Una riunione azzardata”.
“Perché?” gli chiede Caruso.
Giglio immagina (lo dice nell’interrogatorio di febbraio) che ci saranno troppi occhi di giornalisti e di forze dell’ordine puntati su quel ristorante quella sera: “Gli ho detto: guarda, a me non interessa”. Ma conversando con Caruso aggiunge un elemento importante: “Non ci sono andato perché se facciamo un incontro per batterci perché con l’informativa ci hanno tolto i lavori e poi là ci presentiamo con Sarcone e con Diletto, non ha senso quella riunione”. Dice in sostanza: non eravamo credibili, non eravamo presentabili.
Il 26 aprile Mescolini aveva cercato di capire due cose. La prima: cosa pensavano che potesse fare Pagliani contro le interdittive? Risposta: ”Pagliani si offrì che avrebbe chiamato qualcuno più in alto del suo partito per cercare di avvicinare il prefetto”.
“Chi gliel’ha detto?”
“L’ho saputo da Sarcone, da Diletto e da Floro Vito Giuseppe, che dalla mattina alla sera era sempre con loro”.
Mescolini incalza: “Siccome però lei non è un imprenditore che cade dal pero, sa che quello è un politico capogruppo di un partito di minoranza in consiglio provinciale. Non è il presidente della Regione che ha un potere amministrativo di un certo genere. Pagliani nell’esercizio politico delle sue funzioni non vi poteva dare niente. E voi ci credete? Non è che uno quando fa un patto dorme!”
Anche l’avvocato difensore Luigi Li Gotti non capisce in che modo Pagliani potesse aiutarli: “Come faceva lui a promettere? Voi procuravate i voti e lui prometteva qualcosa. Voi come avevate la certezza che avrebbe mantenuto la promessa?”
Giglio forse non conosce bene la politica e non sa che le promesse dei politici fanno rabbrividire quelle dei mercanti: “La certezza non gliela dà mai nessuno nei patti, perché è solo una parola che viene scambiata tra me e lei”.
Mescolini: “Però se uno vende pere non è che può prometterti delle macchine”
Giglio: “Ho capito quello che intende dire”.
E’ uno scambio di battute che svela una sorta di ingenuità, certamente di approssimazione, con la quale gli esponenti della ‘ndrangheta locale hanno tentato di trovare una sponda politica quando la terra stava loro cedendo sotto i piedi. Il risultato è stato disastroso: la già compromessa (e falsa) immagine di imprenditori dal volto pulito né è uscita ulteriormente danneggiata. Se ne rese conto l’avvocato Antonio Sarzi Amadé, amico e collega di partito di Pagliani, che a Giglio dopo la cena disse in sostanza: è andata male. Di parere diverso invece Floro Vito Giuseppe e Michele Colacino, come lo stesso Giglio ricorda rispondendo dal vivo al presidente Caruso: “Erano contenti; mi hanno detto che le prospettive sono buone, l’impegno di Pagliani è serio.”
Credevano in possibilità di sviluppo enormi; credevano, o speravano, che Pagliani avesse una bacchetta magica in grado di togliere le interdittive e orientare verso le loro imprese gli appalti pubblici in regione. Giglio ribadisce in aula il 13 dicembre che “Pagliani doveva intervenire su una persona molto in alto”. Da questo intervento e da questa persona speravano arrivasse la soluzione ai loro problemi. Ma il senatore Filippo Berselli del PDL, unica persona abbastanza in alto alla quale Pagliani raccontò la storia delle interdittive, liquida il tema con poche parole: “Non gli ho dato più importanza a ‘sta cosa”.
La seconda grande domanda che si è posta la DDA e che il Sostituto Procuratore Mescolini ha girato a Giuseppe Giglio nell’interrogatorio del 26 aprile riguarda invece l’approccio di Pagliani alla questione. Sapeva chi aveva davanti? Era consapevole che stava cercando voti e sostegno politico negli ambiento della malavita organizzata di stampo mafioso? Giglio non ha dubbi nel rispondere: “Lui sapeva benissimo con chi stava facendo il patto, attenzione!”. Poi lo ribadisce attraverso interposta convinzione: “Pagliani, mi ha detto Sarcone, conosceva benissimo la sua posizione e la sua situazione.”
Ma che Pagliani sapesse con chi aveva a che fare lo sostiene anche il giudice Zavaglia nella sentenza del rito abbreviato. Pagliani è stato assolto perché il patto politico siglato il 2 marzo 2012 con Nicolino Sarcone non ha poi avuto seguito: le interdittive sono rimaste, l’esponente del PDL ha iniziato a difendere sé stesso dalle accuse di essere in affari con la ‘ndrangheta.
Ma “E’ da escludere l’ipotesi sostenuta dalla difesa” dice la dott.ssa Francesca Zavaglia in sentenza, “che Pagliani ignorasse la qualità criminale di Nicolino Sarcone, in quei mesi imputato nell’annoso processo Edilpiovra che lo vedeva accusato, tra gli altri reati, del delitto di cui al 416 bis (associazione di stampo mafioso) proprio davanti al Tribunale di Reggio Emilia. Questa è una provincia in cui le notizie circolano rapidamente” aggiunge il giudice “e Pagliani ha rivendicato a sé una particolare attenzione alle infiltrazioni mafiose in provincia”. Quindi non poteva non sapere.
La sentenza del Tribunale assolve dunque Pagliani dai reati penali a lui contestati: non ha, come sosteneva l’accusa, “concretamente contribuito, pur senza farne formalmente parte, al rafforzamento e alla realizzazione degli scopi della associazione mafiosa”. Ma è politicamente colpevole, anche secondo il giudice, di aver cercato accordi con personaggi mafiosi. Per l’attuale capogruppo di Forza Italia in Sala del Tricolore questa forse è la sentenza peggiore.
di Paolo Bonacini