NICOLINO GRANDE ARACRI: IL GIUDICE CHE PRENDE A BOTTE IL PENTITO
di Paolo Bonacini, giornalista
Il collaboratore di giustizia Antonio Valerio, durante le deposizioni al processo Aemilia, ha sciorinato alcuni dei tanti aggettivi o titoli con i quali veniva chiamato a Cutro Nicolino Grande Aracri: “L’ingegnere, il geometra, equitalia. Il giudice di pace monocratico che girava pure con il codice civile in mano. Lo chiamavano anche l’avvocato”.
Il mestiere di avvocato (di sé stesso) Grande Aracri lo esercita anche nell’aula della Corte d’Assise di Reggio Emilia venerdì 4 ottobre, quando decide di rispondere in videoconferenza alle domande del pubblico ministero Beatrice Ronchi: “Non mi sottraggo ad alcun tipo di interrogatorio”.
Esordisce così Nicolino Grande Aracri nell’ultima udienza del processo per le morti del 1992 in provincia di Reggio Emilia. Non si sottrae alle domande ed è battaglia per cinque ore, con “l’avvocato” che dal carcere di Opera a Milano, dove è rinchiuso, sostiene le proprie tesi riferendosi spesso a sentenze, pagine di verbali, dichiarazioni rese da testimoni in altri processi e in altri tempi. Come un avvocato appunto.
Nicola “mano di gomma” nega di essere stato un mandante degli omicidi di Nicola Vasapollo e Giuseppe Ruggiero, nega di essere il capo della cosca di ‘ndrangheta originaria del crotonese, nega di avere conosciuto o frequentato i collaboratori di giustizia che lo chiamano in causa. Il peccato originale, secondo il suo racconto, lo ha commesso il primo di questi, Angelo Salvatore Cortese, che si è inventato di essere il braccio destro di Nicolino e si è inventato pure la cosca Grande Aracri. Gli altri, a partire da Antonio Valerio nel processo Aemilia, semplicemente lo hanno seguito confermando le sue dichiarazioni e colorandole di nuovi dettagli per ingraziarsi i pubblici ministeri.
Nella sua accalorata auto arringa difensiva Nicolino Grande Aracri sostiene tesi ardite sulle quali la dott.ssa Ronchi ha buon gioco a contestare la semplice ragionevolezza. Come quando racconta che a Brescello venne nell’ottobre del 1992 non per uccidere Ruggiero ma per avvisarlo che a Cutro giravano brutte voci su di lui. Un viaggio di oltre mille chilometri in auto, pochi giorni prima dell’omicidio, per dirgli: “stai attento”. Salvo poi decidere di non partecipare al funerale, sebbene ci tenga a precisare che le famiglie Grande Aracri e Ruggiero a Brescello andassero d’amore e d’accordo.
O come quando il pubblico ministero gli chiede che rapporti avesse con lo storico boss di Cutro Antonio Dragone. “Nessuno” dice tagliando corto, e alla successiva domanda: “Allora perché ha fatto da testimone di nozze al nipote Raffaele Dragone?” la risposta è “Perchè un giorno ci siamo incontrati per caso, al bar, e me lo ha chiesto”.
Nicolino Grande Aracri ha una spiegazione per tutto. Anche per le centinaia di telefonate ricevute da personaggi in odore di ‘ndrangheta coi quali dice di non avere mai parlato “perché allora i telefonini non funzionavano dappertutto”. Anche per la testimonianza in aula di Lucia Condito, ex compagna del capo cosca reggiano Nicolino Sarcone, che lo chiama in causa: “Si vedeva che era menomata”.
Ma quando nel pomeriggio può parlare più liberamente, durante il contro interrogatorio dei suoi avvocati difensori, l’orgoglio e l’amor proprio prendono il sopravvento e Nicolino Grande Aracri inciampa sulla propria immagine di cittadino modello. Sta parlando di un altro collaboratore di giustizia, Giuseppe Liperoti, genero del fratello di Nicolino, Antonio Grande Aracri. Liperoti è sotto protezione e vive con la famiglia in un luogo segreto ma nel maggio 2018 ciò non ha impedito a chi lo vuole morto di affiggere una lettera minatoria sulla sua porta di casa intimandogli di ritrattare le proprie dichiarazioni.
Grande Aracri parla di lui come di un buono a niente, drogato, violento, che picchiava le donne. Dice che nell’estate del 1999 Liperoti aveva offeso un maresciallo dei carabinieri di Cutro e aveva tentato di avvelenargli il cavallo.
“Allora l’ho chiamato a casa mia” dice Nicolino Grande Aracri, “e con un bastone l’ho massacrato di botte. L’ho fatto sanguinare. Poi gli ho detto: e adesso vai dal maresciallo dei Carabinieri a prendere il resto e a chiedergli scusa. E lui c’è andato e dopo il maresciallo è venuto e mi ha detto: vi ringrazio”.
Al PM Beatrice Ronchi non resta che chiedere una sola cosa: “Chi era questo maresciallo?”.
Il nome con precisione Nicolino non lo ricorda, ma dice con certezza: “Era il comandante dei Carabinieri di Cutro”.
Vera o falsa che sia questa storia, Nicolino Grande Aracri è convinto di avere fatto la cosa giusta massacrando di botte il parente acquisito Giuseppe Liperoti, e lo racconta con orgoglio in aula. Ha visto il reato, ha individuato il colpevole, gli ha inflitto la pena. Così fa il giudice monocratico di Cutro. Così fa un vero capo.
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