LA GRU
di Paolo Bonacini, giornalista
Gru è una parola bellissima. Nelle notti australi, subito dopo il tramonto, è la costellazione più luminosa che si alza in cielo annunciando l’arrivo dell’estate. Nel nostro emisfero gli ultimi a vederla sono i migranti che fuggono dalle coste libiche. Più a nord, oltre alla loro dignità e spesso oltre alla vita, perdono anche il piacere della sua vista.
Gru è un uccello tra i più grandi al mondo, il più alto in grado di volare. La gru cenerina che popola l’Europa ha forme e colori degni di un defilé.
Gru è l’acronimo del Servizio Segreto delle forze armate russe, che sta al KGB come l’FBI sta alla CIA. Fondato da Lenin nel 1918, è tutt’ora in ottimo stato di salute con sedi operative in tutto il mondo. Segno che le trame oscure non muoiono mai.
Gru è infine uno strumento indispensabile per sollevare e spostare grandi pesi, che costella gli orizzonti delle città indicandoci quanto e come e dove si costruisce.
Se dovessi fondare un giornale lo chiamerei “La Gru”, ma arriverei almeno secondo. All’inizio degli anni Novanta “La Gru” era il titolo di un periodico edito a Reggio Emilia dalla Fillea/Cgil, il sindacato dei lavoratori delle costruzioni e del legno, che nel giugno del 1991 portava in copertina, oltre alla sagoma dell’inevitabile gru di ferro, il titolo di una riflessione di William Leoni, allora segretario della categoria.
“Non siamo un’isola felice”, dice questo titolo, e il sommario è ancora più esplicito: “Si accentua in Emilia Romagna e anche a Reggio la presenza della criminalità organizzata in diversi settori dell’economia e, tra questi, nell’edilizia”.
Alcuni passaggi sono utili per ricordare a tutti noi, che siamo caduti dalle nuvole quando è iniziato il processo Aemilia, che la ‘ndrangheta ha radici antiche nei nostri territori. Se l’inchiesta di Antonio Zambonelli sul caporalato in provincia, pubblicata da “Reggio 15” nel 1970, ci raccontava il dietro le quinte dello sfruttamento di mano d’opera cutrese da parte dei “mammasantissima” all’ombra del municipio di Reggio, questa denuncia di vent’anni dopo (e di trent’anni fa) ci racconta chi e come quelle giovani braccia venute dal sud le sfruttava per affari illeciti in combutta con le mafie.
L’attacco dell’articolo toglie ogni alibi alla memoria corta: “Non mancano certo gli indizi: la criminalità coesiste a fianco di imprese regolari. E’ indubbio che non si tratta solo di degenerazioni del mercato del lavoro alle norme contrattuali, di legge, antinfortunistiche, ma c’è chi esercita un controllo parassitario sull’attività economica e produttiva nel settore, imponendo la legge dell’omertà con il ricatto e l’intimidazione, favorito dalla presunta convenienza a truffare lo Stato”.
Più che di indizi, nel proseguo dell’articolo, si parla di fatti acclarati e largamente diffusi, di “episodi di avvertimenti, ricatti più o meno palesi, intimidazioni, minacce esplicite a Reggio e in regione nei subappalti e nell’edilizia residenziale privata immobiliare”. Ai quali si aggiunge uno “sviluppo quantomeno singolare di nuove imprese cresciute in provincia negli ultimi anni”. La prima conclusione è semplice e insieme impietosa: “Occorre prendere atto che la nostra economia è oggi più permeabile che in passato all’ingresso della criminalità organizzata. In ballo non c’è solo un poco di evasione contributiva, fiscale, antinfortunistica, ma le conquiste e il progresso civile, democratico, culturale, e la stessa convivenza civile”. Per arginare il fenomeno c’è una sola strada: “Dobbiamo chiamare in causa tutti – forze politiche, istituzionali, economiche, sociali – per individuare le cause di questa presenza e stabilire i rimedi”.
L’appello di Leoni restò “appeso alla gru” nel 1991, altrimenti oggi quel fenomeno non sarebbe più diffuso e incancrenito di allora, come le cronache giudiziarie ci testimoniano.
Eppure il problema è ancora e sempre lì. Nella diffusione di pratiche illecite del mercato con l’obbiettivo di abbattere i costi e massimizzare i profitti. Diffusione che attira e ingrassa le organizzazioni criminali di stampo mafioso. Quelle che minacciavano di morte i giornalisti (Zambonelli) già nel 1970 a Reggio Emilia, che “marchiavano a sangue Reggio Emilia” negli anni ’80 e ’90 per il controllo del territorio” (Antonio Valerio), che l’11 luglio 2019, cioè oggi, si permettono di minacciare di morte la Presidente del Tribunale di Reggio Emilia Cristina Beretti (Francesco Amato), con la vita in città che pare scorrere tranquilla come se niente fosse.
Come se niente fosse il 30 novembre 2016, a processo Aemilia già avviato, è passata sulla Gazzetta di Reggio una dichiarazione dell’ex assessore all’urbanistica del Comune di Reggio Emilia, Angelo Malagoli, che diceva testualmente: “Reggio è stata costruita con soldi riciclati. La magistratura non ha saputo vedere e la politica non ha voluto”.
Forse sarebbe il caso di provare a capire chi ci ha messo i soldi riciclati e chi se li è intascati, in riferimento allo sviluppo urbanistico della città, visto che Aemilia di questo si è occupata solo marginalmente.
Nel 1991 l’articolo di Leoni individuava come causa dell’ingresso della criminalità organizzata un tratto comune all’evoluzione del mercato dell’edilizia presente già a partire da metà degli anno ’80: “Il sempre maggiore ricorso ai subappalti per ridurre i costi”. Lo dimostrano i dati delle ore regolari lavorate e denunciate alla Cassa Edile: “Nel 1984, in piena crisi recessiva del settore, le ore erano più di 7 milioni. Alla fine del 1989, in piena ripresa, le ore denunciate si sono ridotte a 5,7 milioni con un calo superiore al 18%. Tendenza che si è registrata anche nel 1990 e ’91, assieme al calo del compenso medio percepito e all’aumento della precarietà”.
Il male assoluto non è il subappalto, spiega William Leoni, ma il fatto che ad esso si ricorra spesso affidandosi “a imprese fittizie, prive di mezzi, attrezzature, strutture amministrative, tecniche, operative”. Imprese che di fatto svolgono la funzione “di mera intermediazione di mano d’opera, in cui il mancato rispetto delle norme è la norma”. Imprese dietro le quali “si nascondono sempre le stesse persone, facenti parte di veri e propri clan”. E l’atteggiamento dominante nel territorio, di chi affida i lavori in subappalto, è di “giustificare queste imprese, quando non si tratta di vera e propria copertura”. Manca anche, o è insufficiente, “il controllo in corso d’opera dell’ente pubblico appaltante. Non è possibile autorizzare un subappalto ad una impresa che dichiara storicamente 60 o 70 ore medie mensili per addetto. E procedere al pagamento di acconti o saldi quando la incidenza del costo per salari e stipendi è di gran lunga inferiore a certi parametri minimi”.
Conclude Leoni la sua amara riflessione: “Occorre che il sindacato non molli. Ma senza il concorso di tutte le forze, la battaglia non può essere vinta”.
Lo avessero ascoltato, gli avessero dato retta, forse oggi non saremmo al punto in cui siamo. Aemilia ci racconta di imprese private e cooperative che utilizzavano mano d’opera al lavoro nei cantieri, dopo il 2010, sette giorni su sette, ma dei quali solo tre venivano pagati regolarmente. Si arriva più o meno alle 70 ore medie mensili dichiarate per addetto. Come nel 1991. Come se nulla fosse cambiato.
Se negli anni passati avessimo letto “La Gru” e avessimo raccolto l’appello del segretario Fillea William Leoni, forse le cose sarebbero migliorate. Ma probabilmente a Reggio andava più di moda leggere “Lo Struzzo”, che è un uccello più grosso della gru e fa più scena. Peccato che non voli e sia abituato a mettere la testa sotto la sabbia.
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A proposito di gru”. Riceviamo e volentieri pubblichiamo, a commento dell’articolo di PB, l’opinione di Gianfranco Riccó, ex segretario della Camera del Lavoro di RE.
Quanto sostiene Leoni è vero, posso testimoniare per la mia esperienza di ex segretario della Camera del Lavoro che negli anni ’80 si verificò un cambio di scenario politico, anche a Reggio Emilia, che rompeva con la tradizione della sinsitra. Sono gli anni della rottura tra comunisti e socialisti che portarono la Cgil sull’orlo della scissione per volontà di Bettino Craxi. Dentro a questa vicenda dolorosa a Reggio ci fu la scelta evidente di una parte dei dirigenti del PCI reggiano di isolare i “disturbatori” della Camera del Lavoro rimasti a difedere i diritti dei lavoratori che scivolavano lentamente sul piano inclinato della globalizzazione economica. Allora non così evidenti come lo sarebbero stati negli anni ’90 quando il governo di centro-sinistra approvò la famigerata riforma Treu che apriva alla flessibilità del lavoro. Quella legge negli anni successivi portò a oltre 40 tipi di contratti diversi che dividevano i lavoratori ma di cambiamento economico ci fu solo la perdita di grandi gruppi industriali. Nell’edilizia c’era il far west e la fedezione del PCI, e successivamente il PDS, non interveniva politicamente sugli artigiani che erano a migliaia finti artigiani. La Camera del lavoro era isolata, non c’era più il sostegno politico della sinistra. Però nell’edilizia perdemmo la battaglia contro il sistema del cottimismo verso la fine degli anni ’70: imprenditori reggiani e caporali del meridione riuscirono a sconfiggere la Fillea-Cgil con l’assenza della politica. Negli anni ’80 si infilarono i primi mafiosi della ‘ndrangheta di Cutro e la politica della sinistra guardava sopratutto agli immigrati per il loro potenziale elettorale senza curarsi dei processi di integrazione e dei rapporti nella microsocietà cutrese trasferita nel reggiano.