IL KOLOSSAL AEMILIA
Paolo Bonacini, giornalista
Cinque giorni di arringhe, relative ad un terzo degli uomini alla sbarra nel rito reggiano del processo Aemilia, hanno consentito di apprezzare alcuni temi ricorrenti negli argomenti degli avvocati che li difendono. I nomi più noti tra questi cinquanta di imputati sono quelli di Antonio Valerio, uno dei tre collaboratori di giustizia che hanno scelto di parlare dopo l’inizio del processo, e di Alfonso Paolini, l’uomo introdotto in Questura e nel mondo del calcio che secondo l’accusa metteva a disposizione della consorteria le sue relazioni altolocate. Ma definire minori gli altri imputati sarebbe improprio, se non altro per le pesanti condanne, con una media di dodici anni a testa, chieste dai Pubblici Ministeri al termine della requisitoria.
Quanto siano pesanti queste richieste secondo le difese, lo dice una metafora utilizzata dall’avvocato Roberto Filocamo che tutela Giuseppe Aiello (9 anni e 4 mesi di carcere), Salvatore Lerose (6 anni e 6 mesi) e Francesco Florio (3 anni e 4 mesi): “Avete stanziato un cachet enorme per pagare alcune comparsate nel kolossal di Aemilia”.
Dove il cachet è da intendersi in “anni di galera” e le comparse sono gli imputati minori. Per alcuni dei quali, sempre secondo gli avvocati, l’accusa non si è neppure soffermata a spiegare, durante la propria requisitoria, quando, come e perché avrebbero commesso i reati dei quali il decreto di rinvio a giudizio firmato dal giudice Francesca Zavaglia il 12 dicembre del 2015 li chiama a rispondere.
Di espressioni colorite in queste giornate se ne sono sentite diverse e la palma d’oro del kolossal Aemilia, per il miglior attacco nell’arringa difensiva, spetta all’avv. Claudio Bassi, legale di Francesco di Via (chiesti 12 anni di condanna) e Francesco Viti (11 anni).
Il vicepresidente del Consiglio Comunale a Reggio, capogruppo di Forza Italia in Sala del Tricolore dopo le dimissioni di Giuseppe Pagliani conseguenti alla condanna in appello nel rito abbreviato di Bologna, ha esordito con voce squillante a beneficio dei presenti in aula (che normalmente faticano a comprendere cosa esce da un impianto di amplificazione certamente non all’altezza di un kolossal): “Eccellentissimi Giudici della corte, esimio Presidente, eccetera eccetera”, richiamando alla mente il grande Raymond Burr che interpretava Perry Mason in bianco e nero quando io ero ancora un bambino in braghe corte.
La conclusione più forte spetta invece all’avv. Vincenzo Belli per Antonio Muto ’55 (12 anni chiesti in abbreviato), che finisce citando una frase del suo assistito, a sua volta riferita a quanto detto molti anni prima dal presentatore televisivo Enzo Tortora, condannato a dieci anni di carcere e poi definitivamente riabilitato nel 1986 due anni prima di morire: “Io sono innocente. Spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi”.
Ma più che un kolossal questo processo appare dopo due anni, quando si iniziano ad intravvedere i titoli di coda, una grande e drammatica commedia italiana. Drammatica per gli effetti prodotti dalla presenza della ‘ndrangheta nei nostri territori, drammatica per i destini di 147 imputati sui quali pende la richiesta complessiva di oltre 1700 anni di carcere.
L’interrogativo di fondo, sul quale molti avvocato difensori si soffermano, è abbastanza banale: “L’associazione di stampo mafioso esiste in Emilia Romagna?”. O meglio ancora: “Gli imputati di questo processo, appartengono a una qualche associazione mafiosa?”
Risposta prevalente delle difese: “No”
Dice l’avvocato Stefano Vezzadini, martedì 12 giugno all’inizio della sua lunga arringa in difesa di Gianni Floro Vito (14 anni in abbreviato più 12,6 nel rito ordinario): “Qui siamo sideralmente distanti dal 416 bis”, il reato principe di appartenenza alla ‘ndrangheta. E aggiunge che il Pubblico Ministero Mescolini è stato molto abile nella sua requisitoria, ma essa è “contaminata da suggestioni trasferite nell’aula del tribunale attraverso l’ascolto di alcune intercettazioni”, non in grado a suo dire di sgombrare le “inutili nebbie” generate dalla letteratura socio giudiziaria che parla di espansione delle mafie nel nord Italia. Tra queste inutili nebbie l’avv. Vezzadini mette anche la stagione di sangue che segnò la lotta tra le cosche in provincia di Reggio Emilia nel 1992: “Siete sicuri che gli omicidi di quell’anno fossero davvero di stampo mafioso per il controllo del territorio?”
Domanda che ne sollecita immediatamente una seconda: “Perché, ci sono altre ipotesi sensate sul tappeto?
Solo tre giorni prima era stato il suo collega Roberto Filocamo a scomodare addirittura Kafka per dire: “La sentenza non arriverà a fine processo; è il processo stesso che poco a poco si trasforma in sentenza. Perché Aemilia è un processo che, contrariamente a quanto dovrebbe avvenire, non è impermeabile a ciò che avviene fuori dall’aula”.
Un processo sovraesposto, ingigantito, addirittura falsato dalle cronache della stampa con la quale avvocati e loro assistiti ancora non hanno fatto pace.
Fino ad oggi insomma, a parte il rigore delle contestazioni punto per punto mostrato in aula dall’avvocato Belli, le conclusioni delle difese paiono fortemente sbilanciate su argomentazioni non meno suggestive di quelle suggestive del Pubblico Ministero.
Suggestiva, per non dire surreale, è la tesi dell’avv. Falciani di cui abbiamo già parlato: egli sostiene in sostanza che il suo assistito Antonio Valerio, oggi collaboratore di giustizia, crede di avere appartenuto alla ‘ndrangheta ma si sbaglia, perché in Emilia la ‘ndrangheta non esiste. Suggestiva è l’idea che sembra trasparire dalla linea difensiva di Alfonso Paolini, definito l’uomo più intercettato di Aemilia. Ciò comporta secondo il suo avvocato De Belvis un contributo fondamentale alle indagini, ben più dei tre collaboratori di giustizia messi assieme, di cui bisognerà tener conto. Anche se le intercettazioni avvenivano all’insaputa di Paolini, non certo con il suo consenso.
E suggestiva è pure l’idea che il disegno di Antonio Valerio sull’universo della ‘ndrangheta a Reggio Emilia, con i suoi cerchi e le sue linee tratteggiate di dialogo, sia in contrasto con l’organizzazione classica a piramide delle cosche calabresi sconfessandone dunque l’esistenza, come sostenuto dall’avv. Belli a sostegno della tesi di Falciani.
Altro argomento comune a molti avvocati è la sproporzione tra reato e pena, soprattutto se la ‘ndrangheta in Emilia non esiste. Qui siamo semmai di fronte a reati comuni commessi da criminali comuni per i quali debbono valere tutte le attenuanti e gli sconti di pena possibili, qualora i giudici non ritenessero di accogliere la richiesta di assoluzione.
Se c’è un imputato che ha buoni motivi per lamentarsi della corposità della pena richiesta è Michele Bolognino, unico accusato del 416 bis con il grado di capocosca a non avere puntato sul rito abbreviato di Bologna. Dopo lo sdoppiamento del processo deciso a febbraio a Reggio Emilia, come conseguenza dei nuovi reati ipotizzati, Bolognino si ritrova oggi due richieste sulle spalle che sommano i 30 anni nel rito ordinario con altri 18 in quello abbreviato. 48 anni di galera non sono pochi: in Italia oggi non può farli nessuno ma i PM erano tenuti dalle norme sul processo a presentare due richieste separate. Toccherà poi al collegio giudicante decidere, escludendo la somma automatica delle richieste possibile invece negli Stati Uniti.
Nella seconda metà di giugno e nella prima quindicina di luglio parleranno gli avvocati degli imputati eccellenti: lo stesso Bolognino, i fratelli Vertinelli, Pasquale Brescia, Gianluigi Sarcone, Iaquinta padre e figlio, l’intera famiglia Bianchini per le collusioni con la ‘ndrangheta nei cantieri del post terremoto.
In attesa di sentire nuove suggestioni chiudiamo con una di quelle fatte ascoltare in aula dal procuratore Marco Mescolini. E’ il capo Antonio Gualtieri (12 anni nell’abbreviato di Bologna) che riferisce all’altro uomo di ‘ndrangheta Vincenzo Mancuso (30,6 anni tra abbreviato e ordinario a Reggio), cosa ha risposto a cinque napoletani (camorristi) che da Vincenzo pretendevano la riscossione di un credito:
“Gli ho dettooo… qua, soldi, non se ne prendono! Neanche un centesimo! E se andate là (da Vincenzo Mancuso), cinque ce ne siete, e dieci ne morite.
Quanti soldi dovete avere, eh??! Cinque, dieci, mille, treciento? Quanti sono!?
Tu, non prendi un cazzo. TU NON PRENDI UN CAZZO!!! Tu chiudi questa situazione che è già chiusa, hai capito?!
Che qua in cinque ne siete venuti, e se ne vanno morte cinquanta persone!!! Cinquanta morti. MORTI!!!
Andate via, sparite! Perché senti un po’: noi andiamo in giro per il mondo a cercare soldi, no?? E ora venite vvuua de nnuua (voi da noi)! VVVUUUA DE NNUUUA! IN CASA NOSTRA!!!! Ma ttu, brutto pisciaturo che non capisci niente, tu vieni e vuoi i soldi da nnoi, DE NNUUAA?? TU??!! Vai via! Vattene di qua che ti arriva nu bagno di sangue alla crapa che tu neanche te immagini. !! Che se noi andiamo a ccasa dei napoletani, prima ci informiamo e chiediamo permesso!
VATTENE VIA DA CCASSA NOSTRA!!”
Sarà una suggestione ma sembra proprio che Gualtieri e Mancuso facciano parte di una unica squadra. Ci tengono a difendere casa loro e si indignano quando in questa casa ci entrano dei mafiosi napoletani.
Peccato che la casa sia Reggio Emilia.
SCRIVETECI! cgilrelegalita@er.cgil.it