PAGLIANI CONDANNATO
Paolo Bonacini, giornalista
Alle 12,35 di martedì 12 settembre, nell’aula Vittorio Bachelet della Corte d’Appello di Bologna, il presidente del collegio che guida il rito abbreviato di Aemilia, dottoressa Cecilia Calandra, inizia a leggere il dispositivo della sentenza che interessa i 58 imputati (tra i 71 giudicati in primo grado) per i quali accusa e difese hanno presentato ricorso.
Non sembra seguire l’ordine alfabetico, la dottoressa Calandra, perché il primo nome citato è quello di Michele Colacino, decimo nella lista degli imputati che attendono di sapere, ma in realtà la sentenza segnala solamente i casi nei quali la corte ha deciso di modificare il giudizio di primo grado, accomunando tutti gli altri nomi sotto una sola riga: “Conferma nel resto la sentenza impugnata e condanna gli appellanti al pagamento delle spese processuali”.
Michele Colacino, nativo di Crotone e residente a Bibbiano, è il primo appunto (seguendo l’ordine alfabetico) per il quale l’assoluzione del primo grado si trasforma in condanna all’appello: quattro anni e otto mesi di reclusione, per “appartenenza all’associazione di stampo mafioso”. Si era legato all’uomo sbagliato, Romolo Villirillo, che aveva sottratto soldi alla cosca, dicono le storie dell’accusa, e quando l’ex capo emiliano viene messo all’indice da Nicolino Grande Aracri ci finisce in mezzo anche lui. Gli bruciano l’auto e bruciano pure quella di suo fratello, nello stesso 2012 in cui Colacino partecipa alla famosa cena “politica” al ristorante Antichi Sapori.
Il secondo nome è di un altro nativo di Crotone, residente a Montecchio. E’ l’uomo che ha impresso una svolta a questo processo iniziando a collaborare con la Direzione Distrettuale Antimafia nel febbraio dello scorso anno, il genio delle attività finanziarie e commerciali illecite, l’inventore della “complessità” nelle frodi carosello volte a sfruttare, anzi a truffare, le norme della Comunità Europea sull’Iva. Ed anche l’eccezionale evasore che nel 2012 metteva “zero” nella dichiarazione dei redditi mentre erano attivi 1.008 conti bancari su 51 istituti di credito, tutti nelle sue disponibilità.
E’ Giuseppe Giglio, al quale la pena del primo grado (12 anni e sei mesi) è stata più che dimezzata (sei anni) dalla sentenza odierna, che rispetta sostanzialmente la proposta dei Pubblici Ministeri. Considerato che sulle spalle di Giglio, in primo grado, pesava una richiesta di 20 anni avanzata da Mescolini e Ronchi, “l’uomo salito al nord con la Topolino e ridisceso con la Ferrari” può dirsi soddisfatto.
Il terzo nome pronunciato dalla dottoressa Calandra è invece di un reggiano doc, residente ad Arceto di Scandiano, quasi coetaneo di Colacino (un anno più vecchio): Giuseppe Pagliani. Anche lui assolto in primo grado, anche lui condannato oggi in relazione al capo originario di imputazione, il capo 6: “per avere concretamente contribuito, pur senza farne formalmente parte, al rafforzamento, alla conservazione e alla realizzazione degli scopi della associazione mafiosa”. Con quell’accusa era stato arrestato, la notte del 28 gennaio 2015, in quanto ritenuto “concorrente esterno” della cosca emiliana riconducibile alla famiglia Grande Aracri, e in seguito liberato dopo 22 giorni di carcere grazie alla sentenza del Tribunale del Riesame di Bologna che aveva annullato l’ordinanza di custodia cautelare. La condanna della Corte d’Appello è un numero pieno: quattro anni di reclusione, considerate le attenuanti generiche, più un anno di libertà vigilata. Per cinque anni inoltre Pagliani è interdetto, come Colacino, dai pubblici uffici.
E’ quella che si dice: “una notizia bomba”.
Perché in pochi se l’aspettavano, dopo la sentenza del 2016. Perché decreta la fine della carriera politica di Pagliani (ammesso che essere condannati in base al 416 bis sia una macchia inaccettabile per chi intende rappresentare i cittadini onesti nelle assemblee elettive). Perché le dichiarazioni rese al tribunale di Reggio Emilia dal collaboratore di giustizia Giuseppe Giglio sull’accordo Pagliani/Sarcone&C (volto ad attaccare le interdittive antimafia e a creare le basi per un consenso elettorale al PdL) arricchiscono sì la storia di nuovi dettagli sulla consapevolezza di Pagliani, ma si tratta di dettagli tutti riferiti, senza che mai Giglio ne fosse stato testimone diretto. E infine perché alle spalle c’era una assoluzione appunto, frutto di verifica e di sintesi sugli elementi di accusa da parte di un altro collegio giudicante, quello presieduto dalla dottoressa Francesca Zavaglia.
Eppure forse proprio in quella sentenza c’erano anche, leggendo bene tra le righe, i legittimi motivi di dubbio che lasciavano aperta la porta ad un possibile ribaltamento. Perché la dottoressa Zavaglia scriveva il 22 aprile 2016, come abbiamo ricordato in altre occasioni, che “E’ da escludere l’ipotesi sostenuta dalla difesa che Pagliani ignorasse la qualità criminale di Nicolino Sarcone, in quei mesi imputato nell’annoso processo Edilpiovra che lo vedeva accusato, tra gli altri reati, del delitto di cui al 416 bis proprio davanti al Tribunale di Reggio Emilia. Questa è una provincia in cui le notizie circolano rapidamente”.
Pagliani non poteva non sapere, dice in sostanza la dottoressa Zavaglia, chi aveva davanti a sé quando complottava nel marzo 2012. E più avanti nell’analisi aggiunge ancora il giudice: Pagliani “…si era visto offrire all’improvviso nuovi argomenti, una nuova linfa vitale, per le sue vecchie battaglie (contro la Masini e le Cooperative rosse)”. E ciò, sommato “ai voti dei calabresi comunque promessi, era divenuto una opportunità che poteva essere decisiva per la sua carriera politica. Un richiamo per lui irresistibile”.
Ma ciò che è irresistibile può essere anche pericoloso, come la sentenza di oggi dimostra.
Dopo questi tre nomi eccellenti le sette pagine del dispositivo lette oggi in aula si occupano di personaggi di minor peso, correggono e rideterminano alcune pene, assolvono Alfonso Patricelli e Vincenzo Spagnolo (tre anni complessivamente in primo grado) e determinano i pagamenti delle spese processuali.
Ma un’altra “notizia bomba”, a leggere bene tra le righe, c’è. Riguarda le sentenze di primo grado che vengono semplicemente confermate. Perché nella lista dei nomi stanno anche quelli di cinque dei sei personaggi rinviati a giudizio ed arrestati in quanto considerati i “capi della ‘ndrangheta emiliano romagnola: Nicolino Sarcone, Alfonso Diletto, Antonio Gualtieri, Francesco Lamanna, Romolo Villirillo. Tutti collegati in videoconferenza oggi dai rispettivi carceri (e come loro Nicolino Grande Aracri) per ascoltare la sentenza. Tutti con una condanna tra i 12 e i 15 anni di carcere che viene confermata.
Ora sono due per loro i gradi di giudizio, in attesa che per il sesto presunto capo, Michele Bolognino, arrivi la sentenza di primo grado da Reggio Emilia. Sono due le sentenze che certificano l’esistenza, la diramazione, la forza, la struttura, della cosca Grande Aracri operativa in Emilia Romagna. Presto, entro 90 giorni, arriveranno le motivazioni dei giudizi odierni e sulle decisioni che riguardano i singoli imputati si potranno comprendere meglio le ragioni del collegio.
Intanto resta questo dato complessivo: la cosca c’è (tocchiamo ferro e diciamo: c’era). Lo ha ribadito anche la Corte d’Appello nella bellissima aula titolata a Vittorio Bachelet, assassinato dalle BR nel 1980, dove le sentenze si pronunciano e si ascoltano fin dal lontano 1876.
E chi fa finta di non sentirle è un Complice, o un Codardo, o un Cretino.
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