NEL MEZZO DEL CAMMIN DI NOSTRA VITA
Paolo Bonacini, giornalista
Dante, nel “Convivio”, il giro di boa della vita umana lo collocava attorno al 35esimo compleanno ma sette secoli dopo, con un po’ di ottimismo, lo possiamo fissare a 50 anni. Quando si arriva al “mezzo del cammin di nostra vita” è forse il momento giusto per tirare un bilancio del passato e pensare al futuro.
Michele Bolognino un pezzo di questa riflessione l’ha fatta pubblicamente nelle udienze di martedì 16 maggio e giovedì 18, parlando in videoconferenza dal carcere.
Nato nel marzo del 1967 a Locri sulla riviera ionica, domiciliato a Praticello di Gattatico, residente per anni a Montecchio Emilia, attualmente detenuto nella casa circondariale di L’Aquila, Bolognino non ha chiesto il rito abbreviato, come fatto dagli altri cinque imputati accusati come lui di essere i “capi della associazione di stampo mafioso operante nell’intero territorio emiliano come un grande ed unico gruppo ‘ndranghetistico con suo epicentro in Reggio Emilia”.
Lui intende difendersi, contestare in aula le tesi dell’accusa e alla prima occasione, quando il Pubblico Ministero lo chiama a deporre, non si avvale, come fanno ad esempio Palmo e Pino Vertinelli, della facoltà di non rispondere. Bolognino vuole rispondere. E lo fa a cominciare dalle 13,57 di martedì, dopo una intera mattina spesa in schermaglie procedurali di scarso interesse, con un fiume di parole che spesso urtano quelle del procuratore Beatrice Ronchi facendo scoccare pericolose scintille in aula. La sua deposizione continua anche due giorni dopo, quando l’esame è condotto, il mattino, dal suo avvocato difensore Carmen Pisanello ed è possibile apprezzare lo scontato e diverso approccio alla storia di Bolognino da parte delle due dottoresse. Quella su cui chiede lumi il procuratore Ronchi inizia nel 1993 con l’affiliazione alla ‘ndrangheta da parte di Giovanni Bonaventura, boss della potente famiglia di Crotone, e con la condanna nel 1994 per il reato di associazione di stampo mafioso. La storia che interessa l’avvocato Pisanello comincia invece dieci anni dopo, quando Bolognino esce di galera e inizia a lavorare in regime di semilibertà. “Ho deciso che il crimine non pagava; volevo dare un taglio col mio passato criminale” dice ad entrambe riferendosi al 2003, “e l’ho fatto andando a vivere a Montecchio in un appartamento di 35 metri quadri in affitto, ricostruendo i rapporti con la famiglia dalla quale era stato lontano quasi dodici anni, riappacificandomi con mia cognata Maria Mirella Rimedio, collaboratrice di giustizia e in passato responsabile del mio arresto. Se fossi davvero un capomafia non l’avrei mai fatto”.
Il quesito di fondo sul quale il Tribunale dovrà pronunciarsi al termine di questo processo, nello scrivere la sentenza per Bolognino, è fortemente legato a queste due storie passate. E’ entrato nella ‘ndrangheta e non ne è mai uscito, come sostiene l’accusa? Ha iniziato con i Megna in Calabria e proseguito con i Grande Aracri in Emilia, diventando un capo riconosciuto del gruppo?
Oppure ha chiuso con la mafia dopo il lungo periodo della galera e sbarcato a Montecchio ha cercato di rifarsi una vita normale, come lui ripete cento volte e la difesa avvalora?
Per rispondere bisognerà valutare non solo la accalorata arringa difensiva dell’imputato, proseguita anche nel controesame del pomeriggio condotto dal procuratore Marco Mescolini, ma soprattutto la credibilità delle sue spiegazioni in relazione ai fatti accertati su cui l’incalza l’accusa, e ancor di più forse le conseguenze di una linea difensiva che per sfuggire al capo di imputazione più pesante, quello del vincolo mafioso, si spinge a giustificare tutto e tutti rischiando di dimenticare anche i più elementari principi di verosimiglianza e i riferimenti al contesto storico, normativo, sociale.
I temi sui quali la difesa di Bolognino ha mostrato vistose crepe sono tanti.
Le amicizie strette a Reggio Emilia nella seconda vita che sembrano ricalcare tanto la prima (il top dei personaggi reggiani in odore di mafia, da Sarcone a Diletto, da Giglio a Blasco).
La contraddizione tra un regime dichiarato di stenti e difficoltà nel ripartire, dopo la galera, e le macchine di lusso, i camion, le società, le decine di dipendenti, il gran daffare che segnano la sua seconda vita.
La spiata di un capocarrozzeria che lo invita a non portargli più la BMW a riparare perché “Polizia e carabinieri fanno a gara a venirci a mettere sopra le microspie” e lui che per mesi fa finta di nulla: non chiede spiegazioni e non le toglie. Il vantaggio strategico è evidente, dirà l’accusa: “Loro sanno ciò che io dico in auto ma io so che loro sanno e dico ciò che è utile a depistarli”.
L’idea che i lavoratori (i suoi) fossero merci che si potevano prestare, o affittare, o vendere (in particolare alla Bianchini Costruzioni srl per i lavori post terremoto) e che pagarli una parte in nero (lui) e una parte in busta (Bianchini), e poi comandarli (lui) sebbene dipendenti di un altro (Bianchini), fosse un modo legittimo come tanti di regolare la fornitura di manodopera. “Fanno tutti così in edilizia”, ha detto.
Ma tutti chi? E se tutti fanno qualcosa di illecito, quel qualcosa diventa allora lecito?
Si potrebbe continuare con tanti altri temi affrontati in udienza, ma ce n’è uno dirimente, del quale forse la difesa Bolognino non ha valutato attentamente le implicazioni. Oppure le ha valutate ma costruire una spiegazione plausibile era impresa ardua. Il tema sono gli incontri a Cutro con Nicolino Grande Aracri, negli anni dell’inchiesta Aemilia, documentati dalle intercettazioni dell’attività investigativa.
“Uno o due” dice Bolognino; “Quindici” replica l’accusa; “Cinque” quelli sicuramente avvenuti oltre ogni ragionevole dubbio. Ad incalzare l’imputato che gira attorno al problema, senza consentirgli troppe divagazioni, è il presidente del Tribunale Francesco Maria Caruso nelle domande finali di giovedì pomeriggio:
“Si dice che dalla ‘ndrangheta si esce o con la morte o con la galera. E allora lei come ha potuto chiudere col crimine nel 2003 ed andare a trovare Nicolino Grande Aracri dieci anni dopo per chiedergli dei favori?”
“Perché noi ci conoscevamo dal 1989”.
“Perché lui abitava a Cutro vicino ai miei parenti di Papanice”.
“Perché da noi in Calabria si usa così: se hai un problema ti rivolgi a qualcuno che conosci”.
“Perché l’uomo che mi doveva dei soldi a Reggio Emilia era originario di Cutro ed allora speravo che Grande Aracri mi aiutasse a riaverli”.
“Perché da Nicolino Grande Aracri ci andavano tutti”.
Ma tutti chi?? E perché proprio da lui e non dal signor Mario Rossi?
Le risposte di Bolognino sono tante ma l’impressione è che restino tutte sospese a mezz’aria, senza sufficiente peso per scendere a terra a controbilanciare l’altra ipotesi, quella della Procura Antimafia: “Ci sei andato e lui ti ha ricevuto perché appartenevi alla sua cosca”.
Di questa volatilità delle parole di Bolognino si dimostra consapevole il Presidente quando gli chiede con molta calma ed espressione severa: “Dobbiamo ritenere normale e verosimile che lei, dopo aver visto per l’ultima volta Nicolino Grande Aracri, come sostiene, nel 1989, un bel giorno parte e lo va a trovare più di vent’anni dopo a Cutro; suona il campanello e lui le apre e la fa entrare e la ascolta pure?”
E’ difficile rispondere ad una domanda così, ma la strada scelta dalla difesa è un senso unico senza curve e in esso si incanala anche l’avvocato di fiducia dottoressa Pisanello quando chiede al suo assistito: “Lei si rivolgeva a Nicolino Grande Aracri come mafioso, o come uomo?”
Perché, è forse possibile scindere le due cose?
Ma Bolognino rincara la dose con la risposta: “Se era mafioso o non era mafioso, sono fatti suoi!”.
Come giocare a scacchi o la passione per il bricolage: appartenere alla mafia è una scelta personale e non basta certo a mettere in discussione un’amicizia.
Difficile accettare questa filosofia in un processo così importante e così denso di elementi devastanti per la comunità che ha subito l’infiltrazione mafiosa. Michele Bolognino si è definito più volte, nei due giorni del proprio interrogatorio, un signor “Nessuno”, ma di fronte non aveva un Polifemo che andava in confusione per le sue parole.
L’impressione finale è che l’imputato più importante di questo rito ordinario del processo Aemilia, nel mezzo del cammin della sua vita, si sia infilato “in una selva oscura” di spiegazioni facili e poco coerenti a sostegno della tesi: “Non appartengo più alla ‘ndrangheta dal 2003”.
E resta forte il dubbio che anche dopo quella data, per lui, “la diretta via fosse smarrita”.
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