IL CASO E’ ARCHIVIATO
Paolo Bonacini, giornalista
Sabato 22 aprile 2017 il GIP del Tribunale di Reggio Emilia Giovanni Ghini ha depositato la propria sentenza, datata 19 aprile, in merito alla denuncia presentata dall’avvocato Carlo Taormina per conto di Giuseppe Iaquinta contro l’ex Prefetto di Reggio Emilia Antonella De Miro. Denuncia che risale alla primavera del 2015 e che accusa il “Prefetto antimafia” di falso ideologico e abuso in atti d’ufficio.
Ghini ha ordinato l’archiviazione accogliendo la richiesta del sostituto procuratore Giacomo Forte che per due volte aveva chiesto il “non luogo a procedere”. Se il PM che deve formulare l’accusa chiede l’archiviazione, viene da pensare, la denuncia non ha grande consistenza. Ed è quello che in molti abbiamo pensato giovedì 2 febbraio quando a sorpresa, dopo che l’attuale Prefetto di Palermo si era seduta per raccontare la sua esperienza e la sua azione negli anni delicati delle direttive antimafia, l’avvocato di Iaquinta ha chiesto alla Corte del processo Aemilia di non ascoltarla come semplice testimone, bensì come imputata di reato connesso.
Un reato che sono loro stessi, Giuseppe Iaquinta e Carlo Taormina, ad ipotizzare e che l’avvocato sempre il 2 febbraio riassume più volte ai microfoni dei giornalisti a quali rilascia volentieri interviste: “Abbiamo denunciato la De Miro” perché alla base dei suoi provvedimenti di esclusione di aziende dalla White List o di revoca del porto d’armi, per Iaquinta in particolare, “c’erano solo presupposti immaginati o non comprovati, nemmeno da elementi indiziari di sospetto”. Un arbitrio insomma; una allucinazione da punire penalmente. Ma pur ritenendo l’atto ingiusto, Iaquinta e Taormina non hanno fatto ricorso al TAR contro l’interdittiva. La loro azione è tutta concentrata su un unico obbiettivo: sgretolare l’immagine del Prefetto che risvegliò la comunità locale e importò a Reggio la cultura del rigore e della chiusura ad ogni possibile spazio di compromesso nella lotta alle penetrazioni mafiose.
Un tentativo “dalle gambe corte”, verrebbe da dire, se non fosse che i tempi della Giustizia non sempre rendono giustizia e ci sono voluti due anni al Tribunale di Reggio per dire che quella denuncia e quel tentativo erano privi di fondamento. E a questa lunga, innaturale attesa, si è aggiunta la decisione del collegio di Aemilia che ha ritenuto corretto ascoltare il Prefetto difeso da un legale, come chiedeva Taormina. Non era scontata questa scelta, come hanno sostenuto opponendosi alla richiesta sia il Pubblico Ministero Mescolini che avvocati di parti civili.
Quando finalmente martedì 4 aprile la dottoressa Da Miro ha deposto (difesa da un legale dello Stato in quanto ancora in attesa del pronunciamento del giudice Ghini!) diversi avvocati difensori le hanno chiesto perché avesse dato le interdittive antimafia a Tizio e Caio e non anche a Sempronio. E’ come chiedere ad un poliziotto che ha appena arrestato un rapinatore perché non ha arrestato “tutti” i rapinatori a piede libero. Una domanda priva di senso a meno che, abbiamo scritto, andare su quel terreno non sia “un tentativo per screditare o delegittimare”.
Per distogliere l’attenzione dal vero oggetto del processo che nel caso di Giuseppe Iaquinta, secondo la DDA, è aver commesso il reato previsto dal 416 bis, cioè aver fatto parte della associazione mafiosa di stampo ‘ndranghetistico che operava in Emilia Romagna: “essendo costantemente in contatto con gli altri associati, tenendo rapporti continui con Sarcone Nicolino, avendo avuto contatti diretti con Grande Aracri Nicolino, partecipando alle riunioni del sodalizio, utilizzando il rapporto con gli altri associati come forma di allargamento della propria influenza e capacità affaristica e di inserimento nel sistema economico emiliano”. Dice così l’ordinanza di rinvio a giudizio nei suoi confronti firmata dal giudice Zavaglia il 21 dicembre 2015.
Dopo l’udienza del 4 aprile è uscito in questa rubrica un articolo titolato “La Quaresima di Aemilia”. Il Prefetto di Palermo lo ha letto e ci ha inviato alcune sue riflessioni. Era una lettera privata e spero la dottoressa De Miro non ce ne vorrà se oggi, dopo l’archiviazione del procedimento a suo carico che evita letture strumentali, ne pubblichiamo alcune parti.
“Gentile dottore, le mie parole (al processo) con discrezione hanno voluto delineare l’azione che deve muovere un funzionario dello Stato rispettoso dei valori democratici impressi nella nostra Carta Costituzionale e del giuramento di fedeltà alla Repubblica ed alle leggi dello Stato.
Chi proviene da una terra di origine della mafia, come me, conosce l’importanza di una visibile e chiara scelta di campo, la necessità di prendere le distanze dalla mafia in maniera netta, senza se e senza ma, senza pavidità, con coerenza di comportamenti nella vita professionale e personale.
Una condanna netta, un impegno civico che non può essere tuttavia soltanto delegato a chi esercita una pubblica funzione, ma che deve animare ciascun cittadino che ha a cuore il bene della comunità, perché la mafia è negazione del diritto e dei diritti, è negazione della libertà, la mafia divora lentamente l’economia legale e restringe gli spazi di democrazia.
A Reggio Emilia, purtroppo, si è consumato un grande equivoco e cioè che l’uomo di ‘ndrangheta è pericoloso solo in terra di Calabria e nei rapporti con i conterranei, mentre può essere “normale”, “bravo ed educato” lavoratore, commerciante, imprenditore, se opera in un contesto diverso per cultura e storia.
Sappiamo che non è così, e il processo Aemilia ha il merito di avere messo tutti dinnanzi ad una ovvia verità, palesando anche le intimidazioni subite da funzionari dello Stato solo per avere voluto fare il proprio dovere fino in fondo, dando applicazione alle leggi dello Stato.
Per questo è determinante continuare a raccontare il processo, è un importante contributo alla crescita di una vera consapevolezza.
Con cordialità: Antonella De Miro.”
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