VERSO IL 7 LUGLIO – L’INDISPENSABILE DIALOGO TRA GIUSTIZIA E LEGALITA’
di Paolo Bonacini, giornalista
Il 1960 e l’epoca attuale. Due momenti storici caratterizzati da un duro attacco ai diritti fondamentali del cittadino: le libertà, la dignità, il lavoro. Diritti messi in discussione allora da un governo che si reggeva sfacciatamente sulla stampella dell’MSI; oggi dalla combinazione nefasta, dilagante nel paese, di istigazione all’odio e sovranismo, capaci di offuscare i principi irrinunciabili alla base della nostra democrazia: antifascismo, solidarietà, uguaglianza.
Che le mafie ci sguazzino e si ingrassino, in questa cornice di degrado etico e politico, è solo la conseguenza, non certo la causa.
Leggere i tratti comuni di queste epoche lontane significa ragionare sul binomio legalità/giustizia: due parole che spesso utilizziamo come sinonimi sebbene abbiano significati diversi e implichino differenti sfere di merito.
Il rispetto della legalità è un fondamento del vivere comune in democrazia. Ma non sempre ciò che è legale è anche giusto, ed è compito politico e collettivo produrre giustizia e orientare la legalità quando lo spazio dei diritti si comprime togliendo l’aria per respirare alle persone.
Il 7 luglio 1960 a Reggio Emilia, ci dice la sentenza 56/64 della Corte d’Assise di Milano pronunciata 4 anni dopo l’uccisione di cinque persone in piazza, i poliziotti e i carabinieri che spararono non commisero alcun reato perché eseguirono gli ordini ricevuti “al fine della rigorosa tutela dell’ordine pubblico e della libertà del lavoro, per prevenire qualsiasi tentativo di cortei non autorizzati”. Le squadre di polizia dovevano eseguire “perlustrazioni col preciso compito di frustrare sul nascere qualsiasi tentativo di assembramento”. Anche a costo, evidentemente, di sparare ad altezza d’uomo ferendo una trentina di persone e ammazzandone cinque.
È dura accettare l’idea che ciò sia legale, che si siano uccisi dei lavoratori per “tutelare la libertà del lavoro”, ed è forse ancora più dura quando nella sentenza si legge che diversi agenti sono stati assolti perché “il fatto non sussiste”.
Andatelo a dire a Silvano Franchi, che “il fatto non sussiste”. Andate a chiedergli come sta suo fratello Ovidio, perché se “il fatto non sussiste” allora dovrebbe essere ancora vivo e ci siamo sbagliati noi… Andate a chiedere a Oldano Serri se ha mai più giocato in cortile con suo papà Marino…
Sarà legale ma non c’è nulla di giusto in quella sentenza. Come non c’era nulla di giusto nelle cariche armate della polizia che uccise. Eppure i famigliari delle vittime, i lavoratori che al pari di Ovidio, Lauro, Marino, Afro ed Emilio avevano scioperato, in definitiva la stragrande popolazione di Reggio Emilia, non risposero a quella ingiustizia violando la legalità; non pretesero, come fanno oggi le mafie e i centri di potere che con esse dialogano senza imbarazzo, di imporre un sistema diverso di regole e valori; non misero a ferro e fuoco la città. Corrado Corghi, il segretario regionale della DC all’epoca dei fatti, ricorda nel film “Vento di luglio” la cosa che più lo impressionò nel giorno dei funerali dei cinque martiri ai quali lui stesso volle partecipare a fianco dei dirigenti del PCI: “Il silenzio”.
Migliaia di persone che piangevano. In silenzio. Senza scatenare reazioni violente, neppure a parole. È la risposta di un popolo che non ha bisogno di riflettere su cosa significhi democrazia; che ne riconosce i principi naturalmente, nelle proprie pratiche, che farà certamente tutto quanto in suo potere per ottenere giustizia, ma senza dirottare dalla legalità che assume come fondamento e linguaggio comune nella propria vita. Anche quando legge, ed è una provocazione che manda il sangue alla testa, il titolo pubblicato il 9 luglio dalla Gazzetta di Reggio, allora in mano a un editore certamente più amico di Almirante che di Togliatti: “Ritornata la calma in città”. Come a dire: tutto è bene ciò che finisce bene.
Basta questo per capire cosa intendesse Delfina Franchi quando disse al Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale, nel settembre 2001: “Io non voglio vendetta. Io voglio solo verità e giustizia”. Quella verità ancora negata ufficialmente e che dopo quell’incontro fu finalmente possibile scolpire nella storia, attribuendo la dignità di martiri ai cinque morti di Reggio Emilia.
Quella giustizia che si potrà dire completata solo quando anche la legalità farà un passo avanti rispetto al processo che fu tolto dalla sua sede naturale di Reggio Emilia. Andrebbe rifatto; non per condannare sessant’anni dopo le persone che spararono, ma per condannare le ragioni e i moventi politici di quei colpi di pistola e di fucile. Ragioni e moventi tutt’altro che legali, tutt’altro che democratici.
Oggi siamo qui a chiederci cosa ci sia di giusto, o anche più semplicemente di umano, nel voler condannare chi soccorre migranti in mare e chi dà asilo a profughi sulla terra. Cosa ci sia di colpevole nel dramma umano di quei disperati che fuggono da guerre, povertà e prospettive di morte. Siamo a chiederci cosa ci sia di giusto nel piegare l’intero mercato economico alla logica del massimo profitto e alla distruzione della dignità e dei diritti del lavoro, producendo disuguaglianze che provocano danni irreversibili alle comunità, alla salute fisica e mentale, agli ambienti, al rispetto della legalità. Sono l’economia truccata e l’aumento del divario tra ricchezza e povertà, dicono premi Nobel e studiosi statunitensi come Joseph Stiglitz e Robert Sapolski, a generare oggi una crescita esponenziale dei tassi di imbarbarimento delle relazioni umane, di violenza e di illegalità. Non certo i flussi migratori. L’andamento delle disuguaglianze nel mondo è stato analizzato con rigore scientifico, e la forbice dei redditi ci dice che tra il 1970 e oggi l’1% della popolazione mondiale più ricca ha visto quadruplicare i propri ricavi e patrimoni, mentre il 90% della popolazione più povera è ancora più povera.
Questa è “la colossale ingiustizia dei tempi nostri” sulla quale si innescano anche le mafie che offrono l’illusione di scorciatoie per l’arricchimento facile. Ma a ben vedere il male viene prima delle soluzioni proposte dalla ‘ndrangheta. Il male è il sistema di regole che accettiamo quasi come ineluttabile e che consente a questo tumore della disuguaglianza di diffondersi senza freni. Il male è la mancanza di consapevolezza che solo attraverso la rivendicazione di maggiore giustizia potremo ottenere maggiore equità e dunque un codice di legalità più aderente ai valori della democrazia e del diritto. È battaglia politica, perché nessuno regala nulla a nessuno. Ma almeno in queste terre non dovremmo avere paura a combattere le giuste battaglie per l’affermazione dei diritti collettivi. La sentenza della Terza Sezione del Consiglio di Stato del 30 gennaio 2019, che sancisce la legittimità di una informativa antimafia redatta dalla Prefettura di Napoli, dice: “Anche le imprese hanno un limite nel proprio operare fissato dalla Costituzione, che vincola l’iniziativa economica privata, benché libera, a non svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Oggi, dopo il processo Aemilia, più persone di prima dovrebbero essere consapevoli che la regola degli “affari senza regole” è un attentato alla libertà dell’impresa, alla sua utilità collettiva e alla dignità umana, che offre sponde per l’approdo di qualsivoglia sistema illecito di accaparramento dei profitti e dei poteri. Mafie incluse, naturalmente. Anche nel 1960 era evidente che abbracciare nuovamente i fascisti per la guida del Paese avrebbe rappresentato un “attentato alla dignità umana”; eppure allora ci fu chi tentò comunque di rendere legale ciò che era ingiusto. E dovette fare marcia indietro solo grazie a una generale e convinta reazione collettiva che pagò con molte morti la propria scelta di campo nella democrazia.
È la stessa sfida di oggi. E certamente anche di domani. Tenere gli occhi aperti, e avere chiaro per cosa combattiamo, è la nostra “frontiera avanzata della prevenzione” in difesa di una giusta legalità, ancor più necessaria quando il territorio è contaminato e le idee sono confuse.
Articolo pubblicato per gentile concessione di “Notiziario Anpi Reggio Emilia”
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