UN POLIZIOTTO, QUALCHE ALBANESE, MOLTE MAZZETTE
di Paolo Bonacini, giornalista
Nel 2016 Giuseppe Giglio, collaboratore di giustizia nel processo Aemilia, parla a Venezia con i sostituti procuratori della Direzione Antimafia. Fa il nome di una società estera, la Italcantieri SHPK, “formalmente costituita da me, Pasquale Riillo e da Refat Muzhaqi” in Albania.
Alcuni giorni dopo è la dott.ssa Beatrice Ronchi della DDA di Bologna a chiedergli lumi su questa storia e Giglio risponde: “Diciamo che siamo arrivati in Albania tramite degli appalti di lavoro. Tramite questo Refat e altri personaggi poco raccomandabili, che furono mandati da Pino Codamo a Riillo. E Riillo li presentò a me”.
Pasquale Riillo e Giuseppe Codamo sono due fedeli collaboratori di Giglio, condannati in primo grado dal collegio reggiano del processo Aemilia a 26 anni e 8 mesi il primo, 6 anni e 6 mesi il secondo.
Codamo, crotonese di 63 anni residente a Vignola, è accusato di avere partecipato per la cosca al furto di 190 pneumatici Bridgestone da un Tir, simulando una rapina e il sequestro dell’autista, in realtà loro complice, con tanto di falsa denuncia ai Carabinieri di Suzzara. Che però hanno fiutato la messinscena.
Pasquale Riillo è invece un personaggio di primo piano, braccio destro di Giuseppe Giglio nel prendere e rilanciare l’organizzazione delle truffe societarie e delle frodi carosello ideata nel modenese da Paolo Pelaggi e poi stroncata dall’indagine e dal processo Point Breack. Nato a Isola Capo Rizzuto nel 1966 e residente a Viadana, aveva lavorato per le cosche del suo paese d’origine, gli Arena e poi i Nicoscia, prima di affidarsi agli esponenti emiliani dei Grande Aracri, dopo la fine dei regolamenti di conti tra le famiglie crotonesi.
Assieme a Giglio era a capo di una miriade di imprese, vere o fantasma, con le quali operavano in tutta Europa. Per costituire la società albanese si affidarono al commercialista di fiducia Donato Agostino Clausi, condannato definitivamente a 10 anni e 2 mesi in Cassazione, sulla cui natura di professionista al servizio della cosca fa fede un intercettazione telefonica di Giglio: “Se non è presente quando ci sono queste operazioni, a cosa mi serve il commercialista?”
L’obbiettivo era acquisire appalti pubblici, grazie all’interessata intermediazione di alcuni parlamentari del governo albanese, ai quali sarebbe poi andato il 10% del valore della commessa.
L’albanese Refat Muzhaqi, che deve entrare in società con Giglio e Riillo, arriva nel 2011 da Tirana a Gualtieri dove vengono definiti gli accordi nell’ufficio della Giglio srl.
Mentre Giuseppe Giglio spiega queste cose alla dott.ssa Ronchi, interviene il maresciallo del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Modena Emidio D’Agostino e c’è un veloce scambio di battute:
D’Agostino: “Non dovevate costruire un tratto d’autostrada?”
Giglio (sorpreso): “Quindi lei lo sa?”
D’Agostino: “Certo che lo so. C’era pure un mezzo poliziotto in mezzo?”
Giglio: “Bravissimo. C’era anche un mezzo poliziotto.”
Il mezzo poliziotto è il vero ago della bilancia. Contatta Giglio e la cosca attraverso Codamo, col quale ha già fatto affari in passato, ed è definito “mezzo” perché corrotto e perché pur non volendo comparire è l’esperto di collegamento per gli affari sporchi in Albania: “Aveva tanti di quegli agganci che solo Dio lo sa”. Il suo nome non lo fa Giglio ma il maresciallo D’Agostino che ha evidentemente già un dossier con tanto di foto: “Vi dico anche come si chiama il poliziotto: Raffaele Gidari. Di Bologna”.
E Giglio conferma: “Esatto, di Bologna. Ce l’ha in casa, dottoressa”.
I passaggi successivi dell’interrogatorio raccontano che l’appalto riguardava un tratto di tangenziale a Tirana, lungo dai 5 ai 7 chilometri, oltre ad una serie di lavori sulla rete fognaria e sulle condutture per il gas. Il valore della bretella stradale era sui 18 milioni di euro, quello per le condotte sui 3 milioni. Oltre al 10% sull’imponibile che spettava agli “Onorevoli del Governo”, da pagare anticipatamente, un altro 5% sarebbe andato al poliziotto bolognese. Secondo Giglio era lui, assieme ad alcuni suoi compari, il terminale in Italia degli albanesi corrotti.
“Era la prassi”, spiega Giglio, che fiuta l’affare e si spinge avanti: viaggi all’ambasciata di Milano, costituzione della società mista italo/albanese, garanzie offerte dalla Giglio srl, trasferte in aereo da Bologna a Tirana con Riillo e Gidari per incontrare i due membri del Governo, chiamati signor Carlo e signor Pasquale, in grado di orientare gli appalti verso amici compiacenti, affidamento a Donato Clausi del compito di preparare le carte. Nel primo incontro a Tirana Giglio assolda anche un interprete personale presso l’hotel in cui alloggia perché non si fida degli albanesi: “Siamo andati proprio nel Ministero e abbiamo incontrato l’Onorevole signor Pasquale, che si occupava di lavori pubblici, e l’altro Onorevole. Ci hanno portato a mangiare in un grattacielo, a Tirana, dove c’erano solo politici e basta”.
Il primo lavoro che viene assegnato alla neonata società è un tratto di conduttura del gas lungo un chilometro, ma prima di aprire il cantiere nasce un problema tra il poliziotto e Pasquale Riillo che gli ha prestato dei soldi, tra i 5 e e 10mila euro, e arriva a minacciarlo quando il bolognese ritarda nella restituzione. Giglio si arrabbia con Riillo: “Dico, ma sei scemo? Ci fanno costituire la società, ci mandano il contratto proprio lì dove c’è il Governo…”. Sottinteso: e tu mandi all’aria un affare di milioni per 10mila euro?
Sì.
Riillo si impunta, racconta ancora Giuseppe Giglio, e non vuole pagare anticipatamente il 50% della tangente dovuta agli albanesi. E’ cocciuto e fa saltare l’accordo. Il commento di Giuseppe Giglio è amaro: “Non si è fatto più nulla dottoressa: contratto pronto, appalto pronto, ma non siamo più andati giù ad iniziare il lavoro”.
La storia potrebbe finire qui se non fosse che i dettagli dell’appalto chiamano in causa un altro personaggio eccellente del processo Aemilia. Lo introduce sempre Giglio durante il suo racconto mentre ancora si dispera per l’affare svanito: “Prima di quando sono andato a parlare con l’Onorevole albanese, ci erano già stati mandati i progetti con il tracciato della strada (la tangenziale di Tirana), che abbiamo visionato insieme con Bianchini, perché ci serviva un sopralluogo per capire com’era il terreno: se tutto pari o collinoso…”
“Bianchini??” chiede la dottoressa Ronchi: “Mi scusi, avete mandato a Bianchini i progetti perché in qualche modo doveva essere coinvolto?”
Stanno parlando naturalmente di Augusto Bianchini, titolare della omonima Bianchini srl di SaN Felice sul Panaro, condannato in primo grado in Aemilia a 9 anni e 10 mesi di reclusione. Giglio spiega: “Doveva essere coinvolto, in quanto la finitrice per l’asfalto e per il livellamento non l’avevamo, non avevamo il rullo. E’ vero che avevamo i camion, avevamo gli escavatori e magari le ruspe, però ci mancava una parte delle attrezzature”.
Augusto Bianchini ha le attrezzature necessarie o sa dove trovarle, e gli uomini di ‘ndrangheta gli portano le foto del tracciato da realizzare che sembra non presentare particolari difficoltà.
Ronchi: “Quindi Bianchini non si è mai tirato indietro?”
Giglio: “No, non si è mai tirato indietro. Come non si era tirato indietro neanche su quel pezzo di autostrada che ci avevano dato sulla Salerno Reggio Calabria.”
Ronchi: “Anche a lui andava una parte dei guadagni?”
Giglio: “Sì. Noi prendevamo l’appalto come Italcantieri e Bianchini l’avremmo coinvolto nei lavori con una partecipazione. Tenga presente dottoressa che se al poliziotto, su 18 milioni di lavori, gli andava il 5%, gli toccavano alla fine 900mila euro. Attenzione! Non è che stiamo parlando di mille o duemila euro: stiamo parlando del 5% di una cifra importantissima, dottoressa”.
Che l’affare milionario sia saltato per l’impuntatura di Riillo suona strano. Che gli appalti conditi di tangenti in Albania fossero arrivati a portata di mano della cosca reggiano/modenese suona invece molto credibile. Di là dall’Adriatico Giglio e Pelaggi c’erano approdati grazie ad alcuni albanesi di Milano vicini a Mimmo Pompeo, coi quali si erano incontrati grazie ad Antonio Mercurio. Facevano passare alla frontiera “Ipod sdoganati come memory card”.
Mimmo Pompeo era un potente boss milanese della cosca Arena di Isola Capo Rizzuto, benché cresciuto nel clan dei Catanesi, legato alla mafia corleonese e “figlioccio di Luciano Liggio”. Ai suoi funerali nel 2017 partecipò il gotha delle famiglie storiche calabresi, svizzere e slave, dai Tallarico ai Pittella, dai parenti del superboss Pepè Flachi agli skin milanesi dell’ultradestra, dai narcotrafficanti slavi alle famiglie del cantone dei Grigioni in Svizzera. Antonio Mercurio porta il nome di un affiliato alla potente famiglia Mannolo di San Leonardo di Cutro, originario di Botricello, che figura tra i 35 arrestati su ordine della DDA di Catanzaro nell’operazione Mala Pianta del 29 maggio scorso.
Diramazioni e legami, uomini e clan, apparentemente senza fine. Sospesi nel regno incerto della memoria di un collaboratore di giustizia. Ma con storie che passano da Reggio Emilia e lasciano in provincia la traccia indelebile degli affari sporchi di mafia.
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