UN NUOVO PRIMO MAGGIO

29 Aprile 2019

di Paolo Bonacini, giornalista

Pio_la_torre

Un anno fa, alla vigilia del Primo Maggio 2018, scrivevamo che un modo per raccontare l’infiltrazione della ‘ndrangheta in Emilia Romagna è “seguire le tracce del caporalato, del lavoro sfruttato e malpagato, dei badili e del gesso portati da manovali capaci venuti dal Sud”. Una migrazione dettata dal bisogno, alla quale si unirono le scorciatoie illecite scelte dalla criminalità organizzata per i propri sporchi affari.

Più approfondiamo l’analisi storica più il calendario scorre all’indietro; più la fetta di tempo nella quale abbiamo convissuto senza battere ciglio con uomini e attività di mafia si amplifica. Siamo partiti dalle indagini di Aemilia incentrate sui reati del terzo millennio, dalle scorribande di Sarcone, Grande Aracri & C. nel ricco tessuto economico dell’Emilia Romagna. Per scoprire poi che le cosche avevano già “marchiato col sangue” la nostra regione, seminando decine di morti per il controllo del territorio nella guerra di mafia che ha segnato gli interi anni Novanta. E ancora più indietro, agli anni Ottanta, paradiso di boss al confino come Totò Dragone che dettava legge a Montecavolo e organizzava in provincia di Reggio “il G7 della ‘ndrangheta”, con altri importanti capicosca. Ma prima venivano gli anni Settanta, quando ancora i Ciampà e i Vasapollo andavano d’accordo e in accordo davano fuoco al night Pink Pussycat in pieno centro a Reggio Emilia per intimidire i proprietari. Se non è ‘ndrangheta questa… Salvo che allora qualcosa andò male e mentre uno dei due autori dell’incendio riuscì a scappare l’altro bruciò nel rogo scatenando un regolamento di conti senza fine.

Il collaboratore di giustizia Antonio Valerio colloca l’inizio di entrambi i fenomeni legati al mondo del lavoro, l’esodo di massa e il suo sfruttamento da parte della ‘ndrangheta, oltre mezzo secolo fa: “Nel 1967 partirono i primi e assieme alla manovalanza arrivava il caporalato sia sul lavoro che nel dormire. Perché prendevano un appartamento e ci mettevano dentro venti, trenta persone. Come fanno con i neri adesso: era uguale”.

Alla base di tutto ci sono appunto questi anni Sessanta della prima grande migrazione, quando anche Antonio Valerio segue quel fiume di manovali, intonacatori e operai che sfocia a Reggio Emilia. Un mare di gente che saliva “come le flotte dei barconi che arrivano a Lampedusa”. Persone a cui gli sfruttatori, mafiosi e non, “gli tiravano il sangue, glielo risucchiavano con la siringa”. Tanto che “i caporali guadagnavano più dei muratori”.

Alla vigilia del Primo Maggio 2019, mentre domina l’idea del lavoro trattato come merce, mentre il riconoscimento della dignità e dei diritti dei lavoratori è materia sempre più rara, ricordare questa storia è fondamentale. Perché senza una corretta comprensione dei fenomeni e della loro evoluzione è difficile mettere a fuoco le basi per un futuro migliore.

Ma un tassello almeno induce all’ottimismo se guardiamo la storia dal versante del rapporto: contrasto alle mafie/rispetto del lavoro. Perché un anno dopo il Primo Maggio 2018 sono cambiate le sentenze del processo Aemilia.

È stato un cambiamento radicale e non scontato, in riferimento alla costituzione di parte civile dei sindacati CGIL, CISL, UIL e delle due Camere del Lavoro di Reggio Emilia e di Modena.

Il Primo Maggio di un anno fa teneva banco la sentenza della Corte d’Appello del rito abbreviato di Bologna, depositata in Cancelleria nel febbraio 2018, che non riconosceva ai sindacati il danno prodotto dalla ‘ndrangheta e dai suoi uomini condannati per il 416 bis. La principale motivazione per quel mancato riconoscimento era, secondo la Corte, l’assenza negli statuti delle organizzazioni sindacali di uno specifico riferimento “all’interesse primario del contrasto al radicamento delle associazioni di stampo mafioso”.

Il 25 ottobre scorso la Corte di Cassazione ha invece ribaltato quella valutazione, sostenendo che “difficilmente, all’epoca in cui sono stati redatti gli statuti delle organizzazioni sindacali, avrebbe potuto essere individuata la finalità di contrasto alla criminalità organizzata”, perché dal punto di vista giuridico la legge Rognoni/La Torre, che introduce nel 1982 il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, arriva ben dopo la nascita dei sindacati.

Ma a parte il dato temporale la Corte di Cassazione parla, in riferimento alla sentenza d’Appello, di “una lettura del tutto riduttiva della giurisprudenza di legittimità”.

È pacifico, aggiunge, che “il sindacato annoveri tra le proprie finalità la tutela delle condizioni di lavoro, intese… anche per quanto attiene la tutela delle libertà individuali e dei diritti primari del lavoratore”. La Corte di Cassazione aggiunge che è logico e legittimo che le organizzazioni sindacali abbiano l’obiettivo di “promuovere la legalità e la libertà di iniziativa economica, a tutela di vittime di fenomeni quali la mafia, il racket, l’usura e, ancor più in generale, perseguano l’interesse al contrasto di ogni forma di criminalità, inclusa quella facente capo alle organizzazioni mafiose, in vista di un nuovo assetto socio-economico e di tutela dei lavoratori”. Ancora più incisivo il passaggio successivo in cui la Corte sostiene che “Il delitto associativo di cui all’art. 416 bis, nel suo concreto atteggiarsi e dispiegarsi nella vicenda in esame (Aemilia), si è tradotto in una forma di compromissione del libero e pieno esercizio dell’attività di impresa, con modalità fortemente invasive ed incidenti sull’assetto socioeconomico del territorio interessato, con il coinvolgimento anche di soggetti operanti a vari livelli del mondo imprenditoriale e politico, con la conseguente realizzazione di un serio pregiudizio alle finalità statutarie perseguite da quelle associazioni (i sindacati) in riferimento proprio allo specifico mondo del lavoro, con alterazione e compromissione delle sue regole”.

E ancora: “E’ evidente come la legalità e la trasparenza delle regole che governano l’attività d’impresa siano strettamente connesse al buon funzionamento di tutto il mercato del lavoro e, in particolare, alla stabilità e correttezza dei rapporti, alla sicurezza degli ambienti di lavoro e alla soddisfazione delle aspettative remunerative del lavoratore”.

Ne discende, per la Corte di Cassazione, l’annullamento della sentenza pronunciata su questo punto dalla Corte di Bologna il 12 settembre 2017 e il rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello che dovrà esprimere un nuovo giudizio.

A questo risultato si giunge anche grazie alla coraggiosa e competente opposizione alla sentenza di Bologna presentata in Cassazione dagli avvocati delle parti civili interessate. Per la CGIL in particolare sono stati Libero Mancuso e Gian Andrea Ronchi a vestire di contenuti il ricorso. Dice l’avv. Ronchi, che ha rappresentato la Camera del Lavoro di Reggio in tutto il percorso di Aemilia, “Questa vicenda costituisce una delle prime esperienze nelle quali la società civile ha voluto contrastare, anche con lo strumento del processo, l’incedere della criminalità mafiosa in un territorio che, con eccessiva superficialità, si era fino ad ora considerato immune dal fenomeno”. Citando l’ordinanza del Giudice per l’Udienza Preliminare che risale al novembre 2015, Ronchi ricorda che i sindacati furono ammessi al processo come parti civili in quanto i reati ipotizzati di Aemilia “paiono potenzialmente in grado di determinare un affievolimento della capacità di proselitismo, di mobilitazione e di azione dei sindacati, di compromettere l’interesse primario della tutela del lavoratore… La lotta alla criminalità organizzata sul territorio è stata (dai sindacati) condotta in modo articolato da epoca anteriore ai fatti, nella consapevolezza che la compromissione della legalità e dell’agire dei suoi operatori frustra all’origine l’efficacia di ogni azione a tutela del lavoro”. Aggiungono Ronchi e Mancuso: “D’altro canto, ritenere che il sindacato non abbia tra i suoi obbiettivi primari la lotta al crimine organizzato, finisce per irridere il prezzo che tanti suoi esponenti hanno pagato anche con la vita fin dagli albori del fenomeno mafioso, proprio per il fatto che, ben prima che fiorissero le associazioni antimafia, era già chiaro alle organizzazioni criminali che i diritti del lavoro e dei lavoratori non avrebbero potuto convivere col metodo mafioso. E perciò andavano annichiliti col sacrificio dei loro alfieri”.

Questi alfieri sono purtroppo tanti: solo in Sicilia più di 60 sindacalisti uccisi nel secolo scorso. Da Lorenzo Panepinto, difensore dei contadini nel 1911, al citato segretario regionale della CGIL siciliana Pio La Torre nel 1982.

Ricordiamocene in questo Primo Maggio 2019, che almeno sul fronte giudiziario è un Nuovo Primo Maggio.

 

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