QUEGLI APPARTAMENTI DI SORBOLO… UN ANNO DOPO IL TAGLIO DEL NASTRO

20 Novembre 2019

di Paolo Bonacini, giornalista

appartamenti sorbolo

Il 18 dicembre 2018, quasi un anno fa, l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini diceva a Sorbolo di Parma, davanti ad un folto pubblico e alla presenza di magistrati, autorità civili e militari: “Sono orgoglioso di consegnare i beni confiscati. La mafia va aggredita nel portafoglio”. Gli faceva eco in giornata da Bologna il Presidente della Regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini con un comunicato: “Un giorno importante. Un altro bene confiscato alla criminalità organizzata è ora nella piena disponibilità della Guardia di Finanza, e quindi della collettività”.

Il riferimento era a 13 appartamenti, 10 autorimesse e una cantina, che nel piccolo comune parmense venivano consegnati in uso foresteria e destinati ad ospitare famiglie di finanzieri: pronti all’uso e verniciati di fresco. Si lasciò credere quel giorno che i militari ne avrebbero preso immediato possesso consentendo allo Stato di ottenere due piccioni con una fava: il riutilizzo di beni strappati alla mafia e il presidio di sicurezza dei finanzieri in un comune ad elevata presenza di ‘ndrangheta.

La realtà è purtroppo più amara, perché nonostante lo sforzo della amministrazione giudiziaria, della Agenzia Nazionale e della Guardia di Finanza che ne ha la custodia, a distanza di un anno quegli appartamenti sono ancora vuoti benché pronti.

Le 13 abitazioni sono solo una piccola parte dell’enorme speculazione edilizia messa in atto dalla ‘ndrangheta della cosca Sarcone/Grande Aracri in riva al fiume Enza e disvelata nelle sue dimensioni dal processo Aemilia. 130 unità abitative tra appartamenti e garage, oltre a sette ettari di terreni, per un valore di decine e decine di milioni di euro, acquistati e costruiti attraverso il reimpiego di soldi sporchi e con il consueto contorno di truffe, fatture false, minacce, società di comodo e finanziamenti “facili” del sistema bancario.

La consegna di quegli appartamenti alla Guardia di Finanza, all’indomani della conversione in legge del Decreto Sicurezza e a neppure due mesi dalla sentenza definitiva del rito abbreviato di Aemilia, aveva rappresentato una perfetta vetrina per il ministro dell’Interno, al cui dicastero proprio il Decreto Sicurezza aveva assegnato le competenze che prima spettavano al Presidente del Consiglio dei Ministri sull’utilizzo per finalità economiche dei beni confiscati.

“Siamo più forti noi” disse quel giorno Salvini. “Possono tenere duro ancora qualche mese o qualche anno ma mafia, camorra e ‘ndrangheta saranno cancellate dalla faccia di questo splendido paese”.

Magari. Intanto però gli appartamenti di Sorbolo non possono essere abitati perché il Codice antimafia prevede la effettiva assegnazione solo all’esito del giudizio di “buona fede” dei creditori, sino alla Cassazione.

I mafiosi sono abituati a fare affari con i soldi degli altri (imprenditori, società, istituti di credito in particolare) rilasciando garanzie e fidejussioni false o di terzi. I creditori rimasti all’asciutto si insinuano nella confisca e partono nuove procedure dai tempi indefiniti, con il rischio per lo Stato della beffa: un bene strappato alla ‘ndrangheta e riportato alla comunità che diventa un onere anziché una occasione di riscatto.

E’ un problema che va oltre Sorbolo e riguarda molti beni confiscati in virtù di sentenze penali, anche quando queste arrivano in giudicato. Il Legislatore non ha mai concretamente risolto il grido di allarme (fa fede una ricerca di Libera sul tema) secondo cui tra il sequestro e l’effettivo riutilizzo sociale trascorrono mediamente dieci anni. Ed è altrettanto vero che in due casi su tre il bene arriva alla destinazione finale in condizioni strutturali mediocri o cattive.

Ma proprio per questo la rapidità con cui si è giunti in Cassazione nel processo Aemilia e il buono stato dei beni confiscati (come gli appartamenti di Sorbolo) autorizzavano ottimismo. Che oggi rischia di andare deluso per gli ostacoli che l’originaria legge 196 di 23 anni fa sull’utilizzo sociale dei beni confiscati ha via via trovato sulla propria strada.

In Emilia abbiamo avuto diversi beni valorizzati dalla amministrazione giudiziaria e dalla Agenzia Nazionale (si pensi alla consegna di decine di camion ai vigili del fuoco per il terremoto, o alla messa in sicurezza nel modenese di decine di tonnellate di rifiuti pericolosi), ma la rapidità degli organi gestori nominati dal Tribunale contrasta con gli ostacoli frapposti da una legge che non agevola la celere assegnazione. Ed è curioso che i decreti sicurezza approvati dall’ex Ministro dell’interno Salvini non abbiano in alcun modo affrontato e snellito il farraginoso procedimento di destinazione del patrimonio sottratto ai mafiosi. Aprendo per contro la strada alla “vendita” con tutti i rischi che essa comporta di ri-acquisto da parte dei mafiosi.

La storia di Sorbolo è emblematica. Nell’enorme affare per la costruzione di quegli appartamenti sono entrati a man bassa uomini di spicco della cosca emiliana in stretti rapporti con il boss Nicolino Grande Aracri: da Romolo Villirillo a Giuseppe Giglio, da Alfonso Diletto a Gianluigi Sarcone, da Salvatore Cappa a Giuseppe Pallone, da Pasquale Riillo a Roberto Turrà. Tutti condannati a pesanti pene in Aemilia. Si erano insinuati, attraverso un oliato sistema di offerte e intimidazioni, nelle società degli imprenditori edili cutresi che operavano tra Reggio Emilia e Parma, con base nei comuni di Brescello, Sorbolo, Reggiolo, fiutando l’affare. Poi avevano infiltrato i loro uomini e dispiegato il tristemente noto ventaglio di rozze minacce e azioni violente. Racconta l’imprenditore di Sorbolo Francesco Falbo, testimone e vittima in Aemilia ma ora sua volta indagato per reimpiego di capitali con l’aggravante mafiosa: “Giglio ha un potere… che è mezzo mafioso. Ho ascoltato una telefonata da rabbrividire. Diceva: vai in quella cava che c’è uno che rompe le scatole e fammi sentire in viva voce i cazzotti. E io sentii le urla di questo qua che lo stavano pestando. E Giglio rideva”.

In un’altra occasione Giglio gli manda in cantiere un muratore della potente famiglia dei Nicoscia di Isola Capo Rizzuto che dice a Falbo: “Se non mi dai l’assegno ti faccio sparire dall’Emilia Romagna”.

I cantieri andavano avanti con enormi provviste in “nero” che prendevano la strada della Svizzera e di Montecarlo e con l’assalto alle banche che tra il 2007 e il 2011 concedevano finanziamenti alle società di costruzione (Gea, K1, Aurora Building) per oltre 12 milioni di euro. Dagli interrogatori di Aemilia emergono i nomi di Carige, Monte Paschi di Siena, Banca Popolare di Mantova. Sono loro presumibilmente a chiedere oggi, in veste di creditori, di rientrare di quanto a suo tempo concesso.

La foresteria della Guardia di Finanza in via Montefiorino 2 per ora non può che attendere, ma intanto una delle società coinvolte nell’affare di Sorbolo fa discutere. Con una determina del giugno 2011, il responsabile del servizio tecnico dei bacini degli affluenti del Po in Emilia Romagna rinnovava una concessione regionale alla società Desmos srl, per l’occupazione di un terreno di pertinenza demaniale sulle sponde del fiume Enza, in Comune di Gattatico. 5431 metri quadri complessivi ad uso area cortiliva e giardino, con 500 metri quadri circa di sedime fabbricato e 51 per uffici. La concessione ha una durata di 12 anni ed è quindi tutt’ora in vigore, per un canone annuo di 1460 modestissimi euro l’anno.

Si poteva chiedere forse di più, considerando che la Desmos srl di Ferdinando Vescovi era socia a quell’epoca, assieme alla K1 srl di Salvatore Cappa, Giuseppe Pallone e Francesco Falbo, della Aurora Building srl, proprietaria come la stessa K1 di buona parte dei 130 appartamenti di Sorbolo poi confiscati alla ‘ndrangheta.

 

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