PIZZINI IN PIZZERIA
di Paolo Bonacini, giornalista
La notizia del giorno… sono tante.
La prima è questa mattina all’alba i Carabinieri, al termine dell’operazione Terry coordinata dalla Direzione Antimafia di Venezia, hanno arrestato sette persone e indagato altre 15 per diversi reati, dalle estorsioni agli incendi, dalle frodi alle minacce, compiuti col metodo mafioso. Tra le altre cose un grosso yacht bruciato in Sardegna, ma il cuore delle attività è il Veneto. La notizia ci interessa perché la famiglia di ‘ndrangheta al centro delle indagini è quella di Domenico, Carmine e Fortunato Multari, originaria di Cutro e ritenuta alleata della cosca di Nicolino Grande Aracri. I Multari sono emigrati al Nord una trentina di anni fa e a quanto pare sono riusciti a condizionare talmente il territorio d’insediamento da spingere imprenditori e comuni cittadini veneti a rivolgersi direttamente a Domenico Multari per risolvere i propri problemi, “pienamente consapevoli dello spessore criminale” dell’uomo che secondo l’inchiesta si vantava pubblicamente di questa autorevolezza, determinando il completo assoggettamento psicologico dei suoi interlocutori. Il capocosca riusciva ad interferire sulle vendite dei beni immobili che gli erano stati sequestrati, vuoi utilizzando contratti simulati e prestanome, vuoi condizionando pubblici ufficiali che dietro minaccia facevano cambiare idea ai potenziali acquirenti dei suoi appartamenti mandando deserte le aste. Oltre ai tre fratelli sono finiti agli arresti anche il figlio di Domenico, Antonio Multari, l’imprenditore veneziano Francesco Crosera ed altri due calabresi, Attilio Mancuso e Mario Falbo. Secondo gli investigatori con questa operazione si è arrivati ad accertare, per la prima volta da un punto di vista giudiziario, la presenza in Veneto di un gruppo criminale mafioso calabrese. Il collegamento con la cosca Grande Aracri scoperto nell’inchiesta ci rimanda alla notte del 28 gennaio 2015, quando oltre ai 117 arresti in Emilia-Romagna scattrono altre misure restrittive in diverse regioni per 46 persone. Due di queste, Francesco Frontera e Sergio Bolognino, risiedevano a Vicenza, una delle due province (l’altra è Verona) sulle quali si concentra l’inchiesta Terry.
La seconda notizia è che il processo in Corte d’Assise a Reggio, a carico di Nicolino Grande Aracri detto Mano di gomma, Angelo Greco detto Linuzzo, Antonio Lerose detto Il bel René, e Antonio Ciampà detto Coniglio, per gli omicidi di Nicola Vasapollo e Giuseppe Ruggiro commessi in provincia di Reggio nel 1992, è iniziato lunedì 11 febbraio e subito rinviato al 29 marzo prossimo. Nelle prime battute il giudice Dario De Luca, affiancato da Silvia Guareschi e da sei giudici popolari, ha ammesso le riprese in aula dei giornalisti e informato che le udienze si terranno di norma tutti i venerdì. Unico imputato presente, collegato in videoconferenza dal carcere di Milano, era Nicolino Grande Aracri, che ha dialogato a lungo telefonicamente con il proprio legale Filippo Giunchedi. Mancavano invece al completo le parti offese del processo, cioè i famigliari delle vittime: i genitori di Nicola Vasapollo, che oggi risiedono a Cutro, la moglie e i due figli di Giuseppe Ruggiero, ancora residenti a Brescello, e la sorella che vive a Reggio Emilia.
La terza notizia è il pronunciamento del giudice che stabilisce la custodia cautelare in carcere per i tre fratelli Amato, arrestati quali presunti colpevoli dei tentativi di estorsione aggravata di cui sono rimasti vittima alcuni gestori di pizzerie nei giorni scorsi. La storia si può riassumere nelle foto dei due fogli scritti a macchina, con una Olivetti ET Personal 56, recuperati presso una delle pizzerie prese di mira: La Perla di Cadelbosco Sopra.
A divulgarli, dopo aver ricostruito l’intera vicenda, è stata lunedì la “squadra di Stato”, come l’ha chiamata il capo della Squadra Mobile reggiana Guglielmo Battisti, composta dai Carabinieri del reparto operativo di Reggio (guidati dal tenente colonnello Alessandro Dimichino), da Carabinieri della zona di Guastalla e da uomini della Polizia, con il coordinamento della Procura reggiana del dott. Marco Mescolini.
Il primo pizzino in ordine di tempo è quasi garbato nei toni (rispetto al secondo) e quasi scritto in italiano (come il secondo). È questo:
C’è scritto in sintesi:
“Vi chiediamo di essere gentili e di capire il problema: ogni mese dovete darci mille euro che per lei non sono niente al confronto di quanto guadagnate con la clientela”. Più chiaro di così…
Il messaggio è stato scritto secondo le indagini dai tre fratelli Cosimo, Michele e Mario Amato, rispettivamente di 20, 22 e 29 anni, tutti figli di quel Francesco Amato, condannato a 19 anni in primo grado al processo Aemilia, che cinque giorni dopo la sentenza, latitante, aveva tenuto sotto sequestro per otto ore i funzionari dell’ufficio postale di Pieve Modolena (RE) con la minaccia di un coltello.
Cattivo sangue non mente e le minacce anche in questo primo pizzino non mancano, dopo le opportune indicazioni per il perfezionamento del contratto sui mille euro mensili: “Il giorno 29 (gennaio) dopo la chiusura, mettete attaccato alla porta un nastro rosso e noi vi diremo il giorno del pagamento. Se il nastro rosso non ci sarà, e soprattutto se sentiremo puzza di sbirri, sarà brutto. Mentre le persone stanno per mangiare, tutto a un tratto scoppia il finimondo. Ci pensi bene”. Seguono un punto, un punto e virgola, un due punti. Come diceva Totò sulla punteggiatura: meglio abbondare.
Ma questo non è un film purtroppo, e le minacce hanno raggiunto persone vere.
Il pizzino i figli di Francesco Amato lo avevano battuto con la macchina da scrivere ritrovata dai carabinieri assieme al blocco di fogli dal quale erano stati staccati quelli utilizzati per le minacce. Anche l’auto e la moto inquadrate dalle telecamere e utilizzate per consegnare le richieste e poi per sparare contro la vetrata della pizzeria sono le loro. Prove schiaccianti, sulla base delle quali i tre sono stati arrestati. Le immagini raccolte mostrano una persona completamente vestita di bianco e con il volto nascosto che si avvicina all’entrata della pizzeria verso le quattro di notte per sistemare il pizzino.
Il secondo foglio viene recapitato ai proprietari della pizzeria colpevoli di non aver messo il nastro rosso segno di accondiscendenza, e questa volta i toni si fanno più duri e il messaggio diventa esplicito, benché la scrittura non sia delle più forbite:
“Essendo che le nostre richieste sono cadute nel vuoto, io stasera ti farò dei danni, perché ai sottovalutato il problema e se ancora continui a fare il testardo ti metterò a fuoco o chi lo sa, se mi fai girare bene i coglioni ti gambizzo: tu che dici?” Poi la sprezzante ironia finale di chi ha sparato sei colpi di pistola contro la vetrata del locale: “Intanto aggiustati la vetrata che costerà molto, faccia di merda”.
Sono questi i “cordiali saluti” (frase con cui termina la lettera) che i membri della famiglia Amato hanno inviato tra fine gennaio e inizio febbraio a quattro pizzerie molto frequentate della provincia, seguendo una lineare e determinatissima strategia estorsiva. Alle loro richieste estorsive i gestori dei locali (sono quattro: La Perla, Piedigrotta Due e Tre, Paprika) non si sono piegati e il lavoro investigativo è riuscito a mettere fine in brevissimo tempo alla minaccia. Tanto da far dire al procuratore capo Marco Mescolini, che la famiglia Amato la conosce benissimo essendo stato pubblico ministero al processo Aemilia: “Qui a Reggio il pizzo ancora non si può chiedere. Perché la società civile reagisce e le forze dello Stato hanno le competenze e le conoscenze per inchiodare i malviventi”. Oggi è così, anche se resta il timore per possibili ulteriori azioni future.
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