LE DONNE AL TEMPO DEGLI OMICIDI

27 Settembre 2019

di Paolo Bonacini, giornalista

M12

Se volete vedere la ‘ndrangheta da vicino venite in Corte d’Assise a Reggio Emilia un venerdì qualsiasi. Alle udienze del processo per gli omicidi di mafia del 1992 si rivive il dramma della morte che insanguinò Pieve Modolena e Brescello; si ascolta il silenzio dell’omertà e della paura che colpisce i testimoni in aula; si vedono le scintille del duro scontro tra le parti, con l’avvocato difensore Salvatore Staiano che nella seduta di venerdì 27 settembre accusa la Corte di comportamento “offensivo” e “intollerabile”; si possono quasi toccare con mano i nomi celebri della cosca collegati in videoconferenza dal carcere: Nicolino Grande Aracri, Angelo Greco e, per i pochi secondi necessari a dire “non parlo”, anche Nicolino Sarcone.

Nelle ultime udienze di settembre la storia è tornata d’attualità, riportata in aula in particolare da donne diverse finchè si vuole ma unite da due elementi che segneranno per sempre la loro vita: si sono accompagnate a uomini di ‘ndrangheta e lo hanno fatto in giovane età. Portando poi sulle spalle un carico di violenze vissute o incontrate che rendono perlomeno difficile andare avanti o ricominciare.

Maria Stella Camposano si è sposata a 16 anni, nel 1985, ed è venuta a vivere a Brescello assieme al marito Giuseppe Ruggiero. Quella notte del 22 ottobre che la finta auto dei carabinieri si presentò con il lampeggiante acceso sotto casa sua alle 3,30, si affacciò anche lei dalla finestra assieme al marito. Poi attese seduta sul divano in salotto mentre Giuseppe andava ad aprire la porta. Quando sentì gli spari corse verso l’entrata e il marito era a terra in un lago di sangue. Fece a tempo a chiedergli “Chi è stato?” e a sentire le sue ultime parole: “Non lo so”. Ha cinquant’anni oggi Maria Stella ma sembra ancora una ragazzina e riesce a rimanere composta davanti alla Corte, anche quando piange. Poche domande, pochi ricordi condivisi nell’aula: un viaggio per una vacanza nel ’91 a Cutro, dove incontrarono Nicolino Grande Aracri e le sorelle Maria e Giovanna. Lo stesso anno che Nicolino, secondo i racconti del collaboratore Valerio, già cercava di uccidere Ruggiero con la prima spedizione a Brescello partita da Lido di Savio e poi abortita per la titubanza a sparare di fronte ai figli piccoli.

La seconda donna ha un nome difficile da scrivere: Joanna Chojnowska, polacca di origine, sempre ripresa di spalle mentre parla lo stesso giorno di Maria Stella in collegamento video da un luogo segreto. Ha 51 anni, capelli chiari e lungi che le scendono sulle spalle: è la ex moglie di Antonio Valerio. “Ex” lo ripete sempre lei: “Ho sposato il mio ex marito il 27 dicembre 1990. L’anno dopo ci incontravamo anche se lui era latitante sotto falso nome e abbiamo fatto un viaggio a Cutro dove ho conosciuto Nicolino Grande Aracri e Antonio Macrì”. Erano evidentemente ancora amici i due, prima che Macrì venisse ucciso nel 2000 e seppellito sotto 15 metri di terra per impedire il ritrovamento. A Reggio Emilia Joanna e Valerio vivevano in quell’ormai famoso appartamento di via Samoggia che sembrava un porto di mare tanta era la gente che ci passava, nonostante il collaboratore di giustizia fosse allora agli arresti domiciliari. Sullo stesso pianerottolo, ricorda Joanna, si affacciava l’appartamento dell’ispettore di Polizia Felice Caiazzo. Ma il carabiniere Nicola Boccassini testimonia nell’ultima udienza che i controlli spesso si limitavano a suonare il campanello e ad attendere che Valerio si affacciasse alla finestra. Chi e cosa c’era in casa, spesso non interessava.

Prima di quella abitazione Joanna aveva condiviso con Beata un appartamento nella frazione di Pieve Modolena, durante la latitanza di Valerio. Beata, a sua volta polacca, era la compagna di Nicola Vasapollo e i quattro parevano legati da una forte amicizia. Parevano, perché quando nel settembre 1992 Nicola viene ucciso nel salotto, Antonio Valerio conosce bene il destino che attende l’amico. E Joanna in aula sembra non perdonargli, all’ex marito, di “essersi finto addolorato”, quando si diffuse la notizia della morte di Nicola.

La terza donna è molto meno precisa di Joanna nei propri ricordi. Molto più insicura, silenziosa, persa in un vuoto mentale che straordinariamente si riempie di ricordi dettagliatissimi riguardanti particolari insignificanti di oltre vent’anni fa, come il fatto che Nicolino Sarcone, allora suo compagno di vita, avesse un telefonino di marca Motorola. Non ricorda invece più se nel 1992, quando i due salirono assieme in treno da Cutro a Modena, alla vigilia della spedizione mortale contro Ruggiero, Sarcone tenesse la borsa nera con le armi e le false divise da Carabinieri in uno scompartimento lontano del treno per evitare guai in caso di perquisizione. Lei si chiama Lucia Condito ed ha oggi 45 anni. Il suo interrogatorio è difficile: è una donna che ha subito traumi e fa abituale uso di medicinali pesanti. Risponde a monosillabi e il pubblico ministero dott.ssa Ronchi le contesta spesso i dettagli di quel pezzo di vita trascorso con Sarcone e raccontati in un precedente interrogatorio del 2017. Dettagli che ora la donna non ricorda o disconosce. La paura è palpabile, il suo sguardo corre spesso alle immagini dei grandi schermi che mostrano un Nicolino Grande Aracri particolarmente agitato: più che ascoltare parla, presumibilmente con la guardia carceraria che non è inquadrata, e gesticola con le braccia. Quando l’avvocato Giunchedi, difensore proprio di Grande Aracri, porta a tutti la notizia che il suo assistito ha deciso di denunciare Lucia Condito per le dichiarazioni rese nel 2017, lei si fa ancora più muta, ancora più assente. Terminano le domande e la Corte si ritira rientrando dopo mezz’ora con la decisione di acquisire agli atti quell’interrogatorio del 2017 sulla base del comma 4 dell’art. 500 del codice penale. E’ il comma che dice: “Quando vi sono elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affinché non deponga ovvero deponga il falso, le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al dibattimento”.

Vale in sostanza ciò che Lucia Condito aveva dichiarato in precedenza, più di quanto dichiara oggi. “Lo stato di paura” dice l’ordinanza della Corte, “è stato esplicitamente ammesso” dalla testimone quando ha appreso della denuncia. Non è storia nuova nei processi reggiani alla mafia: l’arma della denuncia era stata usata anche dall’avvocato Taormina in difesa di Giuseppe Iaquinta contro l’ex prefetto di Reggio Antonella De Miro. Un’arma dal fiato corto, in quel caso, anche prima dell’archiviazione del procedimento. Perché Antonella De Miro non si lasciò intimorire. Ma in questo processo, e per la testimone Lucia Condito, l’effetto è stato diverso.

Tre donne, tre comportamenti processuali e tre storie profondamente differenti. Con un solo colpevole: la ‘ndrangheta.

 

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