KARIMA E IL VENETO, DEPENDANCE DI REGGIO EMILIA
di Paolo Bonacini, giornalista
L’operazione Camaleonte, condotta in Veneto dalla Direzione Antimafia contro la cosca Grande Aracri, vede indagati personaggi di spicco della ‘ndrangheta reggiana e del processo Aemilia. La Procura di Venezia ha richiesto misure cautelari per 58 persone, in maggioranza veneti, ma la provincia più colpita è Reggio Emilia dove risiedono 18 indagati. Tra i nomi più noti (già condannati nelle sentenze di ottobre 2018) figurano Michele Bolognino, Giuseppe Giglio e Giuseppe Richichi (tutti residenti a Montecchio); poi lo scandianese Gianni Floro Vito, Michele Colacino di Bibbiano, i reggiani Gaetano Blasco, Antonio Muto e Francesco Scida. Per 33 degli indagati il giudice Gilberto Stigliano Messuti ha accolto la richiesta ed è scattato l’arresto o l’obbligo di firma. Le indagini portano alla luce fatti accaduti tra il 2012 e il 2015, in relazione a più di 130 capi di imputazione, il primo dei quali è il 416 bis, l’associazione di stampo mafioso, contestata a Michele e Sergio Bolognino, Giuseppe Richichi e Donato Agostino Clausi, il commercialista dei Grande Aracri condannato in via definitiva a Bologna a 10 anni e 2 mesi di carcere. Due insiemi di reati sono prevalenti: da un lato estorsioni e usura ai danni di imprenditori veneti, caratterizzati da minacce e da episodi di violenza fisica, dall’altro un costante ricorso alla falsa fatturazione per operazioni inesistenti con l’obbiettivo di riciclare il denaro proveniente dalla cosca.
Sul primo fronte Michele Bolognino, condannato in primo grado a Reggio Emilia a 37 anni e 11 mesi, sale in cattedra con l’inventario tipico delle minacce mafiose: “Se non fai quello che dico io ti spacco le gambe, ti spacco la testa. Tu e la puttana di tua moglie dovete lavorare per me e stare zitti”, dice all’imprenditore Stefano Venturin. Gli porteranno via tanti soldi e una impresa, la GS Automazioni srl, arrivando a mandarlo in ospedale a suon di pugni in faccia, davanti alla moglie presa a schiaffi mentre piange. Il perché di tutto ciò non ha bisogno di tante spiegazioni: “I soldi; con le buone o le cattive”. Da Venturin Bolognino si fa pagare le proprie spese, come il noleggio di auto costose, mentre suo fratello Sergio, che vive a Tezze sul Brenta in provincia di Vicenza, gli manda il conto dei propri mobili di casa. E quando Venturin nomina un nuovo amministratore della società, Mario Coda, le minacce raggiungono anche lui: “Vuoi che ti facciamo fare la fine dello scemo che ti ha messo come amministratore?”
Un altro uomo della cosca, Emanuel Levorato, rende la minaccia più esplicita quando incontra Coda. Lo prende per un braccio e stringendo dice: “Perché dobbiamo arrivare a farci male? Se non firmi ti vengono a prendere e ti bruciano, perché guarda che qui siamo in trenta”. Si fa così a costringere un amministratore a rassegnare in fretta le dimissioni in favore di un altro. Che in questo caso si chiama Luca De Zanetti ed è un uomo dei fratelli Bolognino.
C’è anche il cutrese residente a Bologna Mario Vulcano, condannato di Aemilia a 26 anni e 6 mesi in primo grado, a dar man forte nelle violenze. E’ lui che dopo aver picchiato Roberto Alfieri (due denti rotti e problemi alla vista diagnosticati in ospedale per le botte subite) dice ad una seconda vittima: “Roberto non lo chiamare più perché mo’ è in ospedale. Lo abbiamo appena picchiato. Lo dovevi sentire: aiuto! ..aiuto! ..mi vogliono uccidere! ..per strada come un gatto urlava”. Per concludere con la frase più esplicita possibile: “Io sto facendo il mafioso, qua”.
Fare i mafiosi significa non perdonare nulla, anche per cifre modeste. I fratelli Bolognino minacciano Diego Carrano, titolare di una società che noleggia autovetture di lusso, al quale hanno prestato 10mila euro il 22 maggio 2013 e nel giro di un mese ne rivogliono 13mila con un interesse usuraio del 300%: “Pezzo di merda, vengo e ti prendo a te, tua moglie e tuo figlio, ti squaglio dentro l’acido, tutti vi ammazzo, hai capito bastardo? Tu pensa e spera la Madonna che non ci vediamo mai”. Un anno dopo Giuseppe Giglio, il collaboratore di giustizia del processo Aemilia, vende allo stesso Carrano un bolide Ferrari e, siccome l’ultima rata da 40mila euro non viene pagata nel giorno stabilito, i fratelli Bolognino, assieme a Richichi, Blasco e Mario Megna, lo attirano in una trappola per picchiarlo il 24 maggio 2014. Non ci riusciranno perché interviene la Polizia Giudiziaria che intercetta le conversazioni. Così si mostrano gli uomini della cosca emiliana ai terrorizzati imprenditori veneti: brutali e privi di scrupoli. Lontani anni luce dalle persone pacate, vittime povere ed incolpevoli dell’accanimento giudiziario, che solo qualche mese fa, nell’aula bunker di Reggio Emilia, avevano cercato di difendersi dalle accuse dei PM Mescolini e Ronchi.
L’altro fronte dell’indagine Camaleonte non è meno importante per le connessioni con Reggio Emilia e con il modus operandi della cosca.
Ben 116 capi di imputazione riguardano truffe societarie, false fatturazioni per operazioni inesistenti, spostamenti di soldi funzionali a riciclare denaro sporco e a generare contante pulito, passando spesso per la monetizzazione attraverso gli sportelli migliori al servizio della cosca emiliana Grande Aracri/Sarcone: gli uffici postali di Reggio Emilia.
I passaggi delle tantissime operazioni compiute si riassumono in poche righe. In primo luogo gli emissari della mafia consegnavano agli imprenditori veneti (minacciati o collusi) il contante da riciclare, attraverso incontri in luoghi sempre diversi. Poi le società gestite o controllate dalla cosca emettevano fatture false verso le aziende dei medesimi imprenditori che provvedevano a pagare con bonifici, depositati sui conti correnti postali della provincie di Reggio Emilia e Modena dove i soldi venivano ritirati per piccole cifre. E’ il cosiddetto “smurfing”, cioè l’insieme di movimentazioni ripetute e di modesta entità per restare al di sotto della soglia d’attenzione.
Prendiamo una delle tante operazioni per rendere chiaro il giro. Il 30 settembre 2013 alle 11,30 Sergio Bolognino incontra Gianni Floro Vito presso il casello autostradale di Mantova Nord. Un’ora dopo lo stesso Bolognino incontra Antonio Brugnano al casello di Nogarole Rocca. Due ore dopo è al parcheggio dell’ospedale di Cittadella, in provincia di Padova, dove incontra Leonardo Lovo, indagato residente a Venezia. Questa è la fase della consegna dei soldi. Il giorno dopo due società venete, la Biasion Group srl e la Universo Costruzioni srl, effettuano tre bonifici rispettivamente di 25mila, 11mila e 10mila euro sui conti correnti postali di due società riconducibili alla galassia della ‘ndrangheta: la Immobiliare Tre srl, società cartiera dell’arcetano Gianni Floro Vito, e la Service srl del reggiano Antonio Brugnano.
La settimana successiva tutti quei soldi vengono prelevati dai postamat di 19 uffici postali nelle provincie di Reggio Emilia e Modena utilizzando tre diverse carte intestate a Floro Vito e Brugnano. Sei prelievi a Carpi, sei a Reggio, uno ad Arceto, due a Cadelbosco Sopra, tre a Correggio, uno a San Martino in Rio, uno presso lo sportello Posta Impresa di Reggio Emilia.
È la stessa modalità di riciclaggio evidenziata in mille operazioni da Aemilia, dove gli sportelli postali, con carte individuali o societarie (Posta Impresa) sono i più frequentati dalla ‘ndrangheta.
Vale la pena ricordare cosa scrisse la SLC CGIL dell’Emilia Romagna un anno dopo i 117 arresti di Aemilia nel gennaio 2015, raccogliendo le segnalazioni dei propri iscritti dipendenti di Poste Italiane: “La situazione si è aggravata. Il fatto è diventato sempre più evidente e preoccupante. Una certa tipologia di clientela sta letteralmente prendendo d’assalto gli uffici postali del territorio, ritirando in continuazione e quasi giornalmente denaro contante proveniente da bonifici. Sono movimentazioni di denaro per volumi complessivi molto rilevanti, realizzate utilizzando una pluralità di carte che risultano poi collegate a conti correnti postali radicati in particolare nelle province di Reggio Emilia e di Modena. Sono originari per la maggior parte della regione Calabria e dalle ultime segnalazioni anche della regione Campania. Gli operatori che fanno il loro dovere, che segnalano operazioni sospette, incorrono nelle velate minacce da parte di questi particolari clienti”.
In Posta a Reggio Emilia, a monetizzare le entrate delle false fatturazioni, ci andava tra gli altri una donna oggi indagata in Veneto e ieri condannata in Aemilia a 21 anni e 4 mesi di carcere. Si tratta di Baachaoui Karima, residente a Reggio in via Newton, latitante dal 2015 quando non si fece trovare in quella famosa notte degli arresti. Secondo il collaboratore di giustizia Antonio Valerio si trova ora nel suo paese d’origine, la Tunisia, in una casa che le regalò Gaetano Blasco, di cui era assistente e segretaria, assieme a tanti soldi dei quali alla dogana non chiesero conto perché Karima, sempre dando credito a Valerio, ha un fratello che lavora per le forze di sicurezza tunisine. Karima per conto di Blasco monetizza tra il 6 e il 10 luglio 2013 negli uffici postali di Reggio, secondo i carabinieri del Nucleo Investigativo di Padova, circa 60mila euro depositati sul suo conto postale personale (due versamenti li ha fatti anche Giuseppe Giglio), effettuando 15 diversi prelievi. Li chiamano “bancali” al telefono, e 20 bancali sta per 20mila euro. Quando Karima finisce il giro i bancali vengono dati a Blasco. I carabinieri lo fotografano alle 11,50 del 10 luglio quando arriva all’Outlet/Fashion District di Mantova, dove lo attende Sergio Bolognino, che sale sulla sua auto con una borsa vuota e ne scende pochi minuti dopo con la borsa piena. Ad un successivo controllo in quella borsa risultato esserci 20mila euro in contanti.
A Karima, stando alle dichiarazioni di Giuseppe Giglio, la ditta sulla quale far transitare i soldi l’aveva aperta Gaetano Blasco. E l’altro collaboratore, Antonio Valerio, spiega il legame tra i due con un pezzo degno di miglior letteratura: “Blasco ci teneva ad avere un grado alto, perché ‘sta Karima si era infatuata di questo mondo romantico criminale, e lui aveva con lei un rapporto sentimentale molto stretto. Ci sono delle telefonate da ufo proprio, da ufo, perché lei era gelosa. È attiva nelle attività illecite, nelle operazioni di prestito, nel recupero crediti, nella falsa fatturazione. Gestiva tutto l’ufficio di Blasco a 380°, non a 360° come si suole dire. E Blasco le voleva molto bene, davvero… più che a sua moglie”.
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