I MORTI VIVI E LA MAFIA DELLE PAROLE
di Paolo Bonacini, giornalista
Da Piacenza a Bologna, passando per Palermo e per le due Reggio distanti oltre mille chilometri: quella di Calabria e quella in Emilia. Un anno dopo le due ravvicinate sentenze del processo Aemilia si continua a parlare di ‘ndrangheta e di come fermare la sua apparentemente inarrestabile ascesa. I promotori sono università, istituzioni, sindacati (dei lavoratori in generale e dei giornalisti nello specifico). I protagonisti chiamati a parlarne sono nomi di rilievo della cultura, della magistratura, delle organizzazioni sociali e dello Stato. Uomini e donne che operano con ruoli e responsabilità assai differenti ma capaci di parlare un linguaggio comune. Uniti dalla constatazione che “dopo 164 anni di vita della mafia” dice don Luigi Ciotti l’8 novembre a Bologna, “siamo ancora qui a parlarne come un problema di oggi”. Il che da un lato esprime il senso di una sconfitta della comunità nazionale nella lotta all’eversione, dall’altro stimola chi ancora è impegnato nella battaglia per vincerla.
Il presidente di Libera è senza dubbio un simbolo nazionale di questa lotta che è lotta “per la dignità, per la vita, per la speranza”. Soprattutto dei giovani, dice dialogando con l’assessore alla legalità dell’Emilia Romagna Massimo Mezzetti. Di quegli studenti che don Ciotti chiama “i morti vivi” della nostra società, snocciolando i dati impietosi dell’abbandono scolastico in Italia: uno su quattro che non finisce le superiori, uno su due che lascia l’università. Di quei giovani che non trovano lavoro in un paese dove la disoccupazione giovanile sotto i 24 anni tocca il 33%, più del doppio della media europea. Rimuovere la “impari” dignità sociale e applicare nella vita reale l’art. 3 della Costituzione è allora una prima condizione indispensabile per ricostruire legalità e alzare barriere invalicabili alle mafie.
Il segretario generale della CGIL Maurizio Landini raccoglie, pochi minuti dopo, il testimone di don Ciotti e indica alla politica la strada da percorrere con una frase tanto semplice quanto rivoluzionaria: “La politica deve rimettersi nei panni di chi per vivere ha bisogno di lavorare”. Il corollario è che: “per combattere infiltrazione e malavita va costruita un’altra idea di sistema, che tenga conto delle disuguaglianze sociali ed economiche sempre crescenti, che cambi una legislazione basata sulla precarizzazione del lavoro, che sia in grado di incrociare tutti i dati rendendo tracciabile il percorso del denaro e consentendo così il contrasto all’evasione fiscale”. Chiude il cerchio il presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra: “Servirebbe anche una cultura politica conscia del fatto che quanto più si attua la liberalizzazione del mondo dei subappalti tanto più si infiltrano le organizzazioni mafiose”.
24 ore prima e 160 chilometri più a Ovest, a Piacenza, si leccava le ferite quel pezzo di mondo del lavoro che le storie di mafia le racconta ogni giorno: il giornalismo. Il segretario generale aggiunto della FNSI Mattia Motta e i dirigenti regionali di Ordine e Sindacato dei Giornalisti erano lì per raccontare i quotidiani attacchi alla libertà di stampa. Sancita da un fondamentale articolo della Costituzione ma sempre più compressa nella micidiale morsa di precariato e condizionamento. Giornalisti che lavorano senza contratti, pagati due euro ad articolo, licenziati se danno fastidio ai poteri forti, minacciati e purtroppo spesso anche uccisi. Nella “due giorni” di Piacenza (una sorta di festival dell’’informazione antimafia promosso dalla Federazione della Stampa e da Libera), c’era un altro simbolo della lotta al malaffare in Italia: il giornalista Sandro Ruotolo. Costretto a vivere sotto scorta ma sereno e lucido nelle narrazioni come in tutti i quarant’anni della sua carriera giornalistica. Alle centinaia di studenti presenti Ruotolo spiega che “Le notizie ormai si trovano in tempo reale, ma ciò che manca è il racconto. L’approfondimento. L’inviato non deve solo acchiappare la notizia, ma dare una chiave di lettura dei fatti che accadono. Dove i giornalisti fanno bene il loro dovere, anche chi denuncia può sentirsi meno solo”. Ma l’altra faccia della medaglia è che “Dove non sono liberi i giornalisti è perché i territori non sono liberi. Anche la storia emiliana ci racconta questo. E’ chiaro”, conclude, che “in questo momento storico, l’emergenza mafia è localizzata al Nord e non più nel Sud Italia”.
L’ultimo lavoro di Sandro Ruotolo è uno straziante reportage sulla morte di Daphne Caruana Galizia, la giornalista maltese uccisa a 53 anni da un’autobomba fatta esplodere sulla sua Peugeot nel 2017. Daphne era stata la prima a svelare il coinvolgimento nei Panama Papers di uomini di primo piano del governo maltese coinvolti in storie di tangenti e affari loschi attraverso società offshore. La sua morte, hanno detto esponenti dell’opposizione politica a Malta, ha rappresentato “il collasso della democrazia e della libertà d’espressione” nell’isola.
Eppure ci sarà sempre chi prende il testimone delle vittime e va avanti. Ce lo insegna la storia siciliana, dove giornalisti senza bavaglio hanno preso il posto di quelli uccisi, purtroppo tanti, per avere dato fastidio alle mafie e ai loro compagni di avventure. Il 28 ottobre, nella stupenda cornice di Palazzo Steri a Palermo, su invito del rettore dell’università Fabrizio Micari, è avvenuto un fatto di particolare importanza simbolica: si è parlato di ‘ndrangheta in terra di Cosa Nostra. Si sono incontrati magistrati della Calabria, dell’Emilia e della Sicilia. Hanno messo a fuoco i tratti comuni di Cosa Nostra e delle cosche calabresi disvelate dal processo Aemilia.
La mafie hanno rotto le barriere regionali, ma chi lavora a combatterle anche. Attorno allo stesso tavolo c’erano il Prefetto “delle due province” (Reggio e Palermo) Antonella De Miro, il Procuratore di Reggio Emilia Marco Mescolini, il Procuratore Generale di Reggio Calabria Bernardo Dino Petralia, il Presidente della Corte d’Appello di Palermo Matteo Frasca.
Una frase ad effetto del dott. Petralia rende bene l’idea di quanto sia importante questa rottura delle barriere e quanto sia doveroso confrontare le azioni di contrasto alla mafia oggi più potente in Europa, la ‘ndrangheta, con quelle di contrasto alla mafia più tristemente nota al mondo, Cosa Nostra: “Qui a Palermo voi avete avuto Totò Riina. Ebbene sappiate che oggi, nei novantasette comuni della provincia di Reggio Calabria, sono attivi novantasette Totò Riina. Con novantasette arsenali di armi, novantasette organizzazioni criminali, novantasette reti di attività illecite nell’economia”.
E un’altra ottantina, aggiungiamo noi, sono attivi nelle altre province calabresi con diramazioni in tutta Italia.
A Palermo la mafia e le devastazioni della mafia ancora sono visibili. C’è un giornalista che di coraggio ne ha da vendere e di approfondimenti su Repubblica ne sforna uno al giorno: Salvo Palazzolo. Durante i giorni di permanenza nel capoluogo siciliano ci ha accompagnato in giro per la città e ci ha aiutato a leggere i luoghi e le manifestazioni delle profonde ferite inferte anche al paesaggio da Cosa Nostra. Sul lungomare un pezzo di terra confiscata è stato riportato alla comunità e sui marciapiedi centinaia di persone passeggiano e si godono il sole ancora quasi estivo di ottobre. Ma pochi metri più in là parte un tratto lunghissimo di costa martoriata, piena di rifiuti, abbandonata a sé stessa. Sono le propaggini sul mare del quartiere Brancaccio, dove ancora è visibile e in mani private il rudere della costruzione dove la mafia torturava le sue vittime e teneva le vasche di acido per sciogliere i cadaveri. Il Tribunale è a un chilometro di distanza e Palazzolo ci guida verso gli uffici del “Bunkerino” dove lavoravano Falcone e Borsellino. Oggi sono diventati un piccolo, incredibile museo che ci riporta agli anni del Pool e alla stagione delle stragi. Lo ha allestito l’Associazione Nazionale Magistrati e lo descrive al meglio il presidente Matteo Frasca: “Entrando in quelle stanze si avverte una forte emozione, é netta la sensazione che siano ancora tra noi e che in quegli uffici debbano tornare da un momento all’altro, per continuare a scrivere altre pagine straordinarie della storia giudiziaria di questo Paese”.
Ad accompagnarci nella visita è Giovanni Paparcuri, straordinario collaboratore dei due Magistrati e inventore della informatizzazione del maxiprocesso. Fu ferito ma scampò miracolosamente all’attentato del 29 luglio 1983 nel quale persero la vita il giudice istruttore Rocco Chinnici, due uomini della scorta e il portiere dell’abitazione del magistrato. Fu fatta esplodere una Fiat 126 imbottita di tritolo e Paparcuri ci mostra quasi con orgoglio la foto della devastazione e il suo sangue sparso per terra. Poi ci mostra un’altra cosa, tra le mille carte sparse sui tavoli dei due magistrati. Un appunto del diario segreto del “suo” capo Rocco Chinnici, ora appeso alla parete, datato 18 maggio 1982. Racconta come la lotta alla mafia non sia sempre corale o vissuta con eguale convincimento. Come gli ostacoli a volte siano proprio dove meno te li aspetteresti.
Dice così: “Vado da Pizzillo (Presidente di Corte d’Appello) per chiedere un pretore e lui mi investe in malo modo dicendomi che all’ufficio istruzione stiamo rovinando l’economia palermitana disponendo indagini ed accertamenti a mezzo della guardia di finanza. Mi dice chiaramente che devo caricare di processi semplici Falcone in maniera che cerchi di scoprire nulla perchè i giudici istruttori non hanno mai scoperto nulla. Osservo che ciò non è esatto in quanto sono stati proprio i giudici istruttori di Palermo che hanno scoperto i canali della droga tra Palermo e gli Usa e tanti altri fatti di notevole gravità. Cerca di dominare la sua ira ma non ci riesce. Mi dice che verrà ad ispezionare l’ufficio (ed io lo invito a farlo)… L’uomo che a Palermo non ha mai fatto nulla per colpire la *mafia*, che anzi con i suoi rapporti con i grossi mafiosi l’ha incrementata, ha insabbiato tutti i processi nei quali è implicata la *mafia*, non sa più nascondere le sue reazioni e il suo vero volto. Mi dice che la dobbiamo finire, che non dobbiamo più disporre accertamenti nelle banche”.
Don Ciotti a Bologna ha urlato, alcuni giorni fa, per denunciare la “mafia delle parole”. Quelle parole che raccontano falsità, che esprimono demagogia, che nascondono la verità, che colpiscono al cuore chi opera per il bene comune.
Anche in questo, Palermo fa scuola.
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