76° ANNIVERSARIO ECCIDIO EX OFFICE REGGIANE: L’INTERVENTO DI IVANO BOSCO, SEGRETARIO CGIL R.E.
28 luglio 1943-28 luglio 2019
E’ un vero piacere ed onore essere stato invitato oggi ad intervenire in questa importante occasione.
Un onore che a me è toccato in quanto in questo momento Segretario della Camera del Lavoro ma che voglio condividere con tutte le compagne e i compagni della Cgil e le confederazioni Cisl e Uil, con cui quotidianamente cerchiamo di dar voce al valore e all’importanza del lavoro.
Cgil, Cisl Uil, sono organizzazioni che traggono i propri valori dalla Resistenza, dalla Costituzione figlia della Resistenza. La stessa democrazia del nostro Paese è figlia della Resistenza e della guerra di Liberazione. E credo di poter affermare che l’eccidio dei 9 operai (8 uomini e 1 donna) alle Officine Reggiane del 28 luglio 1943, sta pienamente all’interno delle lotte per la Liberazione che i lavoratori intrapresero in quegli anni.
Quella mattina di 76 anni fa i lavoratori decisero di uscire dalla fabbrica per dirigersi verso la città. Quasi 7.000 persone, disarmate, pacifiche, avevano come obiettivo quello di incontrare la gente, la città, di continuare quel rapporto forte e storico che si era instaurato tra fabbrica e città, per chiedere la fine della guerra, che la caduta del dittatore assassino – con la buona pace di chi oggi ne vuole sottolineare gli aspetti positivi – avvenuta 5 giorni prima, poteva far presagire.
Una guerra che stava distruggendo anche la popolazione civile, che stava affamando anche chi un’occupazione l’aveva. Di fame vera e propria si può infatti parlare, tanto che appena 4 mesi prima, nel marzo, si realizzò proprio alle Reggiane, una protesta che fu chiamata “sciopero per il pane”, interrotta dalle milizie fasciste.
Quel 28 luglio, alla protesta per le condizioni di vita, si univa la speranza di una libertà che sembrava possibile ritrovare.
Era, come detto, una manifestazione pacifica, nessuno poteva aspettarsi l’inizio di una strage. Le Guardie giurate delle Officine e il plotone di Bersaglieri inviati per la difesa dell’ordine pubblico, applicarono con solerzia l’ordine impartito prima da Badoglio e il 26 luglio dal Generale Roatta, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, che autorizzava ed invitava a far fuoco senza preavviso contro ogni assembramento di persone non autorizzato ed iniziarono a sparare.
9 morti e oltre 40 feriti.
Qualcuno si illuse di chiudere così quella che venne definita “una finestra di libertà”, pensando di tornare rapidamente alla normalità. Una normalità che significava guerra, dittatura, fame, povertà, abolizione dei diritti minimi.
Come la storia continuò è noto. Le proteste dei lavoratori, gli scioperi nelle grandi città del Nord continuarono e si alzarono di tono negli ultimi mesi del 1943, nel 1944, nella primavera del ’45 fino alla liberazione completa del Paese.
Impossibile raccontare la Resistenza prescindendo dal ruolo che i lavoratori ebbero.
Assieme alla lotta armata, alle montagne, alla liberazione delle città c’è sempre la storia del lavoro, del ruolo che ha avuto.
Dalla difesa degli apparati produttivi, al boicottaggio intelligente della produzione destinata alla guerra, al blocco della produzione stessa quando una manifestazione o, peggio, uno sciopero si è visto che conseguenze avrebbero potuto avere.
Non ci fu mai la separazione tra l’idea di lavoro con quella della fine della guerra e della libertà.
Si organizza la Resistenza, ma contemporaneamente si lotta nelle fabbriche, si esercita questa funzione con i mezzi e le possibilità dell’epoca, nonostante un livello di repressione tremendo.
Si pensa al presente, rivendicando aumenti salariali, migliori condizioni di vita, ma si pensa anche al futuro che deve avere la libertà come fondamento, la cacciata dei nazisti e dei loro servi fascisti.
Ma si devono avere le fabbriche funzionanti, perché che futuro può esserci senza lavoro?
Che Costituzione avremmo se il lavoro non avesse avuto questo ruolo durante la Resistenza?
Perché, è bene ricordarlo, il primo risultato, subito dopo la cacciata dei nazisti e dei loro servi fascisti, fu l’emanazione della Costituzione.
La legge fondamentale, quella da cui dipendono tutte le altre, quella che ha permesso ad una giovane democrazia repubblicana di darsi regole, di conoscere oltre 70 anni di pace.
E la Costituzione, che è appunto la legge fondamentale, non può essere piegata o interpretata a seconda del volere di chi è al governo. Le regole devono valere per tutti.
L’articolo 1 dice che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Non su altri elementi che pure avrebbero avuto la loro dignità. Perché il lavoro ha liberato l’Italia e ha guardato al futuro del Paese.
E cosa ne sarebbe stato della nostra democrazia se negli anni successivi alla Resistenza il lavoro non si fosse mobilitato per rivendicare diritti, riforme, un miglioramento della società? Se il lavoro non fosse sceso in piazza per difendere il Paese dal terrorismo, dalle mafie, misteri che questo Paese non ha mai del tutto chiarito!
Quando si lottava per migliorare le proprie condizioni, si sapeva che non era una lotta corporativa ma alla base c’era la volontà di migliorare le condizioni del Paese.
Il pronome che si usò in quegli anni di lotta e sacrifici fu il NOI, imparato dalla Resistenza, e non l’IO inculcato dal regime e che oggi qualcuno vorrebbe far tornare di moda. Cosa saremmo oggi se la solidarietà, l’uguaglianza, il rispetto dell’altro da qualunque parte arrivi o di qualunque colore sia la sua pelle, non fossero stati concetti fondamentali per la classe lavoratrice?
Ecco, domandiamoci come sarebbe stato il Paese in questi anni.
Domandiamoci anche però come è stato trattato il lavoro in questi anni. Gli ultimi decenni lo hanno umiliato, deprezzato. Si è fatto passare, purtroppo anche da governi di diversa matrice politica, l’idea che in fondo non sia altro che una merce e che come tale abbia un prezzo. Che sia un costo da comprimere, da liberare da troppe regole, non un elemento di libertà, di idealità, di socialità, di relazione positiva tra le persone.
Chi era un operaio, in quegli anni, era orgoglioso di definirsi tale. Pur vivendo in una condizione di sfruttamento, si sapeva di contribuire a far funzionare il Paese.
Poi si lottava per migliorarsi. Anche contro le Istituzioni che però si rispettavano e si facevano rispettare.
Il lavoro in quegli anni e nei decenni successivi, faceva scuola. Insegnava con il suo orgoglio, ai giovani, come si sta in fabbrica e nel mondo.
Oggi chi sono gli operai? Non ci si venga a dire che non esistono più! Le fabbriche ci sono ancora, certo ridimensionate, più tecnologiche.
Ma oggi gli operai sfruttati ci sono ancora, eccome! Li trovate il sabato e la domenica nei centri commerciali, nei centri della logistica a movimentare la merce che consumiamo, sono quelli che ci assistono nelle strutture sanitarie, quelli che ci portano il cibo nelle case.
Sono migliaia, sfruttati da false cooperative, mal pagati, precari, insicuri.
Gli è stato cambiato nome, ma sempre di sfruttamento si tratta.
Gli è stato tolto l’orgoglio di sentirsi parte di una classe, la speranza di migliorare ma soprattutto di lavoro si muore ancora.
Le statistiche, anche se non si può parlare di numeri perché dietro ogni numero c’è una storia, una famiglia, una vita, ci dicono che 3 persone ogni giorno escono di casa per recarsi al lavoro, ma a casa non tornano. E’ degno di un Paese civile questo? E’ così che si rispetta l’art. 1 della Costituzione?
Il liberismo, la cultura di impresa, la finanza sono diventate le uniche ideologie ammesse.
Quelle che fanno vincere l’IO sul NOI, fondamento di una storia iniziata oltre 80 anni fa.
Purtroppo neonazismo e neofascismo non sono incubi solo del passato, sono realtà che, se almeno per ora nel nostro Paese sono numericamente limitate ma molto rumorose e pericolose, rischiano di radicalizzarsi e radicarsi se trovano, come sta succedendo, protezione politica e governativa e non si ricostruiscono le fondamenta per un vivere democratico, non si affermano quei valori di solidarietà, di uguaglianza, non si da’ l’opportunità a milioni di persone, oggi prive di lavoro, di un lavoro dignitoso, di riscattarsi e di sentirsi parte di una comunità.
Ma anche su questo non avremmo nulla da inventarci, la nostra Costituzione ci dice già tutto, basta applicarla. Ci dice che il fascismo, che qualcuno, anche al Governo, vuole banalizzare, non è una opinione o una ideologia: è un reato e come tale va trattato.
Va contrastato anche il pensiero che ogni tanto ritorna, che vorrebbe seppellire sotto un unico significato, le morti di quegli anni.
Non dobbiamo stancarci di dire che non è così! Un conto è la pietà umana ma il significato di quelle morti non è uguale per tutti. C’è chi la libertà la voleva negare e chi è morto per difenderla. C’è differenza tra le 9 persone che ricordiamo oggi e chi ha loro sparato? Se avesse vinto chi stava dall’altra parte, avremmo avuto questi anni di pace, di conquiste sociali, di diritti, di libertà, di esprimere culture e valori diversi?
Anche rispettando quelli che da quella cultura ne discendono e spesso non sanno neanche di cosa parlano,
Riportare al centro della politica il lavoro non serve però solo a respingere pericoli di derive autoritarie.
Significa CONSEGNARE ai giovani la memoria di quello che è successo e consegnare loro una società in cui gli individui sono liberi di determinare la propria esistenza, liberi in sostanza di scegliere.
E il lavoro, un lavoro che sia adeguatamente retribuito, sicuro, non precario, che sia elemento di socialità, di collettività è sinonimo di libertà.
La domanda che spesso ci sentiamo fare è se servono ancora giornate come questa. Se non ci sentiamo fuori moda definirci antifascisti. Rispondiamo di no! Non lo siamo, per quello detto e servono perché fanno parte della nostra storia e poi perché la memoria va coltivata.
La memoria è soggetta alla storia perché il tempo aiuta a capire aspetti magari rimasti in ombra. Ricordare la Resistenza, gli episodi come quello di cui oggi parliamo, ci porta a capire meglio il mondo di oggi.
Come lo abbiamo guastato, fino al punto di pensare che non si possa più rimediare. Ma anche 70 anni fa si pensava che non ci fosse più nulla da fare, che la missione fosse impossibile. Poi ci furono le stragi come quelle delle Reggiane, gli scioperi, la Resistenza e la missione si compì.
Dallo spirito delle Resistenza, da quegli insegnamenti ripartiamo.
A noi nessuno oggi chiede di prendere il fucile e di andare in montagna. Non chiudiamoci però nelle nostre case, nel nostro io, non facciamoci pendere in giro da chi inculca paure. Continuiamo a voler scegliere non a far scegliere altri, non rassegniamoci.
Come scrisse Giacomo Ulivi, studente di 19 anni, agli amici prima di essere fucilato dai fascisti: “Non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto questo è successo perché non ne avete più voluto sapere”.
Ivano Bosco, Segretario generale CGIL Reggio Emilia