UNO+UNO=TRE
Paolo Bonacini, giornalista
Fino ad oggi i processi Aemilia aperti nella nostra regione erano due in uno: il rito abbreviato di Bologna, arrivato alla sentenza d’appello, e quello ordinario di Reggio Emilia, nel quale era atteso per i prossimi giorni l’inizio delle requisitorie e delle arringhe finali.
Dall’udienza di martedì 13 marzo comincerà invece una nuova storia, con il processo reggiano a sua volta spacchettato in due: rito ordinario e nuovo rito abbreviato. Stesso collegio di giudici, stessi pubblici ministeri a sostenere le accuse e stessi avvocati in difesa degli imputati; probabilmente anche stessa aula se Caruso, Beretti e Rat lo riterranno opportuno.
Ma nel rito abbreviato quest’aula si chiama Camera di Consiglio e il processo procederà spedito a porte chiuse verso la sentenza, che in caso di condanna prevederà la riduzione di un terzo della pena per i colpevoli.
La novità era nell’aria, conseguenza della modifica dei capi di imputazione proposta dai PM nell’udienza dell’8 febbraio.
Sono i cambiamenti che coinvolgono le 34 persone (su 149 rinviati a giudizio) accusate di appartenere all’associazione mafiosa denominata ‘ndrangheta, per le quali viene ora considerato un arco temporale più ampio di consumazione del reato: due anni in più, fino all’8 febbraio 2018. Vengono inserite anche ulteriori accuse di attività illecite: ricettazione, riciclaggio, reimpiego di denaro di provenienza illecita e minacce ad imprenditori e figure istituzionali.
Per due imputati, Gianluigi Sarcone e Luigi Muto classe ‘75, è stata inoltre contestata dall’accusa l’assunzione di un ruolo di organizzazione e direzione della cosca dopo gli arresti del 28 gennaio 2015. Il primo dall’interno del carcere in cui è recluso, il secondo dall’esterno essendo a piede libero.
Il collegio guidato dal presidente Francesco Maria Caruso doveva a questo punto decidere come inquadrare questa nuova formulazione, scegliendo in sostanza tra due espressioni: “Fatto nuovo” o “Fatto diverso”, che suonano a noi abbastanza simili ma che dal punto di vista della procedura penale implicano strade assai diverse. Per semplificare, il fatto nuovo può portare ad un nuovo processo, mentre il fatto diverso configura una continuità con il precedente reato contestato, e per il collegio di Reggio Emilia è questo il nostro caso.
Ciò è conseguenza di quanto specificato nei nuovi capi di imputazione: gli accusati “confermano l‘adesione alle regole ed alla strategia del sodalizio ‘ndranghetistico di appartenenza” attraverso il proprio comportamento anche dopo gli arresti del 2015.
La confermano, secondo la procura antimafia, e in alcuni casi addirittura la irrobustiscono, ben 33 di quei 34 soggetti a cui è contestato il 416 bis, cioè l’associazione mafiosa, e la 34esima unica donna del gruppo, Baachaoui Karima, non lo fa semplicemente perché da allora è irreperibile e su di lei pende un decreto di latitanza emesso dal GIP il 9 febbraio 2015.
Corollario di questa continuità è che gli imputati rimangono all’interno di questo processo ampliando il fronte delle azioni di cui sono accusati.
Ma la procedura penale riserva loro il diritto, in caso di contestazione di “fatti diversi”, di poter accedere appunto al rito abbreviato.
Alcuni lo hanno già fatto, o hanno già annunciato attraverso i loro legali che lo faranno, ma la formalizzazione si avrà martedì 13 marzo perché essendo una decisione importante per il destino processuale il collegio ha concesso questo fine settimana di riflessione.
Quasi certamente, come anticipato dagli avvocati che nell’udienza del 6 marzo contestavano la genericità dei nuovi capi di imputazione chiedendone l’annullamento (i giudici sono stati di altro parere), al rito abbreviato andranno Gianluigi Sarcone, Sergio Bolognino, il collaboratore Salvatore Muto, Eugenio Sergio, Giuseppe e Palmo Vertinelli, Pasquale Riillo, Giuseppe Iaquinta, ed anche l’unico dei sei uomini ritenuti alla guida della cosca che aveva scelto di contestare nel dibattimento del rito ordinario l’accusa di essere un capo ‘ndrangheta in Emilia Romagnola: Michele Bolognino.
E gli altri potrebbero seguirli, partendo da un semplice ragionamento di opportunità sulla base di quanto emerso ed accaduto in questi due anni. L’ipotesi della condanna, dopo le due severissime sentenze del processo di Bologna, è infatti oggi più che una ipotesi e il dibattimento a Reggio Emilia non è riuscito nel complesso a smontare la robusta struttura dell’impianto accusatorio, almeno a parere del cronista. Per contro c’è un autobus che passa: quello della pena ridotta di un terzo. Meglio salirvi sopra perché è l’ultimo della stagione che offre il convento.
Se andrà così, gli avvocati difensori saranno perlomeno riusciti ad ottenere indirettamente, e paradossalmente grazie ad una scelta dell’accusa, un risultato al quale puntavano dall’inizio del processo: le porte chiuse, chiuse specialmente ai giornalisti.
Nell’aula aperta al pubblico non resterà comunque un pezzo insignificante del processo, anzi. Ci saranno da giudicare almeno 115 imputati degli attuali 149, e storie pesanti che li coinvolgono, come gli affari del post terremoto e il “sistema Finale Emilia” di cui parlano le motivazioni della sentenza d’appello di Bologna.
Sono ancora calde, depositate in cancelleria il 26 febbraio scorso, e ci consentono di apprezzare i motivi della sostanziale conferma delle condanne di primo grado.
Due vicende sono definite emblematiche dai giudici Cecilia Calandra, Eufemia Milelli e Roberti Cigarini: l’affare di Sorbolo e le frodi Carosello. Il primo è un vastissimo intervento immobiliare alle porte di Parma del valore di circa 20 milioni di euro, realizzato impiegando soldi della cosca e nell’interesse della cosca. Il secondo è il sistema di compravendite che sfrutta le norme comunitarie realizzando un vorticoso giro d’affari capace di generare utili e riserve di denaro attraverso il credito d’imposta.
Entrambe le storie hanno risuonato cento volte anche nell’aula bunker di Reggio Emilia, segno dell’indissolubile legame tra i due processo e tra i loro protagonisti. Come legata ad altri protagonisti del processo ordinario è la parabola del politico di Forza Italia Giuseppe Pagliani, ora condannato dall’appello a quattro anni di reclusione per i suoi legami con la ‘ndrangheta reggiana.
Le motivazioni di questo cambio di rotta, dopo l’assoluzione nel primo grado, sono importanti ed interessanti. Le approfondiremo nei prossimi giorni, mentre partirà il terzo processo, figlio legittimo dei primi due.
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