UNA SENTENZA LUNGA 1200 ANNI DI CARCERE E MILIONI DI EURO

1 Novembre 2018

Paolo Bonacini, giornalista

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“In nome del popolo italiano” il presidente del collegio giudicante di Aemilia Francesco Maria Caruso ha iniziato a leggere la sentenza alle 13,15 di mercoledì 31 ottobre e quando ha terminato, circa due ore più tardi, sui quaderni degli appunti si contavano oltre 1200 anni di carcere ai quali sono stati condannati 119 dei 148 imputati. Tra gli altri 29, tutti personaggi minori, si contano 24 assoluzioni e cinque prescrizioni del reato.

I nomi di spicco del processo, accusati di appartenere alla cosca Grande Aracri, sono tutti condannati e l’impianto della Procura Antimafia regge alla sentenza di Reggio Emilia come a quella definitiva della Cassazione pronunciata nei giorni scorsi sul rito abbreviato.

19 anni di carcere a Giuseppe Iaquinta, padre del calciatore campione del mondo in Germania Vincenzo, a sua volta condannato a due anni. I due sono usciti urlando dall’aula bunker dopo la sentenza. 38 anni complessivi per Michele Bolognino, il solo tra i sei capi che ancora attendeva la decisione dei giudici avendo preferito il rito ordinario di Reggio Emilia all’abbreviato di Bologna. Per gli altri accusati del capo 1, il 416 bis, sono arrivate anche pene più pesanti di quelle chieste dai PM.

22 anni e 9 mesi a Pasquale Brescia, 18 a Maurizio Cavedo, 23 ad Antonio Floro Vito, 21 al fratello Gianni, 25 a Vincenzo Mancuso, 15 anni e 8 mesi ad Alfonso Paolini, 19 anni e 10 mesi a Gianluigi Sarcone, il fratello del capo reggiano Nicolino già condannato a Bologna. Pene pesanti anche per i membri della famiglia Muto (12, 20 e 26 anni ai tre omonimi Antonio, residenti a Reggio) e per quelli della famiglia Vertinelli (29 anni a Giuseppe e quasi 30 a Palmo).

Antonio Valerio, il collaboratore di giustizia che tanto ha contribuito con le sue deposizioni alla ricostruzione delle attività della cosca, ha goduto delle relative attenuanti ed è stato condannato complessivamente a 11 anni e 2 mesi. L’altro collaboratore, Salvatore Muto, che ha una posizione marginale in questo processo, è stato assolto come richiesto dai PM nel rito ordinario e condannato a 4 anni e 8 mesi in abbreviato.

Pene non indifferenti anche per gli imprenditori emiliani che con la ‘ndrangheta ci hanno fatto affari: alla famiglia Bianchini di Modena, accusata di aver lucrato sul terremoto del 2012, il collegio composto da Francesco Caruso, Cristina Beretti e Andrea Rat non ha riconosciuto il concorso esterno ad associazione mafiosa, ad esclusione di Augusto. Per lui, titolare della Bianchini Costruzioni srl, nove anni e dieci mesi. Quattro anni e sei mesi invece per la moglie Bruna Braga. Due dei figli sono andati assolti mentre il terzo, Alessandro, è condannato a tre anni. Condannato anche l’ex presidente della Reggiana Gourmet ed ex vicepresidente della CNA provinciale, l’imprenditore reggiano Mirco Salsi: quattro anni e sei mesi.

Impressionante la mole dei beni confiscati tra imprese, auto, moto, camion, conti correnti, immobili, assicurazioni. Stabiliti anche in via definitiva i risarcimenti a molte parti civili, tra le quali spiccano le due Camere del Lavoro di Reggio e Modena, con oltre mezzo milione di euro a testa, e la CGIL regionale con 100mila euro, per la gestione della mano d’opera da parte della ‘ndrangheta nei cantieri e per il danno all’attività sindacale portato dall’infiltrazione mafiosa nell’economia. Avere quei soldi dagli ‘ndranghetisti sarà difficile, ma la sentenza fissa nella giurisprudenza e nella cultura l’idea che le mafie danneggiano il lavoro, i lavoratori e chi li rappresenta, portando solide conferme al valore della costituzione di parte civile dei sindacati, ben oltre quanto avevano fatto le prime due sentenze del rito abbreviato di Bologna che riconoscevano solo il danno derivante dal caporalato. Altri enti e associazioni hanno avuto riconosciuta una provvisionale non in via definitiva, con valore finale che andrà stabilito in sede civile. Complessivamente tra beni confiscati e risarcimenti alle parti civili si sommano decine e decine di milioni di euro: una cifra importante, ma che è solo una piccola parte di quanto la ‘ndrangheta si è portata via dai nostri territori violando le leggi, alterando le regole e il mercato.

47 persone infine sono state segnalate dal Tribunale alla DDA per valutare i reati di falsa testimonianza e di reticenza commessi in aula durante i due anni e mezzo di testimonianze. Non erano dunque, secondo i giudici, i giornalisti che raccontavano cose false sul processo, come sostenuto dalle difese: erano piuttosto i testimoni intimoriti, minacciati o collusi.

Ci sarà tempo per ragionare nei dettagli di questa sentenza che definire storica non è esagerato. Assieme a quella definitiva della Cassazione relativa al rito abbreviato essa ci consegna una profonda verità alla quale solo chi ha gli occhi bendati e le orecchie tappate può far finta di non credere. La ‘ndrangheta c’è, non è mai definitivamente sconfitta, e trova sempre cretini e collusi disposti con lei ad entrare in affari.

Il processo di Reggio Emilia ci consegna un’altra verità: personaggi delle Forze dell’Ordine e dello Stato hanno tessuto relazioni con uomini della cosca, ma la capacità investigativa e di contrasto delle stesse Forze e dello stesso Stato possono e debbono vincere la battaglia.

Ricordiamocelo per il futuro visto che, come commenta oggi il Procuratore Capo della DDA di Bologna Giuseppe Amato, sono stati bravissimi i Procuratori Mescolini e Ronchi che hanno condotto l’inchiesta Aemilia, ma c’è ancora tanto lavoro da fare.

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