UN PUGNO DI SABBIA

19 Gennaio 2018

Paolo Bonacini, giornalista

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“Mi avvalgo della facoltà di non rispondere”.

Bastano queste parole a Francesco Lamanna per spingere il giudice Francesco Maria Caruso a chiudere il collegamento video e mandare tutti a casa nell’udienza più breve della storia del processo Aemilia: quella di martedì 18 gennaio.

Peccato, perché in aula erano in tanti ad aspettarlo e ad aspettare la sua “verità” sulle cose raccontate dal fedele braccio destro Salvatore Muto, collaboratore di giustizia. A partire da Giuseppe Iaquinta e dal figlio Vincenzo, assieme all’avvocato di fiducia Carlo Taormina, chiamati in causa da una storia d’intreccio mafioso/calcistico che fa ombra al calcio scommesse.

Muto l’ha raccontata in aula il 5 dicembre scorso: “Eravamo a pranzo e ne parlavamo con Alfonso Paolini e Nicolino Sarcone. C’era pure Francesco Lamanna. Gli Iaquinta li conosco da anni, sono legati alla consorteria. Sono persone che venivano favorite sui lavori. Giuseppe aveva chiesto se qualcuno poteva aiutarlo per spingere la Juventus a fare giocare Vincenzo, da troppo tempo in panchina, o in alternativa a metterlo sul mercato”.

Lamanna promise in quel pranzo di interessare alcuni amici di San Mauro Marchesato, al soldo del potente killer della cosca Lino Greco, che aveva piantato radici tra il Piemonte e la Liguria. In cambio chiese semplicemente una tuta della Juventus, perché il capo ‘ndrangheta di Cremona andava in tuta anche alle cene di gala. Ci viveva e ci dormiva nelle tute, racconta Muto, e quella vera dei campioni d’Italia era probabilmente la più ambita.

Stessa richiesta da mercato calcistico, benchè illecito, era avvenuta alcuni anni prima quando Vincenzo giocava nella Udinese. Lo racconta Lamanna a Muto mentre tornano verso Cremona dopo il pranzo e il pentito lo riassume in aula. Ernesto Grande Aracri, fratello del boss Nicolino, aveva ordinato al nipote Rosario Porchia di andare con alcuni suoi uomini a minacciare l’entourage della Società friulana.

“La cosa è avvenuta” dice Muto, “o almeno così ha detto a me Lamanna”. Ernesto Grande Aracri venne poi arrestato per la sua appartenenza alla ’ndrangheta e dal carcere, racconta ancora Salvatore Muto, chiese a Iaquinta un paio di scarpe da calcio in cambio del favore fatto.

“Tre volte Ernesto ha dovuto chiedere quelle scarpe prima di riceverle” dice Lamanna a Muto nel commentare con ironia la storia: “Non è che anch’io devo chiedere la tuta tre volte prima di averla?” In aula vengono mostrate alcune foto: ci sono Paolini, Iaquinta padre e Sarcone che reggono sorridenti alcune scatole di scarpe dell’Adidas e la maglia numero 15 di Vincenzo in nazionale. Battuta finale degna di un capo, che Lamanna lancia a Muto in auto per chiudere la storia: “E comunque non è che si può intervenire per tutte le stupidate che chiede Iaquinta!”.

Le ha dette davvero queste cose il capo ‘ndrangheta? Li ha compiuti davvero la ‘ndrangheta questi tentativi di imporre a due squadre di serie A le scelte riguardanti un giocatore importante come il campione del mondo Vincenzo Iaquinta?

Non lo sapremo mai da Francesco Lamanna, perché l’uomo attualmente rinchiuso nel carcere di Spoleto ha già rimediato una trentina d’anni di galera in tre diversi processi ma le sentenze non sono passate in giudicato. Lamanna può quindi avvalersi del diritto di non rispondere, in base all’art. 210 del Codice di Procedura Penale, in quanto ancora imputato in un procedimento connesso. La sua deposizione è durata 5 secondi, il tempo per dire: “Non parlo”.

Ma forse è bene così perché il processo ha da rispondere a domande più preoccupanti per la nostra comunità locale che il destino di un calciatore.

Ad esempio: chi erano l’assessore e il giornalista reggiani che la ‘ndrangheta aveva ipotizzato di uccidere nei primi anni Duemila. A sostenerlo è un altro collaboratore di giustizia, non imputato in Aemilia ma ascoltato in videoconferenza durante una delle ultime udienze. E’ Vincenzo Marino, entrato nella ‘ndrangheta nel 1992 e uscito nel 2007 come collaboratore “per dare un futuro ai miei figli e anche perché sono stato attinto da colpi d’arma da fuoco”. Cioè hanno cercato di ucciderlo.

Apparteneva alla cosca crotonese Vrenna-Corigliano-Bonaventura, alleata con i Grande Aracri. Di soprannome fa “Vichs”, come il famoso Vaporub al mentolo che sembra uscire dalla sua bocca mentre parla veloce in videoconferenza con accento squillante e bruciando le parole.

In due ore di interrogatorio spara tante bordate quante Antonio Valerio in due mesi. Dice che a Reggio Emilia tra il 2000 e il 2006 la ‘ndrina di Cutro disponeva di talmente tanti soldi da dare fastidio al Pil italiano; che le banconote arrivavano a Cutro con i camion per i mobili ammucchiate come balle di fieno; che nella sua vita è stato condannato per tutto quello che c’è nel Codice Penale a parte la prostituzione; che Nicolino Grande Aracri era un vero giocatore di serie A con un cervello che vale dieci dei nostri; che quando veniva a Reggio Emilia incontrava Nicolino Sarcone perché lui parla “solo con gli squali, non con le alici”; che nel loro sistema calabrese non solo gli amici ma persino i vicini di casa si fanno togliere tutto il sangue piuttosto che parlare.

E di sé stesso aggiunge “Io ero il Ministro della Difesa che aveva la responsabilità dei gruppi di fuoco e di difendere la Famiglia”.

Già nei precedenti interrogatori della DDA aveva raccontato cose forti al PM come il fatto che “nel 2002 Nicolino Grande Aracri, tramite Francesco Lamanna, fece eleggere un sindaco per loro piacimento, non so se proprio a Reggio città o in qualche paesino. Il politico era amico di Lamanna che inviò una imbasciata a Cutro dove Nicolino Grande Aracri poteva sbattere i pugni sul tavolo e dire: ragazzi votate a questo qua perché questo qua ci dà lavoro”.

Ma di chi parla? Nessuna indagine lo dice o approfondisce il tema.

E di chi parla Marino quando racconta in aula che la cosca aveva ipotizzato di uccidere un assessore e un giornalista che rompevano le scatole?

Solo la Direzione Distrettuale Antimafia ha gli strumenti per cercare una risposta se ritiene Marino credibile, eppure il luogo e il tempo in cui fu ipotizzata la soluzione violenta per il giornalista circoscrivono le notizie e le inchieste trattate dalla stampa.

Marino dice che a porgli il problema fu Antonio Muto, classe 1971, a processo in Aemilia come partecipe dell’associazione mafiosa, durante un incontro nel 2003 in una concessionaria di Gualtieri.

Di Antonio Muto, figlio di Benito, ha parlato più volte anche il collaboratore Giuseppe Giglio al PM Mescolini negli interrogatori del 2016. Lui viveva come Muto a Gualtieri e assieme a lui faceva affari nella compravendita di materiali inerti: ghiaia acquistata dalle ditte mantovane della famiglia Prospero e sabbia da chi scavava abusivamente nel Po. Dell’attività in Lombardia abbiamo parlato il 28 settembre 2016, nell’articolo “La ghiaia era nera”. Dice Giglio: “Andavamo via con dei camion pieni da cinquanta tonnellate. Se un trasportatore normale, o una cooperativa, si faceva pagare la ghiaia portata giù in cantiere a Modena 1500 lire, noi magari facevamo 1400. Però noi l’avevamo pagata 400, contro gli 800 degli altri. Se un altro camion faceva, per dirle, 500mila lire di fatturato, noi ne facevamo di più: 800 o 900. E in più ci guadagnavamo anche l’IVA. E’ così che ho cominciato con la mia ditta individuale, che ho chiamato col mio nome: la Giglio srl”.

Sull’acquisto di sabbia nella sponda reggiana del Po dice invece Giglio il 9 febbraio 2016: “Abbiamo intrapreso anche un rapporto con Bacchi, diciamo, a comprare materiale, cioè in nero, e rivenderlo”.

Tre mesi dopo, il 9 maggio, sempre Giglio fornisce altri dettagli: “La Bacchi lavorava con tutti i meridionali, come no! Ci lavoravo io, ci lavorava Muto, ci lavorava Presenzano che è stato anche arrestato e gli hanno sequestrato tutta l’azienda pure. Ci lavorava Riillo. Cioè ci vendeva del materiale in nero e poi ci faceva le fatture”.

La Bacchi Aladino e Figli era una grossa impresa con sede a Boretto che vendeva prodotti e materiali per l’edilizia. Esiste ancora oggi, si chiama Bacchi spa e si è completamente rinnovata, adottando anche un codice di condotta antimafia, dopo lunghe vicende giudiziarie culminate con due provvedimenti di esclusione dalla white list emessi dalla Prefettura di Reggio nel 2011. Nel 2002, un anno prima dell’incontro nella concessionaria di cui parla Marino, la Guardia di Finanza di Cremona aveva passato ai raggi x tutta l’attività della Bacchi Aladino e Figli e sequestrato due imbarcazioni nell’ambito di una inchiesta avviata del Sostituto Procuratore di Reggio Luciano Padula, che indagava sugli scavi abusivi nel Po.

Erano state le guardie provinciali del coordinatore e poi comandante Agostino Giovannini, che aveva fiuto nello scovare i malaffari, a documentare i movimenti delle due barche di una società di navigazione con sede a Viadana che partivano dai pontili di Boretto e scavavano di notte nell’alveo del fiume. Ad aiutarle anche un testardo presidente di Legambiente a Reggio Emilia, Massimo Becchi.

La ditta Bacchi si dichiarò estranea ad ogni attività illecita ma la vicenda giudiziaria tenne banco in seguito per almeno dieci anni. Vennero alla luce altre attività di estrazione, con altre motonavi ed altre imprese impegnate a scavare, in un sistema diffuso di scempio ambientale lungo il fiume Po. Di questa storia si occuparono giù allora, tra il 2002 e il 2004, anche i giornali e le televisioni locali e nazionali. Il TG1 e le Iene mandarono in onda le riprese notturne, Telereggio raccontò il blitz della Guardia di Finanza nel novembre del 2002, la Gazzetta di Reggio scrisse che le perizie confermavano la provenienza dal fiume della sabbia sequestrata. Repubblica allargò l’inchiesta ad altre province arrivando a disegnare un quadro inquietante nel novembre del 2004: “L’estrazione abusiva è proibita da una legge del ’92 ma tollerata da tutti; va avanti da anni senza che nessuno la fermi, protetta da una ‘mafia della sabbia’ e da un regime di connivenza e di tangenti tra aziende e autorità. E’ un saccheggio sistematico e brutale che sta provocando al fiume danni irreparabili. Gli esperti hanno calcolato che il letto del fiume si è abbassato di quattro metri negli ultimi cento anni e che calerà di altri quattro nei prossimi venti se non cesseranno gli scavi abusivi. Con conseguenze drammatiche.”

E’ facile presumere che quelle indagini e il conseguente battage giornalistico abbiamo dato fastidio agli uomini della ‘ndrangheta nel settore costruzioni, mettendo in discussione la possibilità di continuare ad approvvigionarsi della materia prima a prezzi ribassati. E’ solo uno, ma senza dubbio allora di grande impatto, dei temi attorno ai quali i giornalisti possono aver “rotto le scatole” a Muto e Marino firmando i loro articoli.

Degli scavi abusivi nel Po intanto sembriamo esserci tutti dimenticati. Li abbiamo archiviati, direbbe Augusto dei Nomadi, “come un pugno di sabbia negli occhi miei”.

 

 

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