SETTE ANNI FA
Paolo Bonacini, giornalista
Terminate le feste natalizie si torna in aula, nel Tribunale di Reggio Emilia, per l’ultima fase del processo Aemilia. Perizie tecniche, testimoni convocati dal collegio dei Giudici (tre persone: Potito Scalzulli, Franco Corradini, Enzo Ciconte), poi la parola ai Pubblici Ministeri per la requisitoria e alle difese per le arringhe.
In attesa della fine vale la pena guardare indietro, alla stagione che ha scoperchiato il pentolone dell’infiltrazione mafiosa in Emilia e in particolare nel reggiano, per avere consapevolezza dell’insieme di elementi che hanno portato alla grande indagine di Aemilia e al successivo processo.
Un ruolo determinante lo ha svolto la prefettura reggiana, negli anni in cui Prefetto a Reggio Emilia era Antonella de Miro (dal 1 settembre 2009 al 9 settembre 2014). Oggi tutti riconoscono alla dott.ssa De Miro intuizione, coraggio e capacità nell’applicazione delle interdittive antimafia che si sono rivelate uno strumento fondamentale di ostacolo alla diffusione dell’economia illecita e di emersione dell’imprenditoria malavitosa. Ma il merito forse maggiore del Prefetto De Miro è quello di avere saputo costruire un quadro unitario e ampio di analisi, propedeutico alle esclusioni dalla white list, partendo dalle indagini e dai dati allora disponibili. Un quadro che suscita oggi impressione per la corrispondenza con quanto in seguito accertato in Aemilia.
La relazione consegnata dal prefetto De Miro alla Commissione Parlamentare Antimafia il 28 settembre 2010, quattro anni e mezzo prima dei 117 arresti del gennaio 2015, è la rappresentazione di questa capacità.
Le prime pagine sintetizzano il contesto socio economico del territorio reggiano. Una provincia in forte espansione demografica, passata dai 454mila abitanti censiti nel 2001 ai 524mila del 2010, con una parallela crescita del comune capoluogo.
“La popolazione immigrata nel suo complesso”, aggiunge la relazione, “rappresenta nella realtà reggiana un segmento importante, ben integrato, grazie anche alla tradizionale capacità di accoglienza del popolo reggiano e all’alta qualità dei servizi alla persona. Tra gli altri qui si è insediata da decenni una folta comunità di cutresi, che ha ormai superato le 10mila presenze, con una spiccata propensione verso l’edilizia e le attività ad essa correlate”.
Un dato importante messo a fuoco in questo primo capitolo è il numero di imprese edili che risultano iscritte in provincia alla Camera di Commercio: 13.246. Dice il Prefetto: “Si tratta di un numero oggettivamente elevato se confrontato con le iscrizioni complessive (57.098) e con quelle risultanti, ad esempio, nella più popolosa ed economicamente omogenea provincia di Modena (11.361). A partire dagli anni Settanta si sono inseriti nel settore, con un ruolo sempre crescente, imprenditori immigrati dalla Calabria ed in particolare dal crotonese”.
Il dato reggiano risente di un numero considerevole di aziende artigiane (edili) che la dott.ssa De Miro riconduce “in realtà, a semplici lavoratori dipendenti costretti ad aprire una partita IVA di comodo per consentire l’elusione degli oneri contributivi”. E’ una prima anomalia negativa che trova poi riscontro nelle tante pratiche di intermediazione di mano d’opera, caporalato, sfruttamento del lavoro e concorrenza sleale evidenziate nei capi di imputazione del processo Aemilia.
Passando all’insediamento di segmenti mafiosi nel territorio, Antonella De Miro sottolinea che la realtà “dinamica e florida” dell’economia locale, la “diffusa ricchezza” e le possibilità di “crescita ed espansione” hanno costituito un “fattore di attrazione per attività speculative illecite e si è quindi assistito all’infiltrazione nel tempo di presenze criminali che, arricchitesi inizialmente con il traffico degli stupefacenti, hanno rivolto successivamente la propria attenzione verso le possibilità di investimento in settori quali l’edilizia e l’autotrasporto, caratterizzati da largo impiego di manodopera a bassa specializzazione. In particolare si registra un forte radicamento di affiliati alle cosche di Cutro e di Isola Capo Rizzuto, comuni calabresi della provincia di Crotone”.
La relazione ricostruisce quindi la presenza storica della ‘ndrangheta in provincia a partire dagli anni Ottanta, come confermato anche di recente dai collaboratori di giustizia, e indica in Nicolino Grande Aracri il capo indiscusso di questa diffusa presenza dopo la stagione degli omicidi terminata nel 2004 con l’uccisione in Calabria di Antonio Dragone: “Prenderà il sopravvento Grande Aracri Nicolino detto Mano di gomma, che consolida e conferma il proprio potere in Cutro e, conseguentemente, in Reggio Emilia, potendo contare in questa provincia sulla presenza di affiliati e dei numerosi fratelli, 7 su 11, qui residenti con le rispettive famiglie”.
Agli amici e ai membri del sodalizio è data la possibilità di trovare a Reggio Emilia “appoggi logistici ed economici durante la latitanza, di procurarsi armi e di drenare denaro da imprese di corregionali amiche o comunque che conoscono e sanno ben riconoscere la forza intimidatrice dell’Organizzazione. Il collaboratore di giustizia Angelo Salvatore Cortese (che la relazione del Prefetto cita spesso per aver consentito di “disvelare attività e interessi della organizzazione”), riferisce addirittura di ditte che hanno costituito una sorta di bancomat per la ‘ndrangheta”.
I settori in cui cresce l’attività mafiosa sono quelli degli appalti pubblici, dell’autotrasporto e dei pubblici esercizi. Ma “è una mafia che si è arricchita insinuandosi nel tempo nell’economia legale anche attraverso l’usura, l’estorsione e il sistematico ricorso a fatturazioni per prestazioni inesistenti o di minore importo”.
La falsa fatturazione, aggiunge il Prefetto, “è una pratica illegale largamente diffusa tra gli imprenditori cutresi che hanno potuto realizzare con l’abbattimento dei redditi tassabili significativi arricchimenti”. E il pensiero corre oggi inevitabilmente a quanto dichiarato sette anni più tardi, l’estate scorsa, dal collaboratore Antonio Valerio ai PM Mescolini e Ronchi: “Se prendiamo tutti gli imprenditori cutresi e li spremiamo, lì esce Iva, tasse non pagate, imposte dirette e non dirette…”
Il coro unanime degli imputati di Aemilia divenuti collaboratori, Giuseppe Giglio, Antonio Valerio e Salvatore Muto, indica nella falsa fatturazione l’attività principale attraverso la quale generava contante e ricchezza la ‘ndrangheta reggiana. Ma i dettagli della relazione prefettizia fanno impressione per i numeri e i valori in gioco, oltre che per l’arco temporale del sistematico ricorso alle operazioni inesistenti. Antonella De Miro la chiama “una attività diffusamente praticata e ben sfruttata nell’ultimo decennio dalla cosca”: quindi già dalla fine degli anni Novanta. Le false fatture “sono documenti emessi da imprenditori, spesso solo formalmente tali, che a loro volta non registrano e non dichiarano i relativi importi. Di fatto, semplice carta, il cui costo spesso è di poche centinaia di euro. L’accertamento del carattere fittizio di tali operazioni non sempre risulta agevole, ed a fronte di un mercato delle costruzioni in continua espansione si è creato un terreno favorevole al concretizzarsi di fenomeni fortemente distorsivi delle regole della concorrenza e di cospicui illeciti arricchimenti. Dal 2007 al giugno 2010 la Guardia di Finanza ha effettuato tra verifiche fiscali e controlli in materia di lavoro nero accertamenti verso 333 imprese, scoprendo 170 milioni di euro di redditi sottratti a tassazione con la conseguente denuncia all’Autorità Giudiziaria di 121 imprenditori per reati fiscali”.
Un mare di soldi dunque. Ma “proprio in questi giorni” aggiunge il Prefetto de Miro “c’è la richiesta di rinvio a giudizio di 13 imprenditori del crotonese per frode fiscale. Sono imprenditori associati al Magno Consorzio che nel biennio 2006/2007 hanno emesso fatture gonfiate nei confronti dello stesso Consorzio per 2,5 milioni di euro”. E’ il Consorzio formato da una quarantina di piccole imprese edili che operavano unite per ottenere subappalti, con sede in via Brigata da Reggio, finito poi anche al centro dell’inchiesta sulle false fatturazioni della grande cooperativa Unieco, della quale il Consorzio era fornitore. Il quadro che disegna la relazione prefettizia si arricchisce di ulteriori dettagli: “Le indagini hanno consentito di acclarare false fatture nel settore dell’edilizia per 20 milioni di euro. Sono state denunciate 36 persone e si procederà con ulteriori accertamenti per un totale di oltre 250 imprese coinvolte. Molte aziende avevano dichiarato tra i propri fornitori soggetti inesistenti; in molti casi per sfuggire ai controlli veniva distrutta la contabilità. E’ emerso pure il caso di due imprenditori che hanno emesso fatture durante un periodo di detenzione in carcere”. Per concludere: “il meccanismo delle fatture fittizie coinvolge anche, seppure in misura meno rilevante, il settore dell’autotrasporto”.
Strettamente collegata alla falsa fatturazione è l’usura, con prestiti che generavano interessi mensili tra il 10% e il 15%. Un fenomeno “negli anni passati particolarmente diffuso. Gli usurati hanno potuto far fronte agli impegni grazie alle risorse rese disponibili dai minori oneri fiscali, fraudolentemente ottenuti. Ma oggi” aggiunge la De Miro “il forte ridimensionamento del mercato immobiliare ha messo in crisi il sistema mandando in tilt tale circuito delinquenziale”. Per il delitto di usura vengono ricordati gli arresti nel maggio 2010 di Giuliano Floro Vito, Antonio Grande, dei fratelli Giuseppe e Salvatore Silipo.
Terza gamba del sistema illecito di finanziamento delle imprese è l’utilizzo come bancomat di società e imprenditori amici che pongono in essere “una consapevole condotta agevolata di finanziamento del gruppo criminale beneficiando, a loro volta, della potenza criminale dell’Organizzazione per affermarsi nei settori economici di interesse: edilizia, movimento terra e autotrasporto. Il collaboratore di giustizia Cortese ha ben lumeggiato la figura e il ruolo di questi imprenditori, con l’indicazione di diversi nominativi.”
Nella relazione spiccano quelli di Palmo e Giuseppe Vertinelli residenti a Montecchio, di Giuseppe Giglio domiciliato a Gualtieri, del gruppo famigliare dei Muto: Benito, Gerardo, Antonio e Cesare, pure di Gualtieri, e di Fortunato Pagliuso, indagato dalla polizia tedesca di Duisburg per il riciclaggio di mezzi pesanti, rubati in Italia e rivenduti all’estero, arrestato dalla Questura di Reggio dopo essere fuggito dall’ospedale Santa Maria Nuova dove era ricoverato. Le indagini hanno accertato il furto e la vendita di 110 mezzi acquistati in leasing dalla ‘ndrangheta utilizzando sette società di comodo italiane.
“Risulta anche” aggiunge il Prefetto, “che i Vertinelli nel corso degli anni si sono prestati all’assunzione di pregiudicati, contigui con organizzazioni di tipo criminale mafioso, quali Antonio Valerio, Michele Bolognino, Giorgio Pecoraro”. E la relazione non dimentica gli osservati speciali a Reggio Emilia e Brescello: Nicolino Sarcone e Alfonso Diletto. Né i reggenti delle cellule costituite a Monticelli d’Ognina in provincia di Piacenza e a Cremona: Antonio Villirillo e Francesco Lamanna
Un quadro completo e unitario, insomma, arricchito dalle tappe storiche dell’insediamento delle Famiglie nel reggiano, e soprattutto completato dalla indicazione delle iniziative della Prefettura di Reggio in materia di sicurezza nei pubblici appalti e nell’autotrasporto. Un importante elenco di azioni di prevenzione, di protocolli e di collegamenti interforze, di strumenti informatici e di documenti condivisi con le organizzazioni sindacali, le pubbliche amministrazioni, le associazioni di categoria, che approfondiremo in futuro.
Questo conoscevano, dicevano e facevano nel 2010 la Prefettura di Reggio Emilia e il suo Prefetto Antonella De Miro.
Una consapevolezza, ma pure una competenza, da fantascienza, soprattutto se confrontate con il sapere e il sentire comune dei reggiani di allora, istituzioni pubbliche comprese. A soli 750 metri dalla Prefettura accadeva che in Questura il parere del Prefetto: “si rifiuti”, venisse sbianchettato e diventasse “si accetti”. Oggetto: il rinnovo del porto d’armi a uomini sospettati di appartenere alla ‘ndrangheta e oggi a processo.
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