QUELLI CHE “MEGLIO LADRI CHE MAFIOSI”, QUELLI CHE “PORTAVANO I SOLDI ALL’ESTERO CON BERLUSCONI”
Paolo Bonacini, giornalista
Parlano gli imputati al processo Aemilia: ultime dichiarazioni spontanee rilasciate prima che inizi la Camera di Consiglio per i 24 accusati di associazione mafiosa che hanno scelto il rito abbreviato. E dichiarazioni spontanee anche per chi resta nel rito ordinario. Due verbali aperti in ogni udienza, con regole e contenuti diversi come previsto dal codice di procedura penale, ma con la stessa domanda di fondo che condiziona il futuro di chi parla: il Tribunale li giudicherà colpevoli o innocenti?
Nelle loro dichiarazioni diversi degli imputati hanno scelto di stare nella terra di mezzo, quella in cui si compiono azioni che sono certamente reati ma non così riprovevoli come l’associazione mafiosa: sono colpevole signor Presidente, ma non di appartenenza alla ‘ndrangheta. Magari ho emesso qualche falsa fattura, oppure ho passato una vita a rubare, ma il 416 bis no: non so neanche cos’è.
Il più spontaneo è Francesco Amato, esuberante alla sbarra come lo è di solito da due anni fuori e dentro l’aula del tribunale, con i suoi cartelli e le sue proteste plateali: “Ho passato una vita a rubare” dice, “ho fatto 60 o 70 furti e li ho pagati con la giustizia, ma non ho mai maneggiato armi e neppure droga.”
Poi alza la voce: “Dalla notte degli arresti nel 2015 non ho più incontrato nessuno degli imputati, non ho più fatto niente, e allora mi spiegate come faccio ad avere il 416 bis? Come ho fatto a rinnovare la mia appartenenza alla ‘ndrangheta, come c’è scritto nel nuovo capo di imputazione, se non ho più visto e parlato con nessuno in questi tre anni? Io allora faccio una cosa semplice: denuncio tutti i Pubblici Ministeri, così me lo verranno a spiegare come ho fatto”.
Carmine Belfiore non è da meno nella sua deposizione: “Io sono il cutrese più stupido dell’Emilia Romagna” esordisce, “perché sono finito in galera mentre di solito chi fa false fatture non ci va mai dietro le sbarre. Avevo imparato da Gianni Floro Vito che era bravo con la falsa fatturazione e ci guadagnava. Poi c’era Giuseppe Giglio che grazie alle false fatture era diventato un imprenditore di successo. Io invece sono finito dentro, ma non sapevo neanche perché le firmavo quelle fatture: mi prendevo la mia percentuale e stop. Il resto non mi interessava e non ho mai fatto parte di nessuna associazione mafiosa; perché la mia vita non è segnata dalla ‘ndrangheta ma da un incidente stradale che mi ha portato tanti soldi grazie all’assicurazione. Il problema è che me li sono bruciati tutti con il gioco d’azzardo e sono rimasto più povero di prima. Nella mia vita ho commesso dei furti e delle rapine ma la ‘ndrangheta non la conosco, non ho mai partecipato ai matrimoni o ai funerali dei capi, non sono mai andato a quelle riunioni che fanno i mafiosi. E Nicolino Sarcone lo conosco solo perché giù a Cutro eravamo vicini di casa.”
Secondo le deposizioni dei collaboratori di giustizia in realtà Carmine Belfiore “finge” di essere stupido, perché uno che brucia le rotoballe e fa saltare in aria i cassonetti della spazzatura senza motivo, solo “per vedere l’effetto che fa”, cioè quanto tempo ci mettono i vigili del fuoco ad arrivare e come si muovono i carabinieri (racconta Antonio Valerio citando Iannacci), può essere un matto o un genio del crimine, non certo uno stupido. E poiché Carmine Belfiore, sempre secondo Valerio, teneva dati statistici e disegnava grafici sui tempi di intervento delle forze dell’ordine e sulle loro abitudini investigative, propenderemmo per l’ipotesi del genio criminale.
Nella sua deposizione odierna Belfiore aggiunge comunque alcune note sul prototipo del giocatore d’azzardo senza rendersi forse conto che sta parlando anche di sé stesso: “Sono finito in galera poco prima degli arresti di Aemilia per colpa di uno che giocava come me: i giocatori sono bastardi e bugiardi, disponibili a fregare anche gli amici. Gli interessano solo i soldi, e nel 2014 ho tentato di rapinare uno di loro che aveva vinto tanto in una bisca clandestina di Forlì. Mi è andata male e per questo sono finito dietro le sbarre, non perché sono trequartino o ‘ndranghetista. Queste sono tutte barzellette.”
Più puntigliosi nelle loro dichiarazioni sono Michele Bolognino e Gaetano Basco che contestato punto per punto l’impianto accusatorio concentrandosi al contrario di Amato e Belfiore non tanto sul primo capo di imputazione che li associa alla ‘ndrangheta (addirittura per Bolognino con il ruolo di leader) quanto sui reati specifici a loro attribuiti. Ma il giudice Caruso spesso li blocca ricordando che le dichiarazioni spontanee, come recita l’articolo 494 del codice di procedura penale, non possono essere arringhe difensive che spettano solo agli avvocati. Serve essere sintetici e sinceri riferendosi all’oggetto del reato ma non è detto che sia semplice per un imputato col maremoto in testa comprendere i confini giuridici delle proprie esternazioni. Ne sa qualcosa Omar Costi che nella propria dichiarazione si blocca per l’emozione giovedì mattina 5 aprile, dopo appena quattro parole, e chiede di poterci riprovare più tardi.
Cosa dicono Palmo e Pino Vertinelli è invece paradossalmente poco importante perché per loro la vera notizia oggi è che il tribunale del riesame di Bologna ha accolto la loro istanza di scarcerazione e tornano liberi. I due imprenditori di Montecchio restano naturalmente imputati nel rito abbreviato di Aemilia ma la libertà è la libertà. Che si assapora meglio soprattutto se, come accaduto a loro il 22 marzo scorso, cinque minuti dopo essere uscito di galera, per decadenza dei termini di carcerazione preventiva, vieni arrestato di nuovo nel piazzale del carcere con la valigia appena fatta e devi disfarla un’altra volta in cella senza neppure passare da casa. La decorrenza dei termini riguardava il reato di intestazione fittizia dei beni, il nuovo arresto contestava l’appartenenza alla associazione mafiosa. Ad eseguirlo erano stati il 22 marzo i carabinieri del reparto operativo di Modena che li attendevano nel parcheggio della Pulce, ma il Riesame oggi ha contestato l’ordinanza di custodia cautelare e stabilito la scarcerazione: è la terza in tre anni, ricorda l’avvocato Gaetano Pecorella che li tutela, a fronte di altrettanti arresti. Si attende la prossima puntata della telenovela.
Ha poi reso una dichiarazione spontanea in aula anche Alfonso Paolini, con tono pacato ma rincarando la dose sulle sue frequentazioni con uomini delle questure di Reggio e di Parma, partendo dall’amicizia con l’ispettore in servizio a Reggio Domenico Mesiano, condannato a otto anni e sei mesi nel rito abbreviato di Bologna.
Il questore di Reggio dal 2004 al 2008, dott. Gennaro Gallo, in una tribolata testimonianza del luglio 2017 aveva ammesso di avere incontrato Alfonso Paolini solo una volta o due, anche se gli aveva firmato di proprio pugno, cosa abbastanza inusuale, l’autorizzazione al rilascio del porto d’armi personale. Paolini parla invece di frequentazioni e favori abituali: “una trentina di volte almeno ci saremo incontrati e l’accompagnavo con la mia auto giù a Roma assieme a Mesiano, come nel 2007 quando io dovevo andare a Crotone e lui al Ministero, così gli ho dato un passaggio assieme ad un direttore di banca e ho fatto sosta nella capitale.”
Paolini racconta anche di avere preso una multa a Roma, per un transito in zona vietata, ma il Questore gli disse: “Ci penso io”. La linea difensiva di Paolini è giocata su queste amicizie importanti: uomini ai vertici delle Forze dell’Ordine, imprenditori importanti come Pino Ruggieri e Giuseppe Iaquinta, i salotti del calcio italiano, le cene di pesce nel ristorante Al Portichetto di Campegine “dove erano le autorità ad invitarmi, non io a chiamare loro”. Per giungere all’ovvia conclusione: “Era tutto alla luce del sole e il questore non sarebbe mai venuto a mangiare con me se ero un esponente della ‘ndrangheta”.
La sua dichiarazione spontanea termina lì ma pochi minuti dopo chiede di parlare in video conferenza anche Salvatore Muto, il collaboratore di giustizia che ha una buona memoria storica delle attività in Emilia Romagna dei clan Dragone prima e Grande Aracri poi. Il suo è un attacco frontale a Paolini: “Non dice la verità, e con tutte le loro amicizie altolocate e i loro soldi, lui e Iaquinta, che bisogno avrebbero avuto di frequentare noi uomini della ‘ndrangheta se non eravamo della stessa famiglia?”
Secondo Muto Paolini in realtà era già al soldo dei Dragone prima della faida con i Grande Aracri e incassava per il clan il pizzo dagli imprenditori, in particolare dall’Italcantieri (poi fallita) di Pino Ruggieri, che lavorava in Emilia Romagna con il benestare della consorteria. Infine l’ultimo affondo, pesante: “Paolini e Ruggieri erano amici anche di Berlusconi, e con lui e i suoi figli portavano all’estero i soldi delle tangenti che servivano per Mani Pulite”. C’è tempo anche per una riflessione sull’omertà degli imputati che si dicono estranei alla ‘ndrangheta: “Dite che non appartenete alla cosca ma non avete mai denunciato una persona o un reato. Mai: com’è possibile?”
La domanda coglie un tema vero, e il presidente del Tribunale Caruso afferma che la dichiarazione spontanea di un imputato che è anche collaboratore di giustizia è logico si basi sull’accusa come legittima forma di difesa. Ma nell’aula è rimasto l’eco di un nome sul quale nessuno chiede conferme o pronuncia smentite. Un nome che rimbalza nelle orecchie di tutti: Berlusconi, Berlusconi, Berlusconi…
Si torna in aula il 3 maggio: chissà se l’eco sarà svanito.
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