L’ABISSO E LA REALTA’
Paolo Bonacini, giornalista
“Se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te.”
Lo ha scritto nel quarto capitolo di una delle sue opere più famose, “Al di là del bene e del male”, Friedrich Nietzche nel 1866. Non è chiaro cosa intendesse il celebre filosofo con l’aforisma, ma una possibile lettura è che l’abisso identifichi una via, una impresa, che non porta da nessuna parte, se non nel buio, che invece cercava la luce. Forse è per questo che quando Guardia di Finanza e Carabinieri (che decidono di norma i nomi delle grandi inchieste) proposero “Abisso” per la complessa indagine sulla penetrazione della ‘ndrangheta cutrese in regione, alla vigilia degli arresti del 2015, l’allora sostituto procuratore della Repubblica Marco Mescolini cercò di far cambiare loro idea (e ci riuscì). Perché l’abisso di Nietzche lascia poche speranze di riscatto e non sarebbe stato di buon auspicio all’inizio di un’avventura che si preannunciava già abbastanza complessa e difficile di per sé. Senza il bisogno dunque di appesantirla con una nome da menagrami.
Alla fine si è scelto Aemilia che al contrario non ha niente a che fare con gli uccelli del malaugurio ed anzi richiama le origini di questa regione, l’Emilia Romagna, storicamente operosa e capace di vincere le proprie sfide: un nome di buon auspicio insomma.
Il PM del processo Aemilia questa genesi dell’inchiesta l’aveva spiegata agli studenti nel 2015, durante un incontro a Bologna nella sala del Consiglio Regionale (tra gli altri c’erano i ragazzi dell’istituto Silvio D’Arzo di Montecchio e quelli del Matilde di Canossa di Reggio). Nella nuova veste di Procuratore Capo della Repubblica di Reggio Emilia Mescolini l’ha poi richiamata mercoledì 12 dicembre 2018, durante una conferenza promossa dall’Università di Modena e Reggio, nell’aula magna della facoltà di Giurisprudenza, sotto la Ghirlandina.
A distanza di tre anni l’abisso ha oggi un punto d’atterraggio; non è più un pozzo senza fondo. L’ha sentenziato la Suprema Corte di Cassazione con le condanne definitive del 24 ottobre scorso, che riguardano 40 dei 46 imputati per i quali i legali avevano presentato ricorso, compresi i principali capi della cosca. E’ la certezza, giuridica, che la ‘ndrangheta ha operato nella nostra regione, e che consente a Mescolini di sviluppare in conferenza alcune riflessioni “fuori dal luogo naturale in cui parla il Pubblico Ministero del processo”: l’aula del Tribunale.
Del suo intervento merita di essere richiamato in particolare il riferimento ai tempi e alla visibilità della penetrazione nel territorio della cosca proveniente da Cutro. Mescolini richiama gli omicidi a Reggio Emilia del 1992 (Nicola Vasapollo a Pieve Modolena e Giuseppe Ruggiero a Brescello) per dire che allora la decisione di fingersi carabinieri (il commando che andò a Brescello) e di viaggiare a bordo di una finta auto sempre dei carabinieri, fu una scelta ragionata e voluta per mandare un chiaro segnale di autorevolezza e di forza nella provincia. Una sorta di: “Siamo capaci di questo e altro”.
Ma il Procuratore Capo va ancora più indietro nel tempo, a quel 1983 che vede Antonio Dragone confinato a Salvarano di Montecavolo, in comune di Quattro Castella. Mescolini richiama una informativa di Polizia che descriveva allora le attività del capobastone nei suoi primi otto mesi di soggiorno obbligato nel reggiano, e che non lascia dubbi sula visibilità e sull’attivismo di Dragone nel nuovo contesto geografico.
Scrive la Questura: “Pervenivano in questo ufficio numerose segnalazioni che il Dragone Antonio, oltre a ricevere nel suo alloggio di Montecavolo numerose visite di corregionali, è solito avere al seguito cinque o sei elementi che si alternano con altri ogni 4/5 giorni, facendo notare chiaramente di essere addetti alla sua sorveglianza tallonandolo, fiancheggiandolo e seguendolo a coppie, facendogli comunque compagnia per tutto il giorno. I predetti inoltre sono soliti occupare per lunghe ore l’unico telefono pubblico della frazione, sito nel Bar Cooperativa, tenendolo a loro disposizione e impedendo a chiunque di fruire dell’utenza. Sovente, sia all’interno del bar sia sulla pubblica via, il Dragone si fa notare ad elargire forti somme di denaro con biglietti da 100mila lire ai suoi fidati, estraendo dalle tasche grossi pacchetti di banconote di tale taglio. Tale comportamento denota, senza ombra di dubbio, che il Dragone si trova a suo perfetto agio in questa provincia per la presenza di una numerosa colonia di compaesani in grado di offrirgli ogni forma di assistenza, ed all’occorrenza, manovalanza per perpetrare qualsiasi azione poco chiara”.
Ciò fa ritenere allora alla Polizia che Dragone “continui le sue attività” qui a Reggio Emilia e soprattutto che vada considerato “il pericolo costituito dalla presenza in questa provincia, fortunatamente finora indenne al fenomeno mafioso, di una numerosa colonia di cutresi, molti dei quali disoccupati e ancora non integrati nel sistema di vita locale, i quali coagulandosi attorno al prevenuto (Dragone), potrebbero costituire una associazione di tipo mafioso”.
L’ultima riga è sottolineata, nella informativa di Polizia, quasi a lanciare un allarme che oggi a buona ragione si può definire profetico.
Correva l’anno 1983 quando si sviluppava nella realtà della nostra provincia questa trama da film.
Non è stata una occupazione silente quella della ‘ndrangheta nelle nostre terre: avveniva alla luce del sole e attraverso sfacciate manifestazioni di autorevolezza criminale, vuoi con l’auto truccata da Gazzella che andava verso un omicidio a Brescello, vuoi attraverso i pacchi di banconote da 100mila lire mostrati con sfacciataggine nel bar ammutolito della Cooperativa di Montecavolo.
Sarà bene tenerlo a memoria, perché lo stesso giorno in cui Mescolini richiamava questi passaggi storici, altri dopo di lui al convegno hanno sollevato dubbi sulla applicabilità del 416 bis, il reato di associazione mafiosa, per la difficile individuazione certa dell’omertà, dell’assoggettamento e dell’intimidazione che l’articolo presuppone. E lanciato critiche alla pubblicità del processo che consente alla stampa una lettura autonoma delle udienze e del dibattimento, con il rischio conseguente di una informazione filtrata o parziale all’opinione pubblica.
Ogni critica è legittima (anche se non sono apparse chiare le alternative al 416bis e alla libertà di informazione) ma se la storia ci insegna qualcosa in materia, almeno qui da noi, è che prima dell’inchiesta Aemilia facevamo fatica a vedere e a sentire ciò che accadeva nel mondo reale. Dragone e i finti carabinieri ne sono una prova. Eppure il mondo reale un po’ d’attenzione la merita; a meno che non si preferiscano l’abisso e l’irrazionalismo di Nietzche.
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