LA MAFIA E LO STATO

1 Ottobre 2018

Paolo Bonacini, giornalista

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Il comune di Gazoldo degli Ippoliti è un tranquillo paese di tremila abitanti incastrato tra i parchi naturali dell’Oglio e del Mincio, ad ovest di Mantova. Dal 2015 ogni anno nell’ultima settimana di settembre si anima per la rassegna “Raccontiamoci le mafie”: un fitto calendario di incontri e iniziative culturali attraverso i quali “promuovere consapevolezza, attenzione e riconoscimento di corresponsabilità verso una colonizzazione delle mafie ormai accertata anche nei nostri territori, ma che ancora troppe persone tendono ad ignorare o a sminuire”.

Il programma è ricchissimo e la partecipazione al seminario di lunedì 24 settembre, rivolto a docenti e dirigenti scolastici della provincia, ha consentito di verificare la marcia in più che hanno innestato quelli di Gazoldo sui temi della formazione per il contrasto alle mafie.

Tra i relatori c’era il prof. Isaia Sales, docente dell’università Suor Orsola Benincasa di Napoli, che insegna “Storia della criminalità organizzata nel Mezzogiorno d’Italia”. Sales ha spiegato che per comprendere il successo e l’espansione della mafia in Italia (ma anche per contrastarla) bisogna abbandonare l’ingannevole tesi della sua contrapposizione allo Stato e prendere atto del suo “potere relazionale” con lo Stato. La storia ci insegna, dice il professore, che quando un sistema violento si contrappone allo Stato e ai suoi ceti dirigenti inevitabilmente viene sconfitto. E’ stato così in Italia e in Europa per i pirati, poi il banditismo e il brigantaggio (io aggiungerei anche il terrorismo). Ma nel caso della mafia, della camorra, della ‘ndrangheta, abbiamo un qualcosa che dura dall’inizio dell’Ottocento, passa indenne regimi e governi, riscuote un crescente successo. Ciò grazie essenzialmente al fatto che le mafie invece di porsi in contrapposizione frontale con lo Stato si mettono in collaborazione con esso e stabiliscono relazioni con coloro che dovrebbero fronteggiarle.

“Ecco il motivo del loro successo” dice Isaias “I mafiosi accumulano ricchezza e la reinvestono nell’economia e nella società, grazie alla capacità di costruire accordi con chi avrebbe dovuto sconfiggerli, reprimerli, metterli in galera”.

Ma in galera ce ne sono andati pochi prima di Falcone e Borsellino: dieci ergastoli in totale dal 1861 al 1998. Perché prima di Falcone e Borsellino “i violenti, cioè i mafiosi, godevano dell’impunità concessa loro dai dirigenti politici”. E in cambio hanno aiutato prima “il consolidamento dell’unità d’Italia” poi “la lotta al comunismo”, infine la democratizzazione dell’idea che “da noi è potente colui che aggira la legge e ne fa a meno” se ciò facilita l’arricchimento.

Il prof. Sales fissa dunque uno spartiacque negli anni Ottanta con la nascita dal Pool Antimafia o, meglio ancora, negli anni Novanta quando “Abbiamo seriamente cominciato a contrastare le organizzazioni mafiose solo dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; con un secolo e mezzo di ritardo sulla loro nascita”.

Chiedersi se dopo quella terribile stagione le cose siano cambiate è doveroso, come è doveroso chiedersi, in una regione contaminata dalla ‘ndrangheta come l’Emilia Romagna, se il discorso vale per tutte le mafie o solo per Camorra e Cosa Nostra.

Alla seconda domanda il prof. Sales risponde nell’audizione della Commissione Parlamentare Antimafia il 15 dicembre 2015: “Chi dice che la ‘ndrangheta è un fenomeno degli ultimi trent’anni dovrebbe riguardare lo scioglimento per mafia del consiglio comunale di Reggio Calabria nel 1869: fu il primo dopo l’Unità d’Italia”. Ed è la ‘ndrangheta che decide di modificare la vecchia organizzazione per formare “La Santa”, cioè una struttura in cui “gli ‘ndranghetisti si mettono assieme con i massoni e/o i rappresentanti delle istituzioni per estendere il bacino di influenza fuori dal proprio mondo tradizionale”.

C’è poi una specificità italiana che unifica il disegno strategico delle diverse mafie e in parte risponde alla prima domanda: la corruzione.

“Noi sottovalutiamo il peso della corruzione come elemento legittimante delle mafie” dice Sales “ma se è vero che chi è corrotto non necessariamente è un mafioso, è altrettanto vero che non esiste nessun caso in Italia di mafie senza corruzione.”

E’ questo il nodo unificante dalla Calabria alla Sicilia, dalla Campania al nord Italia. “I mafiosi non attaccano l’insieme del sistema politico; si rivolgono a coloro che nelle istituzioni hanno un loro modo eguale di sentire. Che cosa accomuna i corrotti ai mafiosi? L’idea che ciò che è pubblico può essere privatizzato e che quello che è di tutti può essere reso disponibile o attraverso il voto o attraverso la violenza. E’ la corruzione l’elemento che unisce oggi il sistema politico al sistema mafioso, ma i politici non vogliono sentirselo dire.”

Che lo Stato abbia iniziato una capillare lotta alle organizzazioni criminali di stampo mafioso, partendo dalla Sicilia e dai massacri del 1992, è un fatto innegabile. Che questa lotta abbia significato dover fronteggiare anche sé stesso, anche pezzi, uomini e pratiche di quello Stato contaminati dalla corruzione, che alla lotta avevano sempre preferito il dialogo, che quando scoppia la guerra scelgono (ancora oggi) il versante sbagliato, altrettanto innegabile.

Ce lo dice ai giorni nostri la prima sentenza sulla trattativa Stato Mafia di Palermo che nell’aprile scorso ha condannato a dodici anni di carcere l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, a dodici anni gli ex comandanti del ROS dei Carabinieri generale Mario Mori e generale Antonio Subranni, a otto anni l’ex capitano dei carabinieri Giuseppe de Donno. Uomini dello Stato.

Ce lo dice il processo avviato pochi giorni fa a carico dei tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, per i quali la Procura di Caltanisetta chiede l’aggravante del 416 bis, accusati del “colossale depistaggio” sulla strage di via D’Amelio, attraverso la creazione del falso pentito Vincenzo Scarantino, messo in atto assieme all’ex capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. Altri uomini dello Stato.

Ce lo dicono i quattro processi Borsellino che sono stati necessari per ricostruire questa terribile architettura capace di trarre in inganno per anni l’intera nostra comunità, portando sette innocenti all’ergastolo e tentando di allontanare la verità. La sentenza di primo grado del “Borsellino Quater” depositata nel giugno scorso si interroga sulle “reali finalità dei soggetti inseriti negli apparati dello Stato che realizzarono uno dei più gravi depistaggi della storia italiana” e le collega “alla sottrazione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino che conteneva appunti di fondamentale rilevanza nella ricerca della verità sulla strage di Capaci” e al tentativo di occultare la “responsabilità di altri soggetti, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del Magistrato”.

Non è roba lontana da noi, confinata laggiù in Sicilia. Perché la stessa morale ci raccontano storie di Aemilia, a partire dagli uomini delle forze dell’Ordine imputati o già condannati. Oppure l’inchiesta della Procura di Bologna che accusa oggi altri uomini dello Stato, il senatore Carlo Giovanardi, il Capo di Gabinetto della Prefettura di Modena Mario Ventura, il funzionario dell’Agenzia delle Dogane Giuseppe Marco De Stavola, di “minacce a corpo politico o giudiziario dello Stato e di rivelazione di segreti d’ufficio, con l’aggravante del metodo mafioso”, per aver tentato nel 2014 con ogni mezzo, lecito e soprattutto illecito, di ottenere la reiscrizione alla White List della Bianchini Costruzioni srl, impresa modenese i cui titolari sono a processo nel rito ordinario di Aemilia. Uomini dello Stato che secondo l’accusa hanno tentato di piegare e condizionare altri uomini dello Stato, i responsabili del GIRER, il Gruppo Interforze creato dopo il terremoto in Emilia, fortunatamente senza riuscirci.

Non è roba lontana da noi anche perché un personaggio enigmatico che si inserisce nella trattativa Stato Mafia è il reggiano Paolo Bellini. Rispondendo al PM Nino Di Matteo al processo Borsellino Ter dice l’assassino di Falcone, Giovanni Brusca: “Io avevo un contatto con un certo Bellini, amico di Antonio Gioè, che si erano conosciuti al carcere di Sciacca. Veniva da Reggio Emilia. Aveva dei contatti che non erano né politici né di personalità delle Istituzioni ma bensì con i Carabinieri, cioè con un carabiniere… si chiama, si chiama… l’ho fatto il nome in altra occasione, comunque, un maresciallo dei Carabinieri che per noi era un infiltrato”.

Brusca riassume il pensiero di Bellini sulle opere d’arte rubate che le forze dell’Ordine riescono a recuperare: “Non pensate che lo Stato la trova così facilmente un’opera d’arte di importante valore artistico, patrimoniale. Dietro le quinte c’è sempre una trattativa, o di soldi o di scambio di carcere”. E così prima di Capaci, dice Brusca, “Io mando a Bellini dei quadri rubati a Palermo che mi ha fatto avere Salvatore Riina e in cambio chiedevo per conto di Cosa Nostra la scarcerazione di Luciano Liggio, Giuseppe Grammino, Giovambattista Pullarà, di mio padre, e Riina ci aggiunge Giuseppe Calò (il cassiere di Cosa Nostra)”. Il bigliettino con le foto dei carcerati da liberare viene consegnato a Bellini ma nel frattempo, continua Brusca, “Era successa la strage di Capaci e Salvatore Riina mi dice: stop. Non fare più niente (con Bellini) perché io ci ho un’altra possibilità. Cioè la famosa trattativa”. Ma Brusca chiede a Riina se può andare avanti con Bellini almeno per suo padre e Riina risponde sì.

Quanto fosse credibile e con chi trattasse a sua volta Bellini ancora non è chiaro. Ma qui si parla di mafiosi liberi in cambio di opere d’arte, di intermediari che fanno la spola tra i boss di Cosa Nostra e personaggi dello Stato che si presume siano capaci di aprire i cancelli del carcere duro come fossero la porta di casa propria.

La sentenza d’appello del Borsellino Bis, benché condizionata come il primo grado dalle false dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino (i cui famigliari vivevano qui a Marzaglia, sulla riva destra del Secchia), dice tirando le conclusioni a pagina 1998: “Il processo sulla strage di via D’Amelio non apporta tutte le novità che ci si aspettava. Questo processo concerne esclusivamente gli esecutori materiali, coloro che hanno attivamente lavorato per schiacciare il bottone del telecomando. Ma questo stesso processo è impregnato di riferimenti, allusioni, elementi concreti che rimandano altrove, ad altri centri di interesse, a coloro che in linguaggio non giuridico si chiamano i ‘mandanti occulti’, categoria rilevante sotto il profilo politico e morale. E qui finisce il processo agli esecutori della strage di via D’amelio ma non certamente la storia di questa strage annunciata che deve essere ancora in parte scritta”.

Era datata 18 marzo 2002 quella sentenza, e l’aveva firmata il presidente della Corte d’Assise d’Appello di Caltanisetta. Per chi non lo sapesse quel presidente si chiamava Francesco Maria Caruso, oggi presidente del collegio giudicante di Aemilia.

Il 16 ottobre si ritirerà in Camera di Consiglio assieme a Cristina Beretti e Andrea Rat per scrivere la sentenza di primo grado nel processo reggiano. Per scrivere un altro pezzo di questa storia infinita.

 

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