IL COMPLOTTO

15 Aprile 2018

Paolo Bonacini, giornalista

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In una intervista al Resto del Carlino di venerdì 13 aprile parla Ermes Coffrini, che fu sindaco di Brescello per ben 19 anni. Sindaco è stato per un tempo molto più breve, neppure due anni, anche suo figlio Marcello, costretto alle dimissioni nel gennaio 2016 dall’infuriare delle polemiche sulla ‘ndrangheta in paese. Il Comune è stato poi sciolto per mafia e commissariato ad aprile di quell’anno. Due ricorsi contro la decisione del Ministero dell’Interno, presentati da Marcello al TAR e al Consiglio di Stato, sono stati respinti nel marzo e nel dicembre 2017. Il 10 giugno prossimo a Brescello si tornerà finalmente a votare per rieleggere un consiglio comunale e una giunta scelti dai cittadini.

Rispondendo all’incalzare delle domande (tipo: “Prego, vada avanti”), Ermes Coffrini sostiene nell’intervista una tesi piuttosto ardita che poggia su tre capisaldi:

  1. La Direzione Antimafia di Bologna, per sua stessa ammissione, non ha individuato “cogenti elementi di interesse rispetto al pericolo di infiltrazioni mafiose nel comune di Brescello”.
  2. “Nessun residente nel comune di Brescello risulta colpito da questa indagine”, cioè Aemilia.
  3. Lo scioglimento del Comune è avvenuto dunque per motivi politici: “è facile pensare che si sia sacrificato Brescello per stornare l’attenzione da altre situazioni più importanti”.

Vediamo allora di rinfrescarci tutti la memoria per capire se questa tesi regge di fronte ai fatti e alla storia.

Riguardo al primo punto, la Direzione Distrettuale Antimafia più che avvertire il pericolo ha la certezza delle infiltrazioni mafiose a Brescello. Ce l’ha già a partire dal 22 ottobre 1992 (26 anni fa!) quando la faida di ‘ndrangheta nella bassa reggiana tra i Ruggiero e i Grande Aracri/Arena/Ciampà portò al clamoroso omicidio di Giuseppe Ruggero, freddato nella sua casa di Brescello da un commando travestito da Carabinieri. Il processo Aemilia ha consentito di individuare con precisione mandanti ed esecutori ai quali sono stati notificati nuovi capi d’accusa. Fu una azione vendicativa della morte di Gino Valerio, il padre del collaboratore di giustizia Antonio, ucciso a Cutro da Rosario Ruggiero detto “Tre dita”, cugino di Giuseppe. Ma fu anche un omicidio preventivo, perché Pino e Turuzzo Ruggiero a loro volta nascondevano a Brescello armi appena comprate per 40 milioni di lire, destinate alla resa dei conti con le famiglie rivali.

Quell’omicidio, dice il collaboratore di giustizia Angelo Salvatore Cortese, “fu un segnale forte che Nicolino Grande Aracri voleva dare sul suo controllo del territorio”. A partire da Brescello, dove dal 1987 vive suo fratello Francesco Grande Aracri, condannato con sentenza definitiva per associazione mafiosa (Edilpiovra) nel 2008. A Francesco, tornato libero, nel 2013 sono stati definitivamente confiscati dalla DDA (primo intervento di questo tipo in Emilia Romagna) per il sospetto della provenienza da attività mafiose, beni per circa 3 milioni di euro tra magazzini, appartamenti, auto, imprese e conti bancari. Due delle aziende confiscate si trovano a Brescello: la “Grande Aracri” e la “Eurogrande”.

L’ex sindaco Ermes Coffrini dice nell’intervista al Carlino: “Francesco Grande Aracri, in quanto fratello del boss Nicolino, non è nemmeno imputato nel processo Aemilia”. E’ vero, ma Coffrini dimentica l’intero curricolo mafioso e giudiziario di Francesco Grande Aracri che comprende anche una causa davanti al TAR di Catanzaro, assieme all’altro fratello Antonio, per una questione di condoni edilizi. In quella vicenda che si prolungò dal 2002 al 2006 fu lo stesso sindaco di Brescello Ermes Coffrini a tutelare i diversi componenti della famiglia Grande Aracri, compreso naturalmente Francesco che nel frattempo venne arrestato (2003) nell’ambito dell’inchiesta Edilpiovra. Del sindaco di Brescello i Grande Aracri sono stati dunque nel corso degli anni concittadini, sostenitori, clienti, e infine fornitori per lavori ad un portone nell’abitazione privata.

Anche il figlio di Francesco, Salvatore Grande Aracri detto “Calamaro”, vive a Brescello e il tribunale reggiano lo ha condannato l’anno scorso in primo grado a sei mesi per violenza privata, legata alle minacce rivolte sulla piazza di Brescello alla esponente della Lega Nord Catia Silva, in vista delle elezioni amministrative del 2009. Con la stessa accusa e con l’aggravante del metodo mafioso sono stati condannati anche altri quattro imputati tutti residenti a Brescello: Girolamo e Carmine Rondinelli, Salvatore Frijio e Alfonso Diletto.

Ma il figlio di Francesco Grande Aracri, sempre secondo il collaboratore Cortese che ha dato una svolta decisiva alle indagini sulla ‘ndrangheta emiliana, era anche un affiliato di rilievo, che per conto del padre gestiva la discoteca Italghisa acquistata grazie ai soldi dello zio (e boss assoluto) Nicolino. “Gira con un Suv, un Hammer nero da 100mila euro con sopra scritto Italghisa”, dice Cortese “E’ un affiliato, anche se non conosco il grado. Era sempre dentro al locale che mandava avanti con Salvatore Muto. Lo so perché io ci andavo spesso: entravo, mangiavo e bevevo e non pagavo mai”.

Più in generale a Brescello, scrivevamo già nell’agosto scorso, la lista del dare e avere (contenuta nella relazione inviata dal ministro Alfano l’8 aprile 2016 al Presidente della Repubblica) tra esponenti della ‘ndrangheta e l’amministrazione comunale è piuttosto corposa. “Ingerenze” della malavita nelle elezioni comunali del 2009 e 2014, “attribuzione di lavori da parte del comune” a ditte poi colpite da interdittive, “minacce ad amministratori”, capacità della cosca di “acquisire appalti pubblici e privati”, dichiarazione del sindaco (Marcello Coffrini) di “grande rispetto verso il capocosca locale”, ricambiata da una raccolta di firme a suo favore, “molte delle quali appartenenti a soggetti vicini o contigui alla consorteria”, un consigliere comunale di maggioranza con i piedi in due staffe: “membro della commissione permanente urbanistica del comune e responsabile tecnico di una ditta interdetta che sponsorizzava opere pubbliche”.

La seconda affermazione di Coffrini, per il quale nessun residente a Brescello sarebbe colpito da Aemilia, appare inopportuna già per quanto ricordato. Ma tra i 117 arrestati del 28 gennaio 2015 da cui iniziò il processo c’è Gennaro Gerace, nato in Germania e residente a Brescello in via Di Vittorio, per il quale il giudice per le indagini preliminari Alberto Ziroldi dispose gli arresti domiciliari. E’ stato condannato nel rito abbreviato di Bologna a tre anni e sei mesi per le minacce contro Ugo Apuzzo, gestore di un ristorante nel ravennate, con l’obiettivo di portargli via il locale. La minaccia, messa in atto assieme al capo cosca Alfonso Diletto, era semplice: ti impicchiamo e diamo fuoco al locale.

Tra gli imputati del rito ordinario di Reggio Emilia c’è anche Francesco Muto, domiciliato a Brescello in via Pisi, accusato assieme ad altri di avere nascosto all’interno del consorzio edile Europa, con sede nella stessa Brescello, la vera proprietà di abitazioni, ristoranti e auto appartenenti in realtà al capo Diletto.

E per finire tra gli arrestati di Aemilia c’è lo stesso Alfonso Diletto detto “la scimmia”, residente a Brescello in via Pirandello, riconosciuto nel rito abbreviato di Bologna come uno dei sei capi della cosca e condannato a 14 anni e due mesi con sentenza confermata in appello.

Diletto è uno dei personaggi di spicco della cosca emiliana Grande Aracri meno raccontati al processo ordinario di Reggio Emilia, le cui vicende in parte restano ancora da comprendere. E’ sempre Angelo Salvatore Cortese nel 2008 ad indicarlo come affiliato alla cosca nell’ambito della indagine Ghibli: “E’ uno che aveva fatto i soldi negli anni ’90 con la cocaina, diventando imprenditore di recente”.

Era molto legato a Nicolino Grande Aracri e dopo l’arresto di Francesco nel 2003 ha preso il suo posto come capo a Brescello. A Cutro i Dragone avevano pensato di ammazzarlo e invece è Alfonso Diletto, stando alla deposizione del collaboratore Antonio Valerio, che contribuisce con 200mila euro raccolti assieme a Nicolino Sarcone e Gaetano Blasco all’omicidio di Antonio Dragone, concepito e realizzato in Calabria il 10 maggio 2004. Non è un investimento a perdere: con i Dragone se ne va il 50% degli operatori presenti in un mercato redditizio come quello reggiano.

Di fronte a questo insieme impressionante di nomi e fatti, che peraltro non raccolgono tutti gli elementi valutati per il commissariamento del comune di Brescello, la tesi finale dell’ex sindaco Ermes Coffrini (un complotto politico) è difficile da digerire. E forse anche offensiva per la nostra comunità ferita dalla penetrazione mafiosa.

Quanto fosse radicata e capace di muoversi la cosca lo dice anche il comportamento di Alfonso Diletto nei mesi precedenti agli arresti, quando da capo indiscusso a Brescello e Parma cominciò a parlare con i suoi uomini della possibilità di mollare tutto e fuggire.

E’ Giuseppe Giglio a parlarne ai procuratori Mescolini e Ronchi il 19 luglio 2016, riferendosi al periodo tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014: “Il Diletto è venuto a conoscenza che nella zona di Reggio si stava facendo qualche operazione, cioè l’Antimafia stava indagando. Quindi aveva deciso di mollare tutto qua e di andarsene via, per rimettere in piedi delle attività fuori dall’Emilia Romagna. Mi disse anche a me: stai attento che anche a te vengono a prendere, vedrai. Aveva avuto delle certezze da persone. Persone che erano dalla parte della legge. Lui camminava da tempo con un disturbatore di frequenze, non si riusciva mai a rintracciarlo, e l’attivava anche in macchina perché sapeva che in macchina c’erano le cimici. Me l’ha trovata anche nel mio Rang Rover un giorno, era un filo che scendeva, e mi ha detto: vai in caserma e te lo fai togliere”. Forse intende il comando provinciale dei Carabinieri, dove il maresciallo Alessandro Lupezza (a processo in Aemilia) è disponibile ad interrogare la banca dati dell’Arma per aiutare Pasquale Brescia e gli altri della consorteria.

Il maresciallo D’Agostino che assiste all’interrogatorio conferma: “Ce l’avevamo messa noi!”.

PM Beatrice Ronchi: “Avete saputo qualche altro particolare circa il fatto che vi era una indagine dell’Antimafia a Reggio?”

Giuseppe Giglio: “Mi disse Diletto che c’era molto caldo, che sarebbe successo qualcosa di molto grosso e mi ha detto: se te ti puoi allontanare, scappa. E io gli ho detto: e dove scappo? Era alla fine del 2013. Infatti se lei guarda, fine 2013, inizio 2014, lui comincia a cedere le attività e si allontana da Parma.”

Diletto non aveva avvisato solo Giglio delle indagini in corso. A saperlo era anche Giuseppe Floro Vito che lo disse a Mario Vulcano, postino dei soldi e prestanome di Giuseppe Giglio. Vulcano decise allora di trasferirsi in Polonia dove aveva una società che produceva celle frigorifere assieme ad un socio. E’ tornato in Italia giusto in tempo per gli arresti del 2015.

Giuseppe Giglio: “E’ andato all’estero per un certo periodo, per qualche mese, proprio per la paura di quello che doveva succedere”.

Beatrice Ronchi: “All’estero dove?”

Giuseppe Giglio: “Polonia: non lo sapeva?”

Maresciallo D’Agostino: “No, questo non lo sapevo”

La dottoressa Ronchi chiede a Giglio da chi avesse saputo Diletto delle indagini in corso e Giglio risponde: “Per quel poco che ho appreso, avevano delle conoscenze in alto, in questura a Reggio. Ma con questo non mi riferisco solo all’autista del Questore, attenzione!”

Beatrice Ronchi: “Ma non sa dire chi?”

Giuseppe Giglio: “No”.

C’era dunque nella sede della Polizia in via Dante secondo Giglio un livello superiore a Domenico Mesiano, autista del Questore, che informava gli amici della cosca sugli sviluppi delle indagini che li riguardavano.

Se un complotto c’è stato a Reggio Emilia, i suoi ideatori non si inventavano la ‘ndrangheta: ci andavano d’accordo.

 

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