AEMILIA IN GIUDICATO

26 Ottobre 2018

Paolo Bonacini, giornalista

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La sentenza è definitiva. La cosca di ‘ndrangheta che in Emilia Romagna risponde ai Grande Aracri  di Cutro esiste, ha commesso reati riassunti in almeno duecento voci di imputazione e per cinque dei suoi capi la Corte di Cassazione ha confermato nel rito abbreviato le pene dell’appello. Si va dai 12 anni di Antonio Gualtieri, Francesco Lamanna e Romolo Villirillo, ai 14 di Alfonso Diletto ai 15 di Nicolino Sarcone, considerato il capo tra i capi.

Uno solo dei “magnifici sei” che guidavano la Famiglia attende ancora la sentenza: è Michele Bolognino, per il quale i pubblici ministeri della Direzione Distrettuale Antimafia hanno chiesto complessivamente 48 anni nel processo parallelo di Reggio Emilia.

Il pronunciamento della Corte romana presieduta da Maurizio Fumo conferma l’impianto accusatorio illustrato dal Sostituto Procuratore Generale Paola Filippi e condanna definitivamente 40 dei 46 imputati per i quali i legali avevano presentato ricorso. Complessivamente il rito abbreviato di Bologna registrava 71 persone alla sbarra, con 11 assoluzioni arrivate nei due gradi di giudizio e un solo caso di reato prescritto. Per due dei condannati in appello dopo l’assoluzione di primo grado, Giuseppe Pagliani (quattro anni di carcere) e Michele Colacino (quattro anni e otto mesi), la Cassazione ha deciso il rinvio ad un nuovo secondo grado. Il primo è l’ex capogruppo del PDL in consiglio provinciale a Reggio Emilia, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, l’altro è uomo della cosca secondo la DDA e deve rispondere del reato più grave, il 416 bis per appartenenza ad organizzazione criminale di stampo mafioso.

La sentenza della Cassazione è giunta a tarda sera di mercoledì 24 ottobre ed ora gli occhi di tutti si puntano sull’aula bunker di Reggio Emilia dove da un giorno all’altro è atteso il rientro dalla Camera di Consiglio del collegio giudicante che deve pronunciarsi nel primo grado del rito ordinario. Altri 147 uomini e donne alla sbarra, artefici della consorteria mafiosa o semplici compagni di avventura più o meno collusi nella commissione di reati. L’ultima udienza, la n.195, si è tenuta il 16 ottobre e da allora i tre giudici Caruso, Beretti e Rat sono rinchiusi negli appartamenti allestiti presso la Questura di Reggio Emilia per scrivere la storica sentenza. Comunque vada quel giudizio, il pronunciamento della Cassazione mette un primo, fondamentale punto fermo al più grande processo alla ‘ndrangheta impiantata nel nord Italia e certifica la permeabilità del territorio alle sue mire espansive.

Definitive sono le condanne del dirigente comunale di Finale Emilia Giulio Gerrini sugli affari sporchi del post terremoto 2012; del giornalista Marco Gibertini a disposizione per attirare clientela da estorcere e per difendere sulla stampa e in TV l’operato della cosca; della consulente finanziaria bolognese Roberta Tattini, a “completa disposizione della cosca fornendo consulenza ed opera professionale ed indicando nuovi obiettivi”; del poliziotto Domenico Mesiano per minacce ai giornalisti e per intrusioni nella banca dati della Polizia al solo fine di fornire informazioni utili a personaggi di spicco della ‘ndrangheta. E via così.

Il rinvio ad una nuova sezione della Corte d’Appello di Bologna del più noto esponente politico coinvolto in Aemilia, il leader reggiano di Forza Italia Giuseppe Pagliani, significherà presumibilmente poter acquisire in abbreviato anche le deposizioni rese dal collaboratore Giuseppe Giglio in aula durante le udienze del rito ordinario. Esse portano nuovi elementi a sostegno della consapevolezza di Pagliani in merito all’esistenza della cosca, coi i cui uomini aveva stretto un patto per il futuro: voti e finanziamenti in cambio di commesse e lavori in edilizia. L’esponente di Forza Italia che si è dimesso da capogruppo nella storica Sala del Tricolore di Reggio Emilia, dopo la condanna in appello, oggi può tirare un sospiro di sollievo: non andrà in carcere. Ma lo attende una nuova maratona processuale dall’esito incerto.

Il deposito delle motivazioni chiarirà gli elementi che hanno spinto la Cassazione a questa sostanziale conferma delle sentenze emesse nel secondo grado. Di nuovo c’è anche l’accoglimenti dei ricorsi presentati da CGIL CISL e UIL regionali, e dalle Camere del Lavoro di Reggio e Modena. Queste ultime in particolare rivendicavano, oltre al danno diretto per le forme di caporalato evidenziate dal processo, anche il risarcimento come parti civili per il capo uno di imputazione: il 416 bis. La Cassazione dice che ne hanno diritto e rimanda alla Corte d’Appello la quantificazione del danno.

Altre condanne in solido riguardano la liquidazione delle spese processuali sostenute come parti civili da Libera, da Amministrazioni Locali e da associazioni di categoria. Perché i danneggiati dalle infiltrazioni della ‘ndrangheta sono tanti. Si farebbe forse prima a dire chi non lo è.

 

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