ABBREVIATO MA PUBBLICO
Paolo Bonacini, giornalista
Alla ripresa dell’udienza, nel pomeriggio di martedì 27 marzo, è il Procuratore Marco Mescolini a chiedere la parola per porre al collegio giudicante il problema del rito abbreviato aperto al pubblico.
Ce n’eravamo naturalmente accorti tutti in mattinata, perché nessuno ci ha chiesto di uscire quando sono iniziate le testimonianze degli imputati di Aemilia ammesse dai giudici. Sono quelle di Pasquale Brescia, Luigi Muto nato nel 1975, Michele Bolognino, Gaetano Blasco, Gianluigi Sarcone e Gianni Floro Vito. Tutti accusati di associazione mafiosa nel processo in corso di svolgimento a Reggio e tutti passati al rito abbreviato, assieme ad altri 18 imputati, dopo la modifica dei capi di imputazione depositata dai PM nell’udienza dell’8 febbraio.
Queste nuove testimonianze di persone che hanno già parlato in aula sono state richieste dei loro avvocati difensori, come previsto dal codice di procedura penale, in merito ai soli “fatti diversi” contenuti nella nuova imputazione. Sono fatti che per cinque dei sei, rinchiusi in carcere dal 28 gennaio 2015, riguardano con gradi diversi i comportamenti e le azioni compiuti dietro le sbarre, riassunti dall’accusa in attività di inquinamento delle prove e di intimidazione dei testimoni del processo.
Il solo Luigi Muto deve invece rispondere di fatti compiuti in libertà. E’ lui secondo la Direzione Antimafia ad avere assunto “un ruolo di direzione e di organizzazione della associazione di stampo mafioso, mettendosi a disposizione per proseguire l’attività illecita del sodalizio e per fornire appoggio, assistenza e ausilio ai detenuti”.
Il codice di procedura penale prevede le modalità di svolgimento del rito abbreviato con le norme stabilite dall’art. 441, che al terzo comma recita: “Il giudizio abbreviato si svolge in camera di consiglio; il giudice dispone che il giudizio si svolga in pubblica udienza quando ne fanno richiesta tutti gli imputati”.
Tutti gli imputati, cioè i 24 passati in febbraio al rito abbreviato. Il problema è che non tutti, bensì nessuno (di loro) aveva chiesto sino ad oggi l’udienza pubblica. Anzi, il 13 marzo scorso un avvocato difensore aveva posto il tema del processo a porte chiuse e il collegio si era riservato di parlarne al tempo opportuno. Noi scrivemmo quel giorno: “Mi è parso di vedere uno dei giudici fare un simpatico gesto a mani giunte, come per dire (mia personale interpretazione): ormai qui ci conosciamo tutti, non stiamo a complicarci la vita mandando fuori e dentro le gente”.
La mattina di martedì 27, alla prova dei fatti, nessuno ha chiesto di fare uscire giornalisti e pubblico (la solita decina di parenti degli imputati, due attivisti di Libera e due funzionari della CGIL). Poi nel pomeriggio, come dicevamo, il PM Mescolini chiede lumi e il presidente del collegio Francesco Maria Caruso alle 15,18 risponde con una semplice frase: “Il dibattimento pubblico garantisce tutto e tutti. E’ la miglior garanzia di trasparenza e correttezza”.
Nessuno commenta, nessuno eccepisce. Ed è grazie a questa scelta che possiamo riportare, per averlo sentito con le nostre orecchie, cosa hanno raccontato gli imputati in aula.
Michele Bolognino descrive in videoconferenza il carcere duro a cui è sottoposto con il 41 bis, essendo a giudizio come uno dei sei capi della cosca reggiana. “Sono stato arrestato a Roma il 28 gennaio del 2015, portato in carcere a Velletri e poi spostato a Rebibbia. Dal 17 febbraio sono stato recluso al 41 bis in un’area riservata e potevo parlare solo un’ora al giorno con altri due detenuti che non conoscevo, uno dei quali si è preso 30 ergastoli e deve scontare 500 anni di carcere. Ero controllato con le telecamere sia in cella che in bagno, venivo perquisito cinque volte la settimana e prima e dopo ogni spostamento. I miei colloqui con i parenti erano ascoltati, la mia posta censurata. Mi spiegate come ho fatto ad avere contatti con gli altri e come ho potuto continuare a far parte dell’associazione mafiosa dopo l’arresto? Mi spiegate come ho fatto a gestire locali notturni e ristoranti dal regime carcerario del 41 bis?”
Il carcere è il luogo dove secondo l’accusa si sono consumati buona parte dei nuovi reati e il carcere torna di conseguenza in tanti dettagli delle deposizioni guidate dalle difese, non solo in quella di Bolognino.
Gianni Floro Vito dice di non aver mai visto in carcere il registratore con micro sd che secondo il collaboratore Salvatore Muto serviva a portare fuori e dentro informazioni per condizionare il processo. E neppure una chiavetta da computer destinata ai detenuti di Reggio Emilia che lui avrebbe nascosto.
“Nel carcere di Bologna mi denudavano prima di un trasferimento. Una volta eravamo in tre e mi hanno imposto di spogliarmi nudo. Ma secondo il regolamento io potevo rifiutarmi in presenza di altre persone e l’ho fatto, rimanendo in mutande. Per quella cosa mi hanno punito con otto giorni di isolamento.”
Gaetano Blasco di carceri ne ha passati tanti, a partire dalla Germania dove lo hanno arrestato e rinchiuso a Monaco di Baviera in una struttura di massima sicurezza. Trenta giorni senza mai una parola in italiano, un solo colloquio con il fratello Giovanni, poi il trasferimento in Italia a Rebibbia e un mese trascorso in una sezione di transito. Al carcere di Bologna ci è arrivato il 20 marzo, racconta, prima di finire nella casa circondariale di Tolmezzo sulle Alpi Carniche, riservata ai detenuti in regime di alta sicurezza.
“Non ho mai incontrato Giuseppe Giglio”, dice in riferimento al collaboratore che lo incastra con le sue deposizioni, “e nel carcere di Reggio Emilia parlavo con tutti i detenuti ad esclusione di Antonio Valerio. La radiolina di cui parla Muto non l’ho mai vista; lo giuro sui miei figli e sul Signore.”
Antonio Valerio non sta simpatico neppure a Luigi Muto, per il quale il capo di imputazione dei Pubblici Ministeri è completamente cambiato. Ora fa riferimento ai suoi colloqui con il fratello Antonio classe ’78 e con il cugino Salvatore detenuti in carcere per evidenziare l’anello di congiunzione tra chi è dentro e chi è fuori nella gestione e nell’organizzazione delle attività mafiose. “Ma io non so neanche cos’è un organizzatore”, dice, prima di affondare contro Valerio la sua disistima: “Nel 2001 mi mandò i suoi operai in un cantiere per Coopsette dove sbagliarono completamente un grande muro e alla fine mi chiese 61 milioni di lire nonostante gli errori. Andò anche a protestare da mio padre che trovò una mediazione, ma da allora non ho mai più avuto rapporti con lui. Al massimo un ciao quando ci incontravamo.”
Diverso è il rapporto con Salvatore Muto: “Siamo cresciuti assieme e ci volevamo bene.”
“E allora perché, se vi volete bene, Salvatore dice quelle cose su di lei?”
Il riferimento del procuratore Mescolini è alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia che identifica Luigi come uomo di spicco della consorteria Grande Aracri noto anche alle famiglie dislocate in un raggio di 30 chilometri attorno a Cutro, da Andali a Botricello e Isola Capo Rizzuto.
La risposta è incerta: “Forse perché più cose dice e più ne riceverà in cambio.”
Gli ultimi due nomi importanti nelle deposizioni di martedì 27 marzo sono quelli di Pasquale Brescia e di Gianluigi Sarcone.
L’ex titolare del maneggio abusivo di Cella apre la giornata assumendosi tutta la responsabilità della lettera indirizzata al sindaco di Reggio tra il 28 e il 29 gennaio 2016 e consegnata al Carlino qualche giorno dopo dall’avvocato Comberiati.
Lettera che chiedeva le dimissioni di Luca Vecchi per le parentele e l’origine cutrese della moglie. Ma che accusava anche il primo cittadino di non saper rispondere al razzismo dilagante in città contro i costruttori edili calabresi.
“L’ho scritta di mia spontanea volontà” dice Brescia “senza nessun contributo. Avevo letto degli articoli in cui Vecchi mi definiva un boss e mi sono sentito toccato personalmente. L’ho mandata al giornale, non al sindaco, perché quello era l’unico modo che avevo per divulgare le mie idee”.
L’altro detenuto che secondo il nuovo capo di imputazione ha assunto dopo l’arresto un ruolo di direzione e di organizzazione della cosca reggiana, assieme a Luigi Muto, è Gianluigi Sarcone. La sua è stata la deposizione più travagliata della giornata, per le numerose contestazioni dei PM ed anche del presidente Caruso rivolte sia a lui che al suo legale avvocato Vezzadini.
Sarcone leggeva da un lungo memoriale che si era preparato, partendo da domande molto generiche del difensore: approccio legittimo nel caso di una dichiarazione spontanea ma non ammesso in interrogatorio quando il collegio deve apprezzare la sincerità delle risposte a domande su fatti precisi e circostanziati.
Il registratore a cui fa riferimento Salvatore Muto non l’ha mai visto neppure lui: stando alle dichiarazioni di questo primo giorno di abbreviato è il registratore più inutile della storia. Le tante lettere che scriveva Gianluigi, in particolare a suo fratello Carmine ancora libero, non servivano per condizionare o ricattare qualcuno, come sostiene l’accusa, ma per verificare come i giornali locali trattavano le questioni della discriminazione verso i cutresi e le vicende di cronaca che coinvolgevano aziende cooperative e pubbliche come Agac, Iren, Transcoop. Perché la tesi di Gianluigi Sarcone è che ci sono giornali e giornali; quotidiani che sono duri verso le istituzioni e altri che sono teneri. Tesi sacrosanta e risaputa da che mondo è mondo, anche se non necessariamente utile alla sua difesa. C’è poi un inciso nel racconto di Gianluigi, fratello di Nicolino Sarcone, che merita di essere segnalato per la buona dose di mistero e surrealtà che contiene.
Dice l’imputato che aveva chiesto all’avvocato Stella Pancari, dal carcere, quanto costasse avere alcune registrazioni di intercettazioni telefoniche agli atti del processo. La risposta era stata che con 340 euro si poteva avere un pacchetto di dieci trascrizioni.
Allora Sarcone si era accordato con altri imputati per dividersi la spesa e presentato la richiesta. Quando i dieci RIT finalmente sono arrivati, è arrivato anche il conto: 40mila euro. Tutti sono naturalmente rimasti sorpresi e ne hanno parlato in aula con l’avvocato, da dietro le sbarre. Alla fine se la sono cavata pagando in quindici 280 euro a testa, per un totale di 4200 euro.
A chi siano andati quei soldi, chi abbia presentato il conto salato dei 40mila euro, come siano riusciti gli imputati ad ottenere uno sconto del 90%, non è dato sapere.
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