WITNESS

20 Luglio 2017

Paolo Bonacini, giornalista

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Nel giorno in cui ha parlato al processo Aemilia il testimone più atteso, il ministro Graziano Delrio, sindaco a Reggio Emilia dal 2004 al 2013, io non ero in aula. Non potevo, perché la sorpresa del primo mattino era stata una raccomandata, ritirata in posta, nella quale c’era scritto che l’avvocato Stella Pancari, difend… (come si dice difensore al femminile?) di Gianluigi Sarcone, mi citava come testimone nell’udienza del 18 luglio: lo stesso giorno!

Panico.

Che potessero chiamarmi, l’accusa o le difese, era nel conto, perché quando accaddero due episodi importanti per questo processo (l’incontro a Telereggio di Gianluigi Sarcone e Alfonso Diletto con il direttore del TG Gabriele Franzini nel marzo 2012, e la trasmissione in diretta Poke Balle con il capogruppo del PDL Giuseppe Pagliani e ancora Sarcone nel successivo ottobre) io ero direttore responsabile della televisione.

Immaginavo che avrei avuto tempo per prepararmi, tra la convocazione e la testimonianza: per mettere assieme un po’ di carte, documenti, date certe. E invece apprendo alle 9,00 che alle 9,30 mi devo presentare al funzionario dei carabinieri che controlla la lista dei testimoni del giorno, nel cortile del tribunale retrostante l’aula bunker.

Faccio buon viso a cattiva sorte e corro. Quando arrivo c’è già una piccola folla che attende: conto almeno una trentina di persone. Tutti testimoni delle difese. Di nuovo panico: c’è il rischio di passare un giorno intero in attesa senza poter parlare con nessuno, forse anche di essere spostati alla successiva udienza. Se non sarò chiamato subito a testimoniare perderò pure la deposizione di Delrio.

Quando il ministro arriva, alle 12,30, sono ancora lì che aspetto, alternando come gli altri convocati i 38 gradi del cortile con i -2 dell’aula dove possiamo sederci, servita da un efficientissimo impianto di condizionamento. La media ponderale tra le due temperature rende gradevole l’attesa, a patto di camminare continuamente tra fuori e dentro.

C’è poco da fare: sono le regole del processo e bisogna adeguarsi.

Alle 14,30 Delrio non è ancora uscito: lo vedo al banco dei testimoni da uno schermo che trasmette a circuito chiuso le immagini ma un carabiniere ci impedisce di ascoltare ciò che dice: non si può. Io lo so che non si può, ma ci provo comunque a chiedergli il permesso. Negato.

Poi all’improvviso succedono due cose.

La prima è che sento chiamare il mio nome: “Paolo Bonacini! Paolo Bonacini c’è?!”

Tocca a me! Rimetto in fretta telefono e computer nella borsa e corro dal maresciallo che mi ha chiamato: “Arrivo!”

La seconda è che intanto si vede molto fermento all’ingresso. L’aula si sta svuotando. Delrio ha terminato e tutti se ne vanno. Sospensione per il pranzo, si riprende alle 15,30.

Il carabiniere che mi vede arrivare trafelato mi tranquillizza: “La prenda con calma. La difesa ha rinunciato alla sua deposizione. Lei non deve più testimoniare”.

Ci rimango un po’ male e finisce così la mia ingloriosa giornata da testimone, ma almeno ho un pomeriggio intero per cercare di capire cosa abbia detto Delrio.

Chiedo in giro e mi raccontano che non è uscito nulla di sconvolgente. Nel dialogo col ministro, sottolinea un collega sorridendo, più che le risposte dell’ex sindaco hanno destato stupore certe domande degli avvocati. Più tardi mi ascolto l’audio della deposizione e concordo. Per mezz’ora sono state chieste a Delrio informazioni sulle gare d’appalto indette da Agac e Iren (sulle quali il sindaco non aveva competenza) senza un solo riferimento a fatti circostanziati che collegassero il tema ai personaggi e ai capi d’imputazione del processo. Poi domande al “parlamentare” (Delrio non lo è mai stato), confusione tra “addetti alla sicurezza” del Comune e membri del “Comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza”, riferimenti e richieste di commenti su opinioni di terzi espresse in articoli di giornali degli anni andati. Il presidente si è spazientito più volte ed ha addirittura interrotto l’udienza per cinque minuti dopo un battibecco, invitando l’avvocato Piccolo “a calmarsi”.

Ma a parte queste schermaglie si è anche parlato di cose importanti.

Delrio ribadisce più volte di avere avuto percezione e conoscenza dei problemi legati alla penetrazione mafiosa nei nostri territori. A Cutro ci andò nel 2009 da sindaco con la fascia tricolore essendo i due comuni legati da un patto d’amicizia e non partecipò alla processione del santissimo crocifisso che aveva calamitato in Calabria un numero imbarazzante di candidati alle elezioni amministrative di Reggio Emilia. Si limitò ad ascoltare la messa e a salutare dal sagrato della chiesa. Versione leggermente diversa da quella fornita in una precedente audizione, ma è questione di lana caprina.

Elogia il prefetto Antonella De Miro per la svolta impressa alle azioni di contrasto alla criminalità organizzata negli anni del suo mandato a Reggio. Dice che il protocollo per la legalità redatto e siglato nel 2011 tra Comune e Prefettura è frutto in particolare della sua elevata competenza in materia. Dalla De Miro a parlare, assieme ai consiglieri reggiani originari di Cutro che glielo chiesero, ci andò sempre nel 2011. Nell’incontro, aggiunge, non venne messo in discussione lo strumento delle interdittive antimafia che il Comune appoggiava ma fu sottolineato al prefetto che nella comunità cutrese residente a Reggio c’erano tante persone perbene. Cosa, per inciso, che magari la De Miro sapeva già senza che glielo andassero a raccontare Scarpino, Olivo e Rocco Gualtieri accompagnati dal sindaco. Tra quelle persone perbene, dice Delrio, “Qualcuno si sentiva ingiustamente accomunato ai delinquenti. C’era un disagio vero e percepito”, del quale resero edotta il prefetto.

Non è però chiaro ancora oggi, anche dopo la deposizione dell’ex sindaco, cosa potesse fare Antonella De Miro per cancellare questo “disagio vero e percepito”, se non utilizzare al meglio e con intransigenza i poteri e gli strumenti a lei affidati per contribuire ad estirpare la criminalità organizzata o a farla venire a galla.

Attorno a questo tema ci hanno girato intorno tanti, al processo, senza dire fino in fondo come la pensano. Ma la sostanza della domanda che il presidente del collegio Francesco Maria Caruso ha rivolto alcuni giorni fa al consigliere Salvatore Scarpino resta sempre lì: c’è un modo migliore, per rappresentare e tutelare una comunità onesta, che impedire a quella disonesta di prendere il sopravvento? Se vedo passare i vigili del fuoco sul mio giardino perché corrono a spegnere un grosso incendio nelle vicinanze, li aiuto e mi unisco a loro o l’unica mia reazione è arrabbiarmi perché mi hanno calpestato l’erba?

Delrio ha detto che nel suo mandato da sindaco ha cercato di aiutare i vigili del fuoco perché l’incendio c’era, eccome, e già nella relazione di bilancio del 2006 segnalava la necessità di rafforzare la vigilanza contro un fenomeno che poteva diventare molto pericoloso. Ma ha detto anche che “dalle inchieste delle forze dell’ordine sul territorio non arrivavano evidenze dirette della presenza organizzata di una locale di ‘ndrangheta”. Lo si deduceva, come fece Ciconte nelle relazioni commissionate nel 2008 e 2010 dallo stesso Comune, solo “dall’insieme delle risultanze processuali e dalle condanne definitive”.

Bisogna allora chiedersi perché le inchieste delle forze dell’ordine “non producono evidenze dirette”. Se le indagini si svolgono nell’ombra per esigenze di riservatezza e tutela nessuno può eccepire, anche se il trasferimento di informazioni e avvertenze alle istituzioni locali e ai cittadini aiuterebbe a creare una consapevolezza maggiore e a sapere dove intervenire. Come ha spiegato molto bene Nando Dalla Chiesa a Felina in un incontro con Albertina Soliani pieno di gente, la settimana scorsa, “la conoscenza delle mafie è uno strumento fondamentale per combatterle. Abbiamo il dovere di studiarle”. Ma per apprendere e comprendere serve pure qualcuno che insegni la materia, che trasferisca informazioni. Altrimenti il rischio è che la comunità resti impreparata e sottovaluti il fenomeno anche quando si arrestano 117 persone in una notte sola come il 28 gennaio 2015.

Ma c’è anche un altro scenario più preoccupante. Quello in cui le inchieste non producono “evidenze dirette” perché le forze che le coordinano, per restare all’esempio del prato e dell’incendio, sono troppo impegnate a coltivare margherite in giardino per vedere le fiamme che distruggono tutto. E qualche dubbio, almeno sulla Questura di Reggio negli anni in cui il poliziotto Mesiano (oggi condannato in primo grado) faceva il bello e il cattivo tempo con questori compiacenti, in questo senso Aemilia lo legittima.

Altre due cose dette dal ministro Delrio sono passata abbastanza sotto traccia, ma se vogliamo parlare di politica e non di giardinaggio introducono un tema vero da mettere al centro delle riflessioni di oggi sugli errori di ieri. Dice l’ex sindaco: “Noi abbiamo dato una frenata molto forte all’espansione urbanistica della città, con il piano strutturale comunale. Ed abbiamo firmato un protocollo contro il lavoro nero nei cantieri partendo dalle segnalazioni in particolare della CGIL e della CISL che raccoglievano le denunce dei lavoratori.”

La discontinuità, nello sviluppo urbanistico e nelle sue regole, ha profondamente segnato Reggio Emilia dopo il cambio del sindaco nel 2004. La cosa a tanti non è piaciuta e la crisi economica iniziata a fine 2008 ha ulteriormente accentuato la diversa “visione politica” (espressione cara al procuratore nazionale antimafia Franco Roberti in materia di responsabilità politico/amministrative) che ha caratterizzato il prima e il poi. Ma poiché questa diversità ha creato opposte fazioni non solo tra un partito e l’altro, bensì anche all’intero delle singole formazioni politiche, il confronto e il dibattito non sono mai stati sufficientemente trasparenti. Sacrificati a volte a presunti beni superiori: la tenuta del partito stesso, i vantaggi elettorali, e giù, giù, fino a piccoli interessi personali. Prendere in mano con un po’ di coraggio questo tema penso aiuterebbe anche a capire meglio dove quando e perché la zona grigia del cedimento alla cultura dell’illegalità mafiosa ha raggiunto livelli da allarme rosso.

Servono testimonianze e testimoni, senza avvocati che poi ci ripensino.

 

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