VOTA FORZA ITALIA, VOTA LUCA VECCHI

23 Novembre 2017

Paolo Bonacini, giornalista

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Il 24 settembre 2017 alla Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna arriva una lettera scritta dal carcere. La firma un detenuto in custodia cautelare che chiede di “poter conferire urgentemente con i Pubblici Ministeri” del processo Aemilia per “rendere importanti dichiarazioni”.

Il 2 ottobre i procuratori Marco Mescolini e Beatrice Ronchi, assieme al maresciallo Gaglianone del Nucleo Investigativo Carabinieri, incontrano il detenuto convocato con urgenza negli uffici della DDA. C’è anche un avvocato d’ufficio, la dottoressa Eleonora Irrera del Foro di Bologna.

Comincia così l’avventura del terzo collaboratore di giustizia in Aemilia che ha deciso di saltare la staccionata a processo in corso: Salvatore Muto, originario di Crotone e appartenente alla famiglia soprannominata “i pipini”. E’ un perito agrario diventato imprenditore edile dopo avere lavorato nei cantieri come esperto di intonaci: un muratore, per intenderci, condannato di recente a 18 anni di galera nel processo Pesci a Brescia che giudica gli affari di mafia guidati dalla cosca Grande Aracri nel mantovano.

Muto oggi risiede, carcere a parte, nel comune di Corte dei Frati in provincia di Cremona ed è considerato uomo di fiducia, autista e braccio destro di uno dei capi ‘ndrangheta condannati nel rito abbreviato di Bologna: Francesco Lamanna.

La collaborazione di Muto inizia dunque il 2 ottobre in quell’ufficio di Bologna alle 12,30 ma rischia di finire dopo pochi minuti, come presumibilmente è avvenuto con un altro imputato eccellente, Nicolino Sarcone, che aveva chiesto di collaborare ma non era stato ritenuto credibile.

Perché all’inizio Muto chiede: “Da dove vogliamo iniziare?”

E il procuratore Mescolini dice: “Se appartiene alla ‘ndrangheta, prima di tutto. Se esiste la ’ndrangheta”

Risposta di Muto: “La mia appartenenza no, perché non sono stato né battezzato né niente”.

Al che l’altro procuratore Beatrice Ronchi gli fa subito intendere di non avere tempo da perdere: “Muto, forse non ci siamo capiti. Noi prendiamo atto che lei dice di non essere stato battezzato e questo lascia il tempo che trova. Circa i suoi rapporti cercati e voluti per un’intera vita con la ‘ndrangheta, noi siamo interessati. Se invece ci deve parlare d’altro, non siamo interessati. Quindi mettiamo subito i puntini sulle i”.

Salvatore Muto: “Forse non mi sono spiegato male”. Intendendo: “Forse non mi sono spiegato bene”.

Beatrice Ronchi: “Allora impari a spiegarsi bene, perché questo è un atto importante, soprattutto per lei”.

E Muto lo fa, inizia a “spiegarsi bene”, a raccontare la sua storia personale e quella collegata della consorteria mafiosa operante in Emilia Romagna. Lo fa con molta chiarezza di linguaggio in realtà, tanto che il fraintendimento iniziale trova una spiegazione nel fatto che Muto, esattamente come prima di lui aveva fatto Valerio, sostiene la teoria della mafia moderna. Non serve più il rito di iniziazione, il taglio sul pollice nel nome di Minofrio, Mismizzu e Misgarru, il grado di appartenenza tra “picciotto” e “crimine internazionale”.

“Io non sono stato battezzato” dice Muto “ma faccio parte della associazione e rappresentavo il capo di Piacenza e Cremona, Lamanna, quando lui era via dall’Emilia”.

Da qui inizia il suo racconto, prima richiuso nei sei interrogatori resi alla Procura dal 2 ottobre all’11 novembre, in tempo per compiere quarant’anni di vita, poi sviluppato in aula per le orecchie di tutti i protagonisti del processo Aemilia. Un racconto che già nelle prime due udienze, quelle di lunedì 20 e di giovedì 23 novembre, fa scoppiare tanti fuochi d’artificio che al confronto San Silvestro è un mortorio. In una prossima puntata parleremo della premiata agenzia reggiana di “false fatturazioni e aggiudicazione di appalti pubblici e privati” che Salvatore Muto descrive con invidiabile chiarezza nel primo giorno di deposizione. Agenzia di ‘ndrangheta naturalmente, che riesce ad intercettare le commesse e a disincentivare la concorrenza (negli appalti) senza neppure fare più ricorso alle minacce o alle intimidazioni. Oppure che fornisce credenziali e garanzie alle imprese del territorio (nella falsa fatturazione) di gran lunga superiori agli standard della concorrenza dimostrando l’affidabilità e la serietà imprenditoriale necessarie in un campo così scivoloso e saturo di rischi.

Ma intanto concentriamoci su qualcosa di ancor più clamoroso che emerge dal racconto di Salvatore Muto: gli impegni e le speranze della ‘ndrangheta sul fronte politico/elettorale. Che se vogliamo è ancora più scivoloso e rischioso di quello della finanza.

Due storie a distanza di vent’anni (1994-2014) e di 1063 chilometri (Reggio-Cutro) illustrano questo fronte attraverso i suoi ricordi.

Partiamo da lontano: “La ‘ndrangheta”, dice nel pomeriggio di lunedì 19 novembre il collaboratore in videoconferenza, “si impegnò a raccogliere voti alle elezioni politiche del 1994 tra Cutro e Isola Capo Rizzuto per Silvio Berlusconi”.

Promotore dell’iniziativa fu nientemeno che Antonio Ciampà detto Coniglio, membro della omonima potente Famiglia allora alleata con i Dragone/Grande Aracri, di recente indagato in “Aemilia 1992” per gli omicidi che segnarono 25 anni fa la guerra di mafia a Reggio Emilia.

Muto racconta di sé stesso giovane diciassettenne in Calabria, quando ancora non apparteneva alla cosca ma il suo destino era segnato dal blasone dei parenti: un Salvino Muto arrestato per sequestro di persona e un Tommaso Muto che gestiva gli affari sporchi tra Cutro e Vibo Valentia. Entrambi erano zii di un giovane Salvatore che nel 1994 girava per il paese a distribuire volantini e ad attaccare manifesti con sopra scritto “Vota Forza Italia”.

Dice testualmente il collaboratore: “Ho partecipato a Cutro alla campagna elettorale del primo governo Berlusconi. Si fece una sottoscrizione nel paese e tra quelli che si diedero da fare c’erano tutti i nomi della ‘ndrangheta”.

Salvatore ricorda che lo stesso Tonino Coniglio, ma anche Colacino e Paolini, si impegnarono personalmente per sostenere due imprenditori di spicco candidati al parlamento nella liste di Forza Italia: Floriano Noto alla Camera e Gerardo Sacco al Senato. Il primo è titolare della catena di supermercati AZ diffusa in tutta la Calabria. Vanta circa 300 milioni di euro di fatturato l’anno e da febbraio di quest’anno ha stretto un accordo strategico con il colosso emiliano della grande distribuzione Coop Alleanza 3.0 per l’utilizzo del marchio Coop in Calabria. Per chi non lo sapesse parliamo della grande impresa nata dalla unificazione delle tre cooperative di Reggio, Modena e Bologna.

I voti della ‘ndrangheta nel crotonese in quel lontano 1994 non furono gratis secondo Muto: “Floriano Noto era uno che aveva delle catene, lui, di supermercati, se non vado errato. E praticamente, per il fatto che gli avevano dato quest’appoggio per le votazioni, Tonino Coniglio si fece fare un supermercato”.

L’altro imprenditore non è da meno in termini di notorietà: Gerardo Sacco è orafo, titolare di un’impresa famosa oltre i confini nazionali che ha creato gioielli di grande valore sia per il teatro che per il cinema e la televisione. Se la cava con meno di Floriano Noto come ricompensa per i voti: “Mi ricordo che ci fu anche uno screzio, lì, in quanto questo Gerardo Sacco doveva fare un regalo, inteso come soldi. Invece Colacino, fratello di Giuseppe detto Shampoo, andò a prendere un orologio da Gerardo Sacco ed era nato un po’ un disguido tanto che dovette intervenire sempre Tonino Ciampà Coniglio a sistemare la cosa”.

Nessuno dei due candidati fu eletto. Floriano Noto nel collegio di Isola Capo Rizzuto prese il 33,2% dei voti ma fu battuto per la Camera dal progressista Rosario Olivo. Stessa sorte anche per Gerardo Sacco nel collegio di Crotone per il Senato: vinse Giuseppe Pugliese del centro sinistra.

Con voce lenta Salvatore Muto fa i loro nomi: “Noi dovevamo sostenere quei due candidati. Se ne discuteva proprio quando io ero ancora là. Era uno scambio di voti e io diedi una mano perché c’erano anche i miei zii che si davano da fare. E Tonino Ciampà comandava a Cutro, era stato messo lì dai Dragone, e mandava a dire a tutti che dovevamo votare Forza Italia”.

Vent’anni dopo cambia la città e cambia lo schieramento da sostenere ma la logica resta sempre la stessa che Muto riassume in aula giovedì 23 novembre: “Portiamo voti alle persone dalle quali possiamo poi avere dei benefici”.

Era la logica alla base della stretta di mano nel 2012 con il capogruppo in provincia del Polo delle Libertà Giuseppe Pagliani (condannato a quattro anni nel rito abbreviato). E’ la logica per la quale la ‘ndrangheta a Reggio decide di portare voti al candidato sindaco del PD Luca Vecchi nel 2014.

Dice Salvatore Muto in aula: “Facemmo una cena della consorteria alla quale fu chiamato Francesco Lamanna. E a questa cena era presente Eugenio Sergio (imputato al processo attualmente in carcerazione preventiva). Siccome lui era parente della moglie del sindaco, chiese a Francesco Lamanna se riusciva a raccogliere voti a Reggio Emilia per il marito della cugina”. Muto la chiama “cugina” ma in realtà Maria Sergio ed Eugenio Sergio sono figli di cugini. Ciò non toglie che per Muto uno conosceva l’altra e viceversa. Eugenio Sergio chiese a Lamanna l’impego a portare voti a Vecchi perché Lamanna aveva molti parenti e amici nel reggiano. Conclude Salvatore Muto: “Lamanna si mise a disposizione e promise il suo impegno, anche se non c’era nessun patto a tavolino firmato con il candidato sindaco”.

Questa riunione secondo Salvatore Muto avveniva all’inizio del 2014, prima delle elezioni comunali. Neppure due anni dopo Pasquale Brescia scriveva dal carcere una violenta lettera al sindaco che lo stesso Muto definisce oggi “intimidatoria e ricattatoria”, sperando di convincerlo ad essere più morbido verso le imprese e gli uomini della consorteria. Il collaboratore di giustizia spiega tanti dettagli di questa vicenda, compreso il coinvolgimento di due avvocati e il dissenso di alcuni imputati in carcere, lui compreso. Ma a comandare in galera secondo Muto era Gianluigi Sarcone e lui decise che andava scritta.

Ne parleremo, ma prima del 2016 viene il 2014. E un’elezione del sindaco che la ‘ndrangheta ha voluto condizionare mettendo in campo i propri voti. Come a Cutro vent’anni prima.

 

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