SENZA ESSERE EROI

21 Gennaio 2017

Paolo Bonacini, giornalista

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“…Noi vi chiediamo di provare, come Giancarlo e i ragazzi degli anni Ottanta, a cambiare questa Italia… E’ quello che possiamo fare, senza essere eroi. In fondo non ci vuole molto”.  Paolo Siani

Il “Viaggio Legale” della Mehari di Giancarlo Siani si conclude, nella sua tappa a Reggio Emilia, con la presentazione del “Testo Unico per la Legalità in Emilia Romagna”, un disegno di legge regionale che favorirà la diffusione delle buone pratiche, la riconsegna alla comunità dei beni confiscati, la prevenzione all’infiltrazione mafiosa nelle attività economiche. Sembra una buona legge ma non basterà, se tutti noi non faremo nostro nelle pratiche quotidiane di vita un principio semplice e rivoluzionario alle stesso tempo: il rispetto della “legalità”. Lo ha spiegato bene, con un esempio quasi banale, Paolo Siani, fratello del giornalista ucciso nel 1985 dalla camorra mentre rientrava a casa la sera con la sua inseparabile auto verde. Agli studenti che lo ascoltavano al Palahockey Paolo ha detto: “Io a Napoli cammino molto e quando arrivo ai semafori aspetto il verde per attraversare sulle strisce pedonali, mentre la maggioranza delle persone guarda a destra e sinistra e se non arrivano auto attraversa anche col rosso. Eppure c’è sempre qualcuno che vedendo me si ferma al mio fianco e aspetta. Quando poi attraversiamo quelli che sono passati col rosso sono solo dieci metri più avanti. Li riprendiamo subito…”

Sono stati giorni intensi quelli della Mehari a Reggio Emilia, e ci hanno offerto stimoli importanti di riflessione oltre che protagonisti straordinari della lotta quotidiana al degrado prodotto dalle mafie. E’ nostro dovere divulgare questi elementi e far conoscere queste persone: lo faremo nei prossimi giorni con la pubblicazioni di articoli, interventi, immagini e video interviste raccolte tra giovedì 19 e sabato 21 gennaio nei luoghi in cui è transitata la Mehari: il palazzo del tribunale, la palestra gremita di studenti, il cinema che proiettava la vita di Giancarlo attraverso il film Fortapasc di Marco Risi, le sale della Camera del Lavoro strapiene di gente ad ogni dibattito. Oggi però, mentre la tre giorni finisce, e proprio perché “non finisca” ma “continuino l’impegno e la condivisione”, come dice Daniele Borghi di Libera, fermiamoci prima di tutto a ricordare ancora una volta quel ragazzo che è morto, Giancarlo. La sua foto oggi sta appesa tra i martiri del giornalismo italiano in una parete della sede nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, assieme a Ilaria Alpi, Giuseppe Fava, Walter Tobagi, Carlo Casalegno, ma non è sempre stato così. E quando lo hanno ammazzato era solo un abusivo di provincia che cercava di fare del buon giornalismo perché quello era il mestiere che voleva per la propria vita. A ricordarcelo, con una lettera inviata a questa nostra rubrica “CGIL Legalità”, è il fratello Paolo che ringraziamo: è stato un piacere e un onore riceverlo e ascoltarlo a Reggio Emilia.

“Giancarlo
era un ragazzo normale che non voleva in nessun modo fare l’eroe, ma solo il giornalista. Se ne rende conto chiunque legga i suoi articoli. Giancarlo raccontava solo quello che accadeva nel territorio dove lavorava, Torre Annunziata. Niente di più. Giancarlo, però, riusciva ad andare, nei suoi articoli, al di là del dato di cronaca e provava a ricostruire gli scenari di camorra, gli equilibri di potere. Roberto Saviano scriveva circa dieci anni fa: «Giancarlo Siani gettava nuove ipotesi di senso attraverso gli elementi che scovava sul campo o gli venivano forniti dai fatti. Il suo era un giornalismo fondato sull’analisi della camorra come fenomenologia di potere e non come fenomeno criminale. […] la congettura, l’ipotesi, divenivano nei suoi articoli strumenti per comprendere le articolazioni tra camorra, imprenditoria e politica».

L’idea di Giancarlo e di tanti ragazzi degli anni Ottanta era di riuscire a cambiare o a migliorare la società in cui vivevano, anche attraverso le pagine di un giornale, con un lavoro attento di ricerca, di denuncia, ma senza inutili eroismi. Ci credevano, si sono impegnati, hanno fatto scelte anche difficili quei ragazzi degli anni Ottanta, che oggi hanno superato i cinquant’anni di età e che ancora ricordano Giancarlo, la sua voglia di vivere, la sua allegria, la sua Méhari verde, di cui era molto fiero.

Giancarlo non era ancora un giornalista, era un “abusivo” – così venivano chiamati gli aspiranti giornalisti in quegli anni –, non aveva ancora nessuna garanzia, nessuna tutela, ma sapeva che l’unico modo per diventare giornalista era lavorare sodo, studiare, informarsi, andare sul posto per vedere, parlare con la gente, rendersi conto di persona; con la sua Olivetti m80 scriveva i suoi pezzi, che poi dettava per telefono al giornale.

Giancarlo è diventato in questi anni il simbolo di tutti i precari dell’informazione, spesso voci fuori dal coro, che, allora come oggi, senza garanzie, raccontano le notizie più scomode e scarpinano per trovarle, percorrendo strade impervie, spesso solitarie, come solitaria era quella di Giancarlo. Basta sfogliare i giornali dell’epoca per rendersene conto.

Nel 1981 Giancarlo scriveva
“Il ventre marcio di Napoli è uscito fuori, ha titolato un grande quotidiano napoletano. Ma per chi? Per quelli che ignoravano in quali condizioni viveva la gente nei quartieri o per chi sapeva e ha finto di ignorare da sempre?
Agli occhi di tutti sono venuti fuori i ritardi di chi amministra regione e città. Vediamo allora chi deve assumersi l’impegno di far rinascere Napoli, in questo momento è necessario lo sforzo di tutte le forze sociali e politiche.”
“Sulla scena oggi ci sono molte voci che parlano di rinascita. Quante di queste hanno realmente a cuore le sorti della nostra gente? Certamente non chi ha costruito sulla sofferenza del Sud il suo potere fatto di clientele e di rapine, né tantomeno chi vuole privare la gente delle zone colpite dalla possibilità di scegliere e decidere sul proprio futuro.”

Ecco, ricordare Giancarlo significa tenere accesi sempre i riflettori sulla libertà di stampa, affinché i cronisti minacciati non si sentano soli, affinché non siano costretti a un’eroica e solitaria battaglia, affinché per sempre tengano alta la memoria del sacrificio di Giancarlo, poiché “chi dimentica diventa colpevole”.

Anche per questo la Mehari di Giancarlo continua a girare l’Italia e a portare con sé le storie di tutte le vittime innocenti della criminalità e dei giornalisti uccisi e minacciati dalle mafie e dal terrorismo. Oggi più che mai, la Mehari è un simbolo indiscutibile di legalità e serve a tenere alta l’attenzione, serve per ricordare ai ragazzi di oggi il sacrificio di un ragazzo degli anni Ottanta.

Noi non dimentichiamo e ci siamo battuti con tutte le nostre forze in questi lunghissimi anni per tenere vivo il ricordo di Giancarlo, perché ancora oggi sentiamo viva la ferita e ci arrabbiamo per questa tremenda ingiustizia. Ci manca Giancarlo, ci manca maledettamente ancora oggi.

Noi vi chiediamo di non dimenticare e di provare, come Giancarlo e i ragazzi degli anni Ottanta, a cambiare questa Italia. Dipende anche da noi, dal nostro modo di vivere, dalla nostra capacità di rispettare le regole, tutte le regole, e di farle rispettare. Forse non è tutto. Forse non basta per cambiare una città, un paese intero. Forse sì. Comunque è quello che noi possiamo fare, senza essere eroi. In fondo non ci vuole molto.”

19 gennaio 2017

Paolo Siani

 

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