SARA’ VERO OPPURE NO?

23 Settembre 2017

Paolo Bonacini, giornalista

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Che inizio d’autunno, ragazzi!

Fa caldo nelle aule di giustizia in questi giorni e fa caldo in città, anche se la temperatura dell’aria si è abbassata e si vedono i primi maglioni.

A riscaldare l’ambiente ci pensano le sentenze: appello del rito abbreviato di Aemilia a Bologna, primo grado al processo Pesci di Brescia, e la stufetta sempre accesa dei collaboratori di giustizia o di chi semplicemente ci ripensa e decide di raccontare storie di uomini e malaffari fino ad oggi tenute nei cassetti (o quasi).

Lunedì prossimo alle 18 misureremo la temperatuta in Camera del Lavoro, a Reggio Emilia, prendendo spunto dalla presentazione del libro “Fuoco criminale” di Rossella Canadè, giornalista della Gazzetta di Mantova, che giovedì 21 settembre era in aula a Brescia quando il giudice Ivano Brigantini, a nome del collegio, pronunciava la sentenza di primo grado in merito alle attività della ‘ndrangheta nella bassa Lombardia. Cominciamo da qui e da lei:

“Rossella, la cosa più importante di questa sentenza?”

“Avere riconosciuto il 416 bis. Avere scritto al termine del processo che a Mantova operava una associazione criminale di stampo mafioso che minacciava, corrompeva, estorceva, condizionando l’economia locale e la pubblica amministrazione”

“La frase più bella che hai sentito?”

“Il commento del PM Paolo Savio: -A Mantova è cominciato il tempo della speranza-”.

“28 anni a Nicolino Grande Aracri: la prima condanna per associazione mafiosa al nord. Non è roba da poco.”

“No, ma per Nicolino una più o una meno non fa grande differenza. Ne ha già avute sei o sette se non sbaglio di condanne sui 30 anni. Di rilievo c’è invece la condanna a 26 anni di Antonio Rocca, il braccio destro del boss, l’uomo che controllava i cantieri.”

“Cosa non ti è piaciuto della sentenza?”

“Due cose: l’assoluzione per i reati più importanti della moglie di Rocca, Deanna Bignardi. E’ stata condannata a 4 anni per il possesso abusivo di armi contro i 14 chiesti dal PM, ma secondo la tesi dell’accusa era lei la vera mente degli affari illeciti del marito. Più in generale fratelli e parenti di mafiosi sono stati assolti o hanno avuto forti sconti di pena partendo dal presupposto che non avevano libertà di scelta, non potevano fare altrimenti, erano deboli. Non mi convince. La seconda cosa è l’assoluzione dell’industriale veronese del ferro Moreno Nicolis che la DDA ritiene in affari con la cosca. Lo hanno intercettato in viaggio con Antonio Gualtieri (capo ‘ndrangheta condannato a 12 anni in Aemilia), ma sembra che se non ti beccano con un kalashnikov o una lupara in mano non si può parlare di collusione.”

“Chi c’era in aula alla lettura della sentenza? E chi non c’era?”

“C’erano tanti volontari di Libera, c’erano i ragazzi di un istituto superiore di Brescia, c’era l’ex sindaco Fiorenza Brioni che si è commossa e ha detto: -La nostra resistenza è stata utile; spero che sia l’inizio di un processo di liberazione-. Chi non c’era? Non c’erano le istituzioni. Non c’era nessuno a rappresentare il comune di Mantova-.”

E pensare che lo stesso giorno della sentenza, pronunciata il mattino a Brescia alle 10,47, in città a Mantova nel tardo pomeriggio era programmata l’inaugurazione della “Biblioteca della Legalità”, all’interno della biblioteca Baratta di Corso Garibaldi, voluta “per diffondere la cultura della legalità e della giustizia”.

C’erano ben tre assessori della giunta di Mattia Palazzi ad assistere alla inaugurazione e se c’è riuscita Rossella Canadè, ad essere la mattina in tribunale a Brescia e il pomeriggio in biblioteca a Mantova, potevano farcela pure loro. Sarebbe stato un bel gesto, un modo intelligente per contribuire a “diffondere la cultura della legalità e della giustizia”…

Passando di qua dal fiume, sono tre gli argomenti che “scaldano l’ambiente” in questi giorni. Il primo in ordine di tempo è la sentenza d’appello a Bologna della scorsa settimana, con la conferma delle condanne per gli accusati di appartenenza alla ‘ndrangheta, a partire dai cinque capi della cosca Grande Aracri che operava in regione. Sentenza che ha trasformato l’assoluzione in primo grado di Giuseppe Pagliani in condanna a quattro anni per appartenenza al sodalizio mafioso col ruolo di concorrente esterno. Ne abbiamo già parlato e l’unica novità curiosa degli ultimi giorni è il litigio di due consiglieri provinciali… del PD: Pierluigi Saccardi e Alessio Mammi. Il primo ha accusato il secondo di avere abbracciato Pagliani a palazzo Allende dopo l’assoluzione di primo grado, il secondo nega e valuterà una eventuale querela per diffamazione.

Sarà vero, oppure no?

Più che sull’eventuale abbraccio Mammi/Pagliani l’interrogativo è interessante per la seconda novità che tiene banco a Reggio Emilia: le dichiarazioni rese alla Direzione Distrettuale Antimafia da Antonio Valerio, cinquantenne cutrese residente a Reggio, in carcere dal gennaio 2015, trasferito in località protetta dopo la sua decisione di collaborare con la giustizia. Di verbali Valerio, a processo a Reggio Emilia con l’accusa di essere uno dei cinque “organizzatori” della cosca, autonomo nelle azioni e direttamente collegato ai capi della ‘ndrangheta emiliana, ne ha già riempiti 18 per oltre 1500 pagine. Le anticipazioni sulla stampa mostrano molta carne al fuoco e si preannunciano udienze interessanti quelle che inizieranno martedì 26 settembre con la sua deposizione in aula. Nel torrido luglio scorso un altro collaboratore di giustizia che ha portato una testimonianza fondamentale al processo Aemilia, Angelo Salvatore Cortese, disse durante una conversazione riservata: “Vedrete quando parlerà Antonio Valerio. Lui è uno che sa molto sulla ‘ndrangheta emiliana; è lì da molto tempo. A me fa piacere che collabori anche perché confermerà tante cose che vi ho raccontato.”

In attesa di ascoltarlo “dal vivo”, e di sentire se e cosa ci dirà degli omicidi Ruggiero e Vasapollo, un primo fuoco d’artificio con le sue dichiarazioni è esploso in merito a Pasquale Brescia e alla lettera da lui inviata dal carcere al sindaco di Reggio Emilia Luca Vecchi. Valerio sostiene, secondo le parole riportate tra virgolette dalla Gazzetta di Reggio, che quella lettera è l’espressione di un preciso “complotto architettato in carcere da Pasquale Brescia e Gianluigi Sarcone, insieme all’avvocato Luigi Comberiati, per ricattare il sindaco Luca Vecchi, per costringerlo a prendere le parti dei cutresi detenuti in Aemilia”.

Non è roba da poco perché quella lettera è finita a processo, in Aemilia bis, e Pasquale Brescia è stato assolto dall’accusa di minacce rivolte al sindaco. Se Valerio dice il vero (lui c’era in carcere, non riporta ricostruzioni per sentito dire), altro che minacce! Il complotto è qualcosa che ha il maggior spessore nella premeditazione e dell’architettura, che cerca di scavare, sempre secondo le dichiarazioni di Valerio, nei legami parentali della moglie del sindaco a Cutro per trovare anche solo piccoli e lontani scheletri nell’armadio di famiglia ai quali aggrapparsi per ricattare il primo cittadino.

Della lettera noi ci siamo occupati in un precedente articolo, titolato “Le regole del giornalismo”, nel quale si diceva tra l’altro: “Questo sì è razzismo, che colpevolizza a priori per le origini geografiche senza riferimento a fatti determinati, ma Brescia si inserì con quella lettera in uno sconfortante contesto di polemiche che già da tempo tenevano banco sulla scena politica reggiana, tutte incentrate, a ben vedere, sull’origine calabrese della moglie del sindaco.”

Ma se Valerio dice il vero, le colpe in questa storia si aggravano e quanto il collaboratore di giustizia racconterà in Aula dalla settimana prossima sarà determinante anche per il processo d’appello di Aemilia bis.

Il terzo “forno acceso” di questi giorni lo ha acceso un signore che ha testimoniato lontano dall’aula bunker di Reggio Emilia. Si chiama Potito Scalzulli, attuale assessore nel comune collinare di Galeata, in provincia di Forlì, ed ex direttore dell’ufficio del Catasto di Reggio Emilia, incarico rivestito dal 2009 al 2012. E’ stato ascoltato tre giorni fa dalla Commissione Parlamentare Antimafia presieduta da Rosy Bindi ed ha lanciato accuse molto pesanti sulla gestione dell’ufficio del Catasto nella nostra città, riprendendo argomenti e ricostruzioni che avevano spinto la procura reggiana, nel 2002, ad aprire una inchiesta poi archiviata per prescrizione dei reati ipotizzati. Si andava dalla corruzione alla truffa verso lo Stato, all’abuso d’ufficio e al falso ideologico. Stringendo al massimo la storia, che è ben raccontata nei dettagli dal Resto del Carlino, Scalzulli sosteneva e sostiene ancora oggi che nel Catasto reggiano si operava per falsificare al ribasso i valori delle rendite su centinaia di immobili e capannoni, arrivando anche a dimezzarle, per favorire i relativi proprietari o le società titolari attraverso un drastico abbattimento di imposte. Aggiunge l’ex direttore che il consigliere comunale Salvatore Scarpino, funzionario del Catasto reggiano, calabrese di origine, dettava legge negli uffici dove erano assunti molti addetti di origine cutrese. Ciliegina sulla torta: quando Scalzulli andò a parlare con il senatore Maino Marchi, membro della commissione antimafia che teneva costantemente informato, dicendogli che tra gli indagati per il “sistema Catasto” c’era Scarpino e che bisognava intervenire, lo stesso Marchi tagliò corto. Scarpino non si toccava perché in ballo c’erano i voti dei cutresi che lui garantiva per il partito.

Sarà vero, oppure no?

Maino Marchi nega e annuncia querele; Salvatore Scarpino nega e annuncia querele.

Sembra quasi una storia da fantascienza, soprattutto se la leggiamo senza memoria storica e riferimenti circostanziati, come accade spesso al giorno d’oggi per tante storie che viaggiano nella massa indistinta delle notizie prive di un contesto e di un tempo nel quale collocarle. Ma basta ricostruire alcuni pezzi di vita vera per misurare lo spessore di queste notizie, per collocarle in un quadro di riferimento meno etereo o fantasioso.

Il primo flashback rimanda al 23 febbraio 2007 quando, in una Sala degli Specchi stracolma al teatro Valli, si discute la proposta lanciata dal secondo governo Prodi, nel solco delle scelte strategiche sulla semplificazione e sul decentramento, di trasferire le funzioni del Catasto dalle Agenzie del Territorio ai Comuni. Non più gestione dello Stato ma delle comunità locali. La proposta è sostenuta dall’associazione nazionale dei Comuni, e ad illustrarla in teatro viene Flavio Zanonato, sindaco di Padova e responsabile per l’Anci del decentramento del Catasto. A fare gli onori di casa, e ad assicurare la piena condivisione degli obbiettivi da parte del Comune di Reggio, sono il vicesindaco Franco Ferretti e il direttore Generale Mauro Bonaretti.

Il secondo flashback rimanda a sette mesi e mezzo dopo, il 2 ottobre 2007, quando in Sala del Tricolore si discute la delibera che deve rendere operativa quella scelta politica. E’ ancora il vicesindaco Ferretti a presentarla, definendola “un tassello fondamentale verso l’autonomia, che garantisce procedure più semplici, lotta all’evasione, un’Ici più equa per i reggiani”. Gli fa eco Matteo Sassi, allora capogruppo di Rifondazione Comunista: “Non ritengo che il Catasto in mano al Comune bloccherà la cementificazione, ma sarà uno strumento in più per il contrasto dell’illegalità”.

E’ una brutta parola illegalità, ma in qui mesi del 2007 si scopre che classificati come “A7”, cioè villini singoli, ci sono solo 1538 immobili a Reggio. Nella vicina Modena sono più di 8000. Di “A8”, ville di pregio, al catasto reggiano ne risultano solo 52 nel comune capoluogo. 45 in centro storico e 7 in periferia. Qualcuno ci crede che siano così poche? Non è più semplice credere che si abbassino le classificazioni per favorire interessi privati?

Portare il Catasto al Comune significa governare le procedure e rendere omogenei i piani di sviluppo urbanistico con le classificazioni. Per questo, e per gli evidenti vantaggi anche fiscali ed economici, in molte parti d’Italia, come a Modena e a Parma, la relativa delibera viene votata dai consigli comunali all’unanimità. E a Reggio Emilia?

Il flashback di quel consiglio comunale del 2 ottobre mostra una Sala del Tricolore con le tribune colme di costruttori, molti calabresi, arrabbiati contro la delibera che si sta per votare. E giù nei banchi, tra i consiglieri, c’è un uomo che protesta vivacemente contro il trasferimento e presenta ben 62 emendamenti facendo ostruzionismo, perché la delibera deve essere approvata entro il 3 ottobre o il Catasto resterà in mano allo Stato per almeno altri due anni. Il consigliere appartiene al partito di maggioranza, il PDS che dopo pochi giorni diventerà PD, si chiama Salvatore Scarpino e tenta in tutti i modi di convincere il proprio sindaco (Delrio) e il vicesindaco (Ferretti) a rinviare la decisione, tirando la seduta fino a mezzanotte. Riuscirà solo ad ottenere un aggiornamento al giorno dopo. E’ ingegnere dell’Agenzia del Territorio, già direttore dello stesso Catasto di Reggio Emilia sulla cui gestione si è addensata l’ombra di classificazioni al ribasso. A chi sottolinea che la sua guerra personale contro il passaggio del Catasto al Comune configura un conflitto di interessi, risponde: “I miei emendamenti sono di merito. Se fossi stato ascoltato non li avrei presentati. La Giunta purtroppo non mi ha dato ascolto, commettendo una scorrettezza istituzionale”. Cosa ci sia di scorretto istituzionalmente nell’approvare una delibera di giunta che non piace a Scarpino, non è spiegato.

La storia narrata da questi due flashback è assolutamente vera: basta leggere i giornali locali di quell’anno per riviverla.

Prendiamo anzi qualche riga di allora (Gazzetta di Reggio del 3 ottobre 2007) per chiudere il pezzo: “La competenza diretta di Scarpino, che è dirigente dell’Agenzia del Territorio (ex Catasto) a Bologna, farebbe sospettare un intervento per difendere interessi particolari. Ma il consigliere lo nega: Agisco -sottolinea- solo nell’interesse dei cittadini reggiani”.

Sarà vero, oppure no?

 

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