SALVATORE CORTESE E IL CLAN CHE VISSE DUE VOLTE

15 Febbraio 2017

Paolo Bonacini, giornalista

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Nel grande carcere “Ugo Caridi” del quartiere Siano, in provincia di Catanzaro, tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004 si registrava una straordinaria concentrazione di uomini di vertice delle cosche calabresi. Lo si capisce nell’aula di Aemilia il 14 febbraio 2017, durante il controinterrogatorio di Angelo Salvatore Cortese, un tempo uomo di spicco del clan Grande Aracri.

Il carcere è diviso in sezioni, con tre padiglioni dedicati ai circuiti di alta sicurezza; poi vengono quelli di media e di bassa. Complessivamente oggi ci stanno più di 600 detenuti.

Nella prima sezione a quel tempo era rinchiuso Domenico Megna detto “Mico”, potente boss della frazione crotonese di Papanice di cui è nipote Michele Bolognino, imputato nel rito ordinario di Aemilia, indicato dalla DDA come uno dei sei capi della cosca emiliana: l’unico che non ha accettato il rito abbreviato. Bolognino era molto legato a Luca Megna, figlio di Domenico, ucciso in un agguato nel 2008. Assieme a Mico Megna, sempre nella prima sezione del carcere, si trovava anche Pasquale Nicoscia, capo mafia di Isola Capo Rizzuto alleato con i Grande Aracri. Si tratta dell’unico boss, assieme a Nicolino Grande Aracri, ad avere l’investitura del “Crimine Internazionale”. E’ il grado più elevato tra i sei (Sgarro, Santa, Vangelo, Trequartista, Crimine, Crimine Internazionale) con i quali si è inquadrati nella “Società Maggiore” della ‘ndrangheta. In quella “Minore” si entra invece da Picciotto e si esce da Camorrista. Con loro nella stessa sezione c’era anche chi ci racconta la storia: Salvatore Cortese.

52anni, aspetto ancora giovanile, capelli rasati a zero, era entrato nella ‘ndrangheta  con gli Arena negali anni Ottanta, per diventare poi uomo di vertice dei Grande Aracri con la dote del Crimine. Arrestato nel 2000 e condannato a sette anni per un arsenale di armi clandestine e da guerra che gestiva, è soprattutto il primo cutrese in assoluto ad essere diventato (nel 2008) collaboratore di giustizia.

L’elenco degli uomini di spicco rinchiusi a Siano non è però concluso perché nella quarta sezione del carcere c’è Antonio Dragone, 60enne capo della famiglia alleata con gli Arena, confinato a Montecavolo di Reggio Emilia oltre venti anni prima, quando iniziò la penetrazione mafiosa in regione. E, dulcis in fundo, c’è Nicolino Grande Aracri, arrestato assieme ad un altro centinaio di persone nel 2000 in seguito all’operazione Scacco Matto, che faceva luce sulla guerra di sangue tra gli Arena e Dragone da un lato e i Grande Aracri e Nicoscia dall’altro.

L’elenco dei cadaveri di questa guerra è impressionante: Salvatore Arabia, Salvatore Blasco, Rocco Corda, Francesco Scerbo, giovane innocente che si è trovato sulla traiettoria dei proiettili destinati a Francesco Arena, lo stesso Arena a sua volta ammazzato, Gaetano Ciampà, Carmine Arena, Antonio Villirillo, Raffaele Dragone, Antonio Macrì, Rosario Sorrentino, solo per citare gli eccellenti. Per capire l’aria che tirava a Cutro nel 2004 basti ricordare la sentenza del Tribunale di Crotone che nell’ottobre di quell’anno ordinava il nuovo arresto degli imputati della faida liberati in precedenza per decorrenza dei termini: “Ernesto Grande Aracri dopo la scarcerazione violava i termini della sorveglianza speciale girando con un’Alfa 166 blindata munita di sirena bitonale e lampeggiante simile a quelle della Polizia. La sua abitazione e quella del fratello Nicola, assieme a tutte le vie adiacenti, erano protette da un sistema di video sorveglianza che proiettava le immagini direttamente all’interno della casa. Vito Martino non si fidava più della sua BMW resistente ai proiettili e l’aveva sostituita con una Lancia Kappa di blindatura superiore”. La stessa che assieme ad una Mistubishi Pajero usavano Salvatore e Domenico Nicoscia, formalmente nullatenenti tanto da chiedere “l’ammissione al gratuito patrocinio”.

Nessuno si fidava più di nessuno in quegli anni, chiunque poteva tradire. E gli avvocati della difesa al processo Aemilia provano ad andare a fondo delle dichiarazioni di Cortese per vedere se anche lui teneva magari un piede in due staffe, anzi in due boss: Antonio Dragone e Nicolino Grande Aracri.

E’ ancora il carcere di Siano a fare da sfondo alla scena madre, perché se i vertici delle grandi Famiglie crotonesi sono tutti assieme dietro le sbarre della stessa casa circondariale, prima o poi si incontrano.

Cortese descrive prima uno scambio di battute con Antonio Dragone, allora suo nemico, quando assieme ricevono le rispettive famiglie nell’aula comune dei colloqui. “Truzzo…” era il soprannome che Dragone usava con lui “Ti debbo parlare!”, per dire che nel vecchio capo covava la rabbia verso i Grande Aracri per l’uccisone del figlio Raffaele, di cui Nicolino si era vantato con lo stesso Cortese. Poi descrive l’area aperta nella quale i detenuti potevano camminare: “C’erano alcune corsie parallele per le diverse sezioni del carcere e un giorno Nicolino Grande Aracri veniva da una parte e Antonio Dragone dall’altra. Quando si sono affiancati Antonio Dragone ha chiesto all’altro: “Non mi dai la mano?”. E Nicolino Grande Aracri gli ha risposto: “Ma come, mi vuoi uccidere e mi chiedi pure di darti la mano!?”

Alcuni mesi dopo, il 10 maggio del 2004, Antonio Dragone sta percorrendo la vecchia statale che da Cutro scende sulla costa a Steccato, a bordo della sua Lancia Kappa blu scuro, naturalmente blindata, quando una Thema la sperona e la manda fuori strada, mentre i killer estraggono un bazooka e partono i colpi di kalashnikov. Antonio Ciampà, nipote di Dragone, e l’autista Giovanni Spadafora riescono a scappare, anche perché nessuno li vuole uccidere. Antonio Dragone verrà ritrovato invece nei campi vicino all’auto con il colpo di grazia sparato da una pistola in mezzo agli occhi. Eppure il suo, come ha scritto con grande efficacia nel 2009 il giornalista di Crotone Domenico Policastrese, è l’unico clan “Che visse due volte”. Perché a Reggio Emilia tornò dopo la sua morte un altro Antonio Dragone, giovanissimo nipote del boss, a proseguire l’encomiabile attività di usura ed estorsioni nel settore dell’edilizia, senza che le vittime avessero il coraggio di denunciarlo. Ci pensarono le forze dell’ordine con l’operazione Grande Drago.

“Il vecchio Antonio Dragone diceva che non aveva paura di nessuno” ricorda Cortese prima di lasciare spazio al maremoto che deve covare dentro la sua anima: “Ho passato 25 anni con la ‘ndrangheta; all’inizio era come se avessi vinto il superenalotto. La fratellanza, i valori, l’unità: ci credevo. Poi ho visto cose…” si ferma qualche istante; ha visto cose come Rutger Hauer in Blade Runner.

Ma questo non è un film: “Ti uccidono nell’amicizia, portandoti a cena la sera. Ti uccidono solo per un sospetto anche se hai dato la vita per loro. Hanno paura, paura di tutti. Un giorno che si era fuso il motore dell’auto di Nicolino Grande Aracri verso Papanice siamo andati a prenderlo e c’era solo l’autista: lui si era nascosto nella foresta. Aveva paura… Per questo vogliono vicino solo persone stupide. Se uno ragiona, se uno guarda un po’ più in là, stai sicuro che prima o poi l’ammazzano. Per quanto riguarda me, io pagherò prima con la giustizia, e poi…”

E’ salita la temperatura in questo mese di febbraio 2017 attorno al palazzo del Tribunale di Reggio Emilia. E non solo quella dell’aria che ha abbandonato i “sotto zero” di gennaio. Si è fatto caldo il clima anche all’interno dell’aula in cui si celebra il rito ordinario di Aemilia, perché le testimonianze si concentrano su due periodi particolarmente importanti per la storia sotto processo. Il primo è questo, drammatico, costellato di morti, che vede in lotta le Famiglie delle case madri tra l’inizio degli anni Novanta e il 2004, tra l’omicidio Vasapollo a Pieve Modolena di Reggio Emilia e l’omicidio Dragone sulla vecchia statale 106 a Crotone.

Il secondo è più circoscritto: il quadriennio tra il 2009 e il 2013 nel quale a Reggio Emilia, mentre si stringe attorno alla cosca Grande Aracri il cerchio dell’azione giudiziaria guidata dalla Direzione Antimafia e dalla Prefettura, la criminalità organizzata fa i conti con la crisi economica, con la politica e con il mondo dell’informazione quotidiana. Vuoi per tentare di difendersi dagli attacchi, vuoi per imbastire un contrattacco. A questo secondo periodo, in particolare al 2012 delle interdittive antimafia del prefetto De Miro e della cena agli Antichi Sapori con Giuseppe Pagliani, si riferiscono le ultime testimonianze dei giornalisti Sabrina Pignedoli (Resto del Carlino), Gabriele Franzini (Telereggio), e dell’avvocato Liborio Cataliotti in veste di dirigente politico (PdL). Ne parleremo ampiamente, perché è una delle pagine più importanti e delicate del processo per i risvolti politico/istituzionali. Lo faremo dopo la testimonianza che renderà a breve l’allora Prefetto di Reggio Emilia, Antonella De Miro. Cercando anche di capire perché la dottoressa De Miro verrà ascoltata con la brutta maglia di “imputata di un reato connesso”. Tutto nasce dalla denuncia per abuso d’ufficio presentata contro di lei dall’avvocato Taormina, per conto dell’imputato Giuseppe Iaquinta, che per inciso Salvatore Cortese ha riconosciuto da una foto come uomo legato a Nicolino Grande Aracri. Quale sia il reato ipotizzato per il Prefetto è però ancora ignoto, perché di norma il capo d’imputazione lo stabilisce la pubblica accusa, non un avvocato difensore di parte. E per ora la pubblica accusa si è limitata a chiedere due volte l’archiviazione. Forse è per questo che il procuratore della Direzione Antimafia dott. Marco Mescolini ha definito la denuncia di Iaquinta una “provocazione”.

Ne parleremo.

 

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