PRATO DI CORREGGIO

31 Ottobre 2017

Paolo Bonacini, giornalista

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Pasquale Brescia, classe 1967. Originario di Crotone e residente a Reggio, attualmente detenuto in attesa di giudizio nel rito ordinario di Aemilia.

E’ uno dei personaggi chiave del processo, l’uomo inserito prima dell’arresto “nella crème della crème” della società reggiana, l’imprenditore che “se la fa con le forze dell’ordine e con i politici”. I virgolettati sono di Antonio Valerio, il collaboratore di giustizia che agli amici/nemici sotto processo sta facendo un servizio presumibilmente non gradito raccontando vita, morte e miracoli della loro storia.

Se Angelo Salvatore Cortese aveva tutto stampato nella memoria, Valerio ha tutto archiviato in migliaia di file e di pagine di carta. Un mare di informazioni inserite e custodite gelosamente negli anni in “tre, quattro o cinque computer” dei quali fornisce anche la password per accedere ai documenti protetti: “zoccola”.

Poi ci sono decine di scatoloni che le forze dell’ordine hanno sequestrato all’interno di un condominio a Cavriago, accatastati dietro una Porsche che non manca mai nel garage di un arricchito della ‘ndrangheta. Non mancano neppure, nell’appartamento collegato al garage, altri status symbol come orologi di valore: Rolex, Cartier Pasha. Ma Valerio confessa che quei due sono solamente patacche, imitazioni degli originali. Sono assieme “all’orologio di Diabolik”, come lo chiama, molto utile perché registra audio e video durante una conversazione. E lui ne ha tante, di registrazioni.

Poi però aggiunge, guardando le foto del materiale sequestrato: “Ci dovrebbero essere anche un Hamilton e un Breitling buoni”. Ma questi non saltano fuori ed è un peccato. Perché se sono buoni, cioè originali, non scherzano. Un Hamilton Khaki Takeoff Auto Chrono vale sui 2600 euro, un Breitling Navimeter Rattrapante sui 9100. Se poi l’orologio sparito era un Breitling Mulliner Tourbillon, stiamo parlando di un oggetto da 86.500 euro. Chi li ha portati via sa distinguere tra una ciofeca e un pezzo di valore.

Manca pure una chiavetta Usb tra le cose sequestrate. Non si trova, e Valerio dice che in quella chiavetta c’erano i dati più importanti e compromettenti. C’è un mistero da risolvere dietro queste scomparse.

Ma torniamo a Pasquale Brescia e alla descrizione come sempre romanzata che ne fa Valerio:

“Io lo conosco fin da piccolino. Il Pasquale Brescia venne qua agli inizi, diciamo come tutti noi, ecco. Si parte da Cutro con una valigia di cartone e tanta speranza di avere tanta fortuna. Lui ebbe una grande fortuna di trovare una ragazza che il suo papà era già ben inserito a Reggio Emilia. La ragazza è del sud, di Cutro, Ameglio Rosaria credo si chiami.”

Si chiama proprio così ed è anche lei sotto processo in Aemilia, per false operazioni societarie. Secondo l’accusa Pasquale Brescia avrebbe intestato a lei e alla cognata Rosa Tripoli le quote della “Antichi Sapori srl”, che gestiva l’omonimo e frequentatissimo ristorante, “per agevolare le attività di stampo mafioso”.

E’ il ristorante dove una cena può costare nulla, se sei un funzionario di Polizia amico del Brescia, oppure tantissimo, quattro anni di galera nell’ Aemilia abbreviato, se sei un politico come Giuseppe Pagliani che partecipa alla cena sbagliata.

Il padre di Rosaria, dice Valerio: “Lo chiamano l’architetto”. E’ inserito nel tessuto economico locale, vanta molte conoscenze tra Reggio e Parma ed è lui che presenta Pasquale Brescia a diversi imprenditori reggiani. Reggianissimi, come un certo Renzo Bertani, che gli aprono tante strade, perché di manovalanza a Reggio c’è bisogno tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta quando Brescia si inserisce e cresce in città.

Continua Valerio: “Lui era uno dei primi cutresi saliti a Reggio, e con tutte quelle flotte che arrivavano, tipo come adesso con i barconi che arrivano a Lampedusa, noi arrivavamo a Reggio Emilia. Ecco, allo stesso modo, sembravamo sfollati”.

Tre righe; forse non serve altro per spiegare un fenomeno di massa come la grande emigrazione dalla Calabria all’Emilia che ha portato ventimila cutresi a risiedere stabilmente in provincia di Reggio. Come i milioni di migranti che negli anni Venti salivano sui malconci piroscafi italiani diretti negli Stati Uniti e in Argentina per cercare un lavoro e un futuro. Come i tanti diseredati che “sfollano”, per usare il termine di Valerio, dalle miserie, dalle guerre, dalla morte che li circondano in Africa e nel Medio Oriente, sperando di trovare una ragione di vita qui da noi.

I fenomeni migratori sono complessi e spesso drammatici ma di sicuro le ragioni e le colpe non stanno in capo a chi emigra. Chi emigra è vittima di una necessità: valeva per gli italiani che andavano nelle Americhe, valeva per i cutresi saliti a Reggio, vale per i migranti che attraversano lo Ionio sperando di non morirci.

Poi ci sono le storie individuali, e quella di Brescia tratteggiata da Valerio non è delle più commoventi: “Lui raccattava tutte ste persone che venivano su, e le dava a chi ne aveva bisogno: cooperative e altre robe. Quindi Pasquale cresce e vengono i suoi fratelli a dargli manforte”. Diventano grandi i Brescia, guadagnano e investono tantissimo sia giù a Cutro che qui a Reggio, dice Valerio.

La procuratrice Beatrice Ronchi lo interrompe per capire un elemento fondamentale al fine degli esiti processuali: “Fino a questo momento, i discorsi sono di liceità?”

Stiamo cioè parlando di una storia normale, forse addirittura esemplare di abnegazione e impegno nella legalità per crescere e nel contempo fornire lavoro ai concittadini del sud, oppure…

La risposta di Valerio non lascia spazio a dubbi: “Ma dove? Falsa fatturazione, caporalato, c’è di tutto dottoressa. Ma dove mai è stata la liceità?”

E dopo è un fiume in piena. Quelli venuti su con la valigia di cartone, dice, che finivano in fabbrica o in cantiere a lavorare, se lo sognavano il rispetto delle regole: prendi la tua busta paga, ci paghi sopra i tuoi contributi, ti porti a casa tutto lo stipendio che ti è dovuto.

Perché chi glielo dava, il lavoro, “sulle persone ci guadagnava, gli tiravano, come diciamo noi, le ossa, il sangue, glielo risucchiavano proprio con la siringa. Loro prendevano, come dire, 20 mila all’ora e a chi lavorava gliene davano 10mila. Guadagnava di più chi faceva il caporale che chi andava a lavorare. I primi periodi sono stati duri. Devo dire che sono stati veramente duri per chi veniva.”

Chiede la Ronchi a conferma: “Quindi caporalato inteso come sfruttamento dei lavoratori?”

“Dei lavoratori, sì, sì”

“Cioè tu controlli i lavoratori, loro lavorano e tu ti fai dare i soldi. E’ questo?”

“Esatto”; quelli che commissionavano i lavori “glieli davano a loro, i soldi, e loro li distribuivano tra i lavoratori”; trattenendo per sé, sottinteso, quanto gli pareva.

Ma chi erano loro? Chi sono i datori di lavoro, i caporali, gli sfruttatori della mano d’opera? Valerio qui sta parlando della famiglia Brescia, ma le inchieste di Aemilia ci hanno già raccontato altri casi analoghi, come nelle mortificanti storie del post terremoto che hanno per protagonisti Michele e Sergio Bolognino, Giuseppe Richichi, Gaetano Blasco, Giuseppe Giglio. E assieme a loro i modenesi Augusto Bianchini e famiglia. E forse, a ben vedere, “loro” sono anche i tanti titolari d’impresa che secondo le più moderne interpretazioni considerano il lavoro e i lavoratori una “merce” da piazzare e acquistare nel mercato al prezzo più conveniente.

Dice Valerio alla dottoressa Ronchi: “All’epoca venivamo da un ragionamento agricolo noi.”

Ronchi: “Mentre è edilizia questa di cui parliamo qui?”

Valerio: “E’ edilizia. Sì, sì” Ti portavano a fare manovalanza nei cantieri, con una moltitudine di persone. E all’epoca c’era tanta ignoranza, soprattutto nel sistema lavoro”.

Se è vero, viene da commentare, significa che l’ignoranza di un tempo oggi è diventata sistema.

Ma siccome l’appetito vien mangiando, caporalato e sfruttamento sono solo il primo passo. Valerio racconta il secondo: “E da lì hanno imparato anche la falsa fatturazione, perché dovevano fatturare per i lavori e alla fine gli rimaneva sta Iva in mano. E i napoletani hanno insegnato ai cutresi: se la versi, l’Iva, dopo non ce l’hai più. Se invece non la versi…”

E’ solo un problema di carta, dice Valerio, di scrittura: se scrivi che hai incassato ics, allora devi versare la relativa percentuale. Per cui non scrivere niente e il gioco è fatto.

E’ la ricetta breve dell’evasione fiscale: “In effetti lo facevano in tanti e a nessuno succedeva nulla. E da lì si è innescato il meccanismo che è arrivato fino ai giorni di Aemilia. Che ancora oggi si fa.”

Basterebbe, ma Valerio racconta anche un terzo livello di illiceità, sempre collegandolo alla storia reggiana di Pasquale Brescia. Dice che anche lui inizia a fare lavori importanti, a Parma e a Sant’Ilario, e inizia pure a fare falsa fatturazione per guadagnare con l’Iva.

“Lo hanno fatto tantissime volte, e voi vedete che ci sono dei capitali che tecnicamente sono inspiegabili. Ci sono delle cose che uno che va a lavorare in fabbrica non le può avere, anche se fa l’imprenditore edile. Verifichiamo quello che hai speso in questi anni…” E vediamo, sottinteso, come hai fatto ad accumulare i soldi che ti consentono un certo tenore di vita e un certo patrimonio.

“Quindi è solo questa attività illecita che ha consentito a Brescia di accumulare tanto in questi anni?”

“Tantissimo. Dagli anni ‘87 e ‘88 è tutto un crescendo per il Pasquale Brescia, supportato dai fratelli. Lui spopola, è propositivo, di idee ne ha tantissime, propone sempre. Lavora con una agenzia immobiliare molto importante, i Mediatori Associati (presenti a Parma da oltre trent’anni); comprano aree come dire, agricole, anche con molti anni di anticipo, ma che produrranno della superficie utile. Diciamo che vedono il piano regolatore e vedono come verrà trasformato, poi loro fanno dei lavori per il Comune: che ne so, ti faccio una palestra, una scuola, ti ristrutturo questo o quello, centri sociali, e robe varie”. Do ut des.

Eccolo il terzo livello, che Valerio racconta con dovizia di dettagli essendo a sua volta coinvolto negli anni tra il 2006 e il 2008: “In questo caso ve ne parlo di una in particolare dove io ci sono pure dentro. Ho acquistato (da loro) tre lotti e li ho unificati a Prato di Correggio. In quel comune lì loro avevano preso due aree, e in una di queste hanno fatto la palestra, un centro sociale al Comune, e gli hanno cambiato la destinazione d’uso. Praticamente il Comune destina un tot di metri quadri di superficie utile da edificare all’anno. Loro la acquistano a 200 euro e il terreno agricolo lo pagano 30 euro. Fa 230 in tutto. Poi la terra viene urbanizzata, viene lottizzata, e la rivendono; io l’ho comprata da uno dei fratelli Brescia e l’ho pagata una follia rispetto a loro, 500, o 700, 800, non ricordo bene. Ci sono gli atti del notaio Vacirca. In questo caso io, Comune di Correggio, trasformo direttamente la destinazione della terra da agricola a edificabile perché ho ricevuto in cambio un palazzetto, lì, una palestra e un centro sociale. Tu mi fai questo, e io ti do questo”.

Chiede la Ronchi: “La palestra e il centro sociale, sono stati costruiti su quegli stessi terreni?”

Valerio: “Sì, sì”.

“E questa operazione per cui il Comune passa da agricolo a edificabile, è una operazione che avviene in maniera lecita? Cioè, si può, nel senso che il Comune può modificare un’area avendo in cambio due strutture?”

“Può, tecnicamente può. Soprattutto se c’è il tecnico all’urbanistica che piglia il quibus”.

“Appunto, dico”

“Come no, dottoressa. Chi fa, chi gestisce tutto? Il Catasto, l’area urbanistica, l’ufficio tecnico: sono questi che gestiscono l’amministrazione dei terreni e del piano regolatore. Che ci vuole a fare una variante? Fanno le pubblicazioni, mettono un foglio in bacheca, e chi lo vede?”

Noi che ci andiamo a guardare, dice Valerio, perché “Lì tutti quanti siamo d’accordo”.

La storia continua e nei lotti oggi pieni di maisonette acquistati da Valerio in via Borghi a Prato di Correggio, a pochi metri dal centro sociale e dalla palestra, ci andremo in una prossima puntata.

Per ora fermiamoci alla patologia tipica italiana del funzionario pubblico che “piglia il quibus”. Il penultimo che avevamo incontrato in Aemilia è il capo dell’ufficio tecnico del comune di Finale Emilia Giulio Gerini, condannato nell’abbreviato a due anni e quattro mesi. L’ultimo spunta in questo verbale d’interrogatorio dell’8 settembre scorso. E lavora, dice Valerio, nel Comune di Correggio.

 

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