PERLE DI UN PROCESSO DI MEZZA ESTATE

14 Agosto 2017

Paolo Bonacini, giornalista

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Aemilia va in ferie. Si riprenderà il 5 settembre con le ultime testimonianze, poi da fine mese inizieranno le requisitorie dei PM, la arringhe delle parti civili e dei difensori.

Entro la fine dell’anno dovremmo dunque avere sia l’imminente sentenza d’appello del rito abbreviato di Bologna (60 imputati), sia la prima sentenza del rito ordinario di Reggio Emilia (147 imputati) con la quale i tre giudici Francesco Maria Caruso, Cristina Beretti e Andrea Rat concluderanno la faticosa maratona iniziata mercoledì 23 marzo 2016.

In attesa del rush autunnale godiamoci intanto alcune perle estive che hanno punteggiato le ultime udienze, Vicende che non hanno trovato le prime pagine dei giornali eppure tutte significative dell’umanità (e della disumanità) varia che incrocia il processo Aemilia sviluppando le sue storie. Piccoli capitoli di un romanzo che non smette di affascinare e di mantenere una sua coerenza sebbene passi con leggerezza e indifferenza dal noir alla spy story, dal realismo alla commedia, senza trascurare dettagli da cassetta come le donne fatali e il gioco d’azzardo.

 

LE VOLPI DI RODARI

Nell’ultima udienza prima della sospensione, giovedì 10 agosto, il maresciallo dei carabinieri Danilo Melegari illustra alcune verifiche effettuate a Reggio Emilia, in zona Cecati, sul luogo dove andò a fuoco nel novembre del 2011 l’auto di Michele Colacino. E’ un imprenditore non proprio modello, in stretti legami d’affari con Romolo Villirillo, uno dei capi della ‘ndrangheta emiliana (già condannato nel rito abbreviato) caduto in disgrazia secondo la Direzione Antimafia per essersi intascato di nascosto soldi destinati alla cosca Grande Aracri.

Di quell’incendio sono accusati Alfredo Amato e Gabriele Valerioti, che stando alle intercettazioni e ai tabulati telefonici si trovavano, poco prima del rogo, a non più di duecento metri dall’auto, nel parcheggio di un discount. I due imputati si sono sempre difesi, e lo hanno fatto anche giovedì, sostenendo che con il rogo non c’entrano e si trovavano lì per un altro motivo: volevano rubare la cassaforte del supermercato Sigma situato più o meno ad un chilometro di distanza.

Furto che effettivamente avvenne, come ha raccontato il titolare del Sigma al maresciallo Melegari, ma cinque mesi prima del rogo. E’ evidente che i due, e/o il loro avvocato, hanno letto e fatta propria la celebre parabola di Gianni Rodari che qui riportiamo ad uso e consumo del collegio giudicante:

“Processata per un furto di polli, così si difendeva la volpe:
-Ho un alibi di ferro, stavo in un altro pollaio!-
-E i testimoni?- chiese il giudice.
-Li ho mangiati-
Gli imputati, a volte, sono innocenti perché sono colpevoli”.

 

C’E’ CELLA E CELLA

Giocando con le parole si piò dire che a volte si rischia la cella per colpa di una cella.

Per semplicità identifichiamo con “cella” il luogo fisico in cui si trova l’antenna di ricetrasmissione che consente ai nostri telefonini di funzionare. Se il mio cellulare effettua o riceve una telefonata (o invia un sms o si collega ad internet) è possibile risalire al traliccio (alla cella) che aggancia il mio segnale e dunque stabilire l’area in cui mi trovo. Con un margine d’errore legato al raggio d’azione di quella cella. Forze dell’ordine e avvocati difensori possono richiedere queste informazioni agli operatori telefonici secondo precise norme che stabiliscono diritti e divieti.

Al processo Aemilia esse diventano determinanti in molti casi: è chiaro che se la mia telefonata è agganciata dalla cella di Cutro in Contrada Scarazze dove si trova l’abitazione di Nicolino Grande Aracri, mi è difficile sostenere che a quell’ora ero in vacanza a Forte dei Marmi.

Nel caso precedente (rogo dell’auto di Colacino) la cella che aggancia i telefoni di Muto e Valerioti è certamente quella vicina al luogo del rogo, ma la difesa sostiene che i due potevano anche trovarsi nei pressi del Sigma, perché la distanza non è la stessa che c’è tra Cutro e la Versilia. E’ una questione di metri e di probabilità, che però in questo caso, e in quello che viene subito dopo, giocano a sfavore degli imputati.

Anche l’imprenditore reggiano Mirco Salsi, titolare della Reggiana Gourmet e all’epoca dei fatti vice presidente provinciale della CNA, si trova a dover fare i conti in aula con una cella che lo inchioda.  E’ quella di via Romagnoli a Cadelbosco Sopra vicino alla casa e all’ufficio di Antonio Silipo, che nel rito abbreviato è stato condannato a 21 anni di carcere (pena ridotta di un terzo) per la sua appartenenza all’associazione mafiosa e per i reati connessi.

Mirco Salsi, secondo la storia già ampiamente trattata al processo, si era preso una sbandata per una femme fatale di Brescia, Maria Rosa Gelmi, che di fatale aveva soprattutto la capacità di sfilare montagne di soldi dai portafogli e farsi pure dire “grazie” dalla vittima di turno. A Salsi la seducente Rosa aveva portato via la modica cifra di un milione e 300mila euro promettendo in cambio appalti (mai arrivati) nel settore della ristorazione. Quando si accorge del raggiro, Salsi si mette nelle mani dell’amico giornalista Marco Gibertini che lo mette nelle mani dell’amico mafioso Antonio Silipo, promettendogli una rapida soluzione al problema, e così il presidente della Gourmet cade dalla padella nella brace (altri 300mila euro da sborsare).

In udienza il 10 agosto la querelle è sulla data del primo incontro tra Silipo e Salsi. Il maresciallo del carabinieri Cristian Gandolfi la fa risalire al 30 giugno 2012 grazie appunto a quella cella che lo intercetta nei pressi della abitazione del mafioso; lo stesso Salsi e il suo avvocato difensore Celestina Tinelli sostengono invece che il primo incontro avvenne il 5 luglio e che la cella copre un’area dove Salsi era solito bazzicare senza trovarsi necessariamente a casa di Silipo.

Qualunque sia la verità, non saranno mai una settimana in più o in meno e una cella telefonica a ripagare Mirco Salsi (a processo per le minacce a Maria Rosa Gelmi): sedotto, abbandonato, truffato, e pure imputato.

 

CHI E’ MORTO E CHI L’HA UCCISO?

Martedì 8 agosto depone come testimone Nicola Femia detto Rocco, il “re delle slot machine”, recentemente condannato a Bologna al termine del processo Black Monkey a 26 anni e 10 mesi in quanto capo di una organizzazione mafiosa che realizzava profitti illeciti con il gioco d’azzardo. E che profitti! Un miliardi di euro negli ultimi dieci anni, racconta in aula, “da quando nel 2003 mi sono sistemato assieme a mio fratello in Emilia Romagna”.

Nato nel febbraio del 1971 a Marina di Gioiosa Ionica, è un leader anomalo della ‘ndrangheta calabrese. Niente Famiglia di appartenenza; lui era “uomo riservato” di Vincenzo Mazzaferro, dice, e se sei sotto la protezione del boss che fino al 1993, prima di essere ammazzato, faceva il bello e cattivo tempo sulla costa ionica della Calabria, non ti serve una ‘ndrina.

Femia ha comunque alle spalle una carriera esemplare di reati, arresti e condanne. Il primo omicidio l’ha commesso a 15 anni, su ordine di suo zio Vincenzo. Per quell’omicidio venne assolto grazie a “testimoni compiacenti”: gente disposta a dichiarare il falso per costruirgli un alibi attendibile. Poi dentro e fuori dal carcere per rapine, associazione mafiosa, traffico di droga, e infine la specializzazione in schede truccate per il gioco d’azzardo on line: la botte d’oro.

Nicola Femia è oggi un collaboratore di giustizia, che riconosce le proprie malefatte compreso l’omicidio di gioventù. E’ chiamato a testimoniare dal PM Beatrice Ronchi per raccontare i suoi incontri con Michele Bolognino, che riconosce come un leader della cosca Grande Aracri. Per dimostrarlo ricorda un problema avuto con un rivale di Salvaterra nella gestione delle macchinette illegali per il gioco d’azzardo. “Ce l’aveva con me, mi voleva ammazzare”, dice, e allora ne aveva parlato con Bolognino che aveva detto di conoscerlo e si era offerto per sistemare le cose.

“Poi quello è morto..” aggiunge Femia, come fosse un dettaglio secondario.

Ma di chi sta parlando? Tra Salvaterra, Casalgrande e Castellarano, a ridosso del Secchia, operava un gruppo ‘ndranghetista con un giro di affari sporchi: racket, usura, sistemi per il gioco d’azzardo. A guidarlo era la famiglia Scarfone, decimata da storie oscure. Dominique Scarfone, detto Mimmo il Calabrese, boss di Rosarno residente a Casalgrande, fu trovato morto in un incendio a Mesagne di Brindisi nel giugno 2015. Suo fratello Antonio fu ucciso a Rosarno con due colpi di pistola nell’agosto 2016 dall’altro fratello Angelo, in accordo con la sorella Vittoria, col marito di lei Vincenzo Timpani e col loro figlio Luigi: un bel gruppo di famiglia che viveva sulla sponda sinistra del Secchia, intenzionato a sfoltire gli eredi dei beni materni.

Alla guida della loro società, la Sio Group srl di Salvaterra, trasferita in Calabria nel 2014, era subentrato agli Scarfone un altro Timpani, Zeno, 29enne sempre di Casalgrande, arrestato nel marzo di quest’anno nell’ambito della operazione Ndrangames assieme ad un albanese, un greco, un cinese ed un reggiano tutti residenti tra Castellarano e Casalgrande, espressione di una alleanza tra i Grande Aracri e la cosca lucana dei Martorano-Stefanutti. Con le videoslot guadagnavano circa 600 milioni di euro l’anno.

Ma Bolognino aveva promesso a Femia di intervenire anche per un’altra vicenda: un recupero crediti verso un diverso concorrente, Michele Lombardini, residente a Novellara, arrestato poi nel giugno 2016 nell’ambito della operazione Totem che ha portato a 27 ordini di custodia cautelare per 60 persone indagate tra la Sicilia, la Sardegna, Mantova e Reggio Emilia, sempre nell’ambito delle scommesse e dei giochi illegali, in questo caso guidati dal clan messinese dei Giostra.

Chi è dunque il morto a cui fa riferimento Femia? Chi ha ucciso chi? E per odine di chi? E quando finirà? E quante altre storie torbide di regolamenti di conti e di affari sporchi che hanno origine nelle nostre terre dovremo conoscere, capire, raccontare?

 

QUI GATTA CI PODOSINNIKOVA

Nelle ultime ore dell’ultima udienza prima della sospensione estiva, arriva un altro rapporto dei carabinieri che illustra una serie di verifiche e approfondimenti predisposti a partire dalle dichiarazioni in aula del collaboratore di giustizia Giuseppe Giglio. Il fascicolo del 10 agosto riguarda ciò che Giglio disse in dicembre a proposito di Giuseppe Iaquinta ma, prima che il maresciallo passi ad illustrare i riscontri effettuati, l’avvocato difensore Carlo Taormina si alza e dice che lui e il suo assistito non intendono mettere in discussione il lavoro svolto dai carabinieri e prendono per buona la relazione riconoscendo la veridicità dei riscontri. E’ una dichiarazione abbastanza sorprendente perché normalmente avviene il contrario: si contesta tutto. E’ strano, ma l’avv. Taormina dice tra l’altro (più o meno): “Ci sono dettagli sui quali possiamo sorvolare”. A posteriori sarà illuminante.

La PM Beatrice Ronchi e il giudice Francesco Caruso ringraziano, perché così si va più veloci, ma chiedono comunque al maresciallo di riassumere i fatti principali sui quali si è indagato. E il maresciallo fa ciò che probabilmente Iaquinta e Taormina non vorrebbero: narra (tra le altre cose) la storia di un controllo effettuato nel mantovano, sul luogo di un incendio doloso del quale si occupa il processo Pesci in corso di svolgimento a Brescia. Furono segnalate auto e persone, nei pressi dell’incendio, e tra le altre vennero notate e registrate una Fiat 500 e una Toyota Yaris. Alla guida della prima c’era uno Iaquinta, alla guida della seconda una ragazza russa: Ekaterina Podosinnikova. La sua Toyota era stata acquistata in una concessionaria con un primo acconto pagato da Giuseppe Iaquinta. Ekaterina, che all’epoca dei fatti (2015) lavorava come ballerina presso il locale notturno Mouline Rouge di Ponte sul Mincio, in precedenza aveva ottenuto un altro lavoro grazie all’interessamento di Giuseppe Iaquinta, come sostenuto a suo tempo da Giuseppe Giglio, che dunque aveva detto il vero.

“Ulteriori accertamenti dei carabinieri sui rapporti tra Iaquinta e Podosinnikova”, dice il maresciallo, “hanno permesso di stabilire che”… omissis, omissis, omissis!

Io mi autocensuro in rispetto della scelta di Iaquinta e Taormina. Hanno accettato le conclusioni del verbale senza contestare, pur di non arrivare alla lettura e all’esposizione in aula, e invece quel maresciallo racconta ugualmente dettagli che…

Non mi sembra giusto. Chiudiamola qui ch’è meglio.

 

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