PER QUESTO NOI SIAMO
Paolo Bonacini, giornalista
Una frase può cambiare la vita.
C’è chi ci crede ma la cosa normalmente avviene solo nelle telenovelas tipo “Beautiful” dove Ridge ascolta nascosto dietro la porta cosa dice l’amata Brooke a suo padre Eric, ed estrapola una frase dalla quale deduce che i due sono amanti. Così tutta la famiglia va a rotoli per almeno tre generazioni a venire, senza che nessuno si ponga il problema di capire bene se la frase fosse: “Lo lascerò per te” (riferendosi a Ridge) o “Lo fascerò per te” (riferendosi ad un fastidioso brufolo sul gomito).
Su temi più seri (del futuro della famiglia Forrester) vale invece la pena chiarire fino in fondo contenuto e senso della frasi, per non lasciare spazio a falsi equivoci. Al processo Aemilia due casi recenti meritano questa attenzione: l’attacco dei detenuti ai giornalisti nella udienza del 13 luglio e l’attacco dell’imputato Giuseppe Iaquinta al PM Marco Mescolini nell’udienza del 25 luglio.
Del primo caso abbiamo già parlato nell’articolo titolato “In galera”, ma quella convulsa mezz’ora di lamentele in tribunale sulle presunte “cose false” che scrivono i giornalisti, ha scatenato reazioni e controreazioni. Prima di tutto dei giornalisti (l’Ordine e la Federazione Nazionale della Stampa). Poi in risposta (lo scrive la giornalista Benedetta Salsi sul Carlino) degli avvocati (attraverso una “richiesta urgente di intervento pubblico” inoltrata alla Camera Penale e all’Ordine di Bologna). Sono scesi in campo il presidente della FNSI Giuseppe Giulietti, la segretaria regionale del sindacato Serena Bersani (venuti in aula a portare solidarietà ai giornalisti), il presidente e il segretario delle Camere Penali di Bologna Roberto D’Errico ed Ettore Grenci in difesa dell’avv. Vezzadini. Giulietti ha annunciato una richiesta di audizione alla commissione antimafia del parlamento, D’Errico e Grenci parlano di articoli “tesi solo a delegittimare il difensore agli occhi dell’opinione pubblica”.
In attesa di nuove esternazioni torniamo un attimo nell’aula del tribunale alle 18,15 di giovedì scorso e andiamo al cuore del problema: cosa hanno gridato i detenuti dietro le sbarre, guardando i giornalisti presenti (tre) e allungando le braccia verso di loro? Di sicuro le mie orecchie hanno sentito: “In galera!”. Una semplice espressione, secca, senza fronzoli, come “In galera!” diceva il comico Giorgio Bracardi nella trasmissione di Arbore “Quelli della notte”.
L’avvocato Stefano Vezzadini invece nel suo esposto ha colto anche altre parole (prima di “In galera”) che cambiano completamente senso alla frase: “Per questo siamo…”.
Il messaggio completo sarebbe dunque: “Per questo siamo in galera”. Non un attacco diretto alla categoria, dunque, ma una amara constatazione: è colpa dei vostri articoli con notizie false se siamo privati della libertà. Anche questa non è male come tesi e come atto d’accusa nei confronti della libera informazione (considerando soprattutto che i giornalisti hanno iniziato a scrivere degli attuali detenuti “dopo” il loro arresto, e non prima, salvo rare eccezioni).
Ma quelle tre parole: “Per questo siamo…”, io non le ho udite, non le hanno udite gli altri giornalisti e probabilmente non le avrebbe udite in aula neppure la cartomante Bruna, pure avvezza ad ascoltare anche i più flebili sussurri dell’aldilà sintonizzati sulle sue orecchie medianiche. Pur dando atto all’avvocato Vezzadini (peraltro tra i più attenti, presenti e competenti al processo) che lui era più vicino di noi alle celle, mi sento di scrivere che i detenuti quelle tre parole non le hanno pronunciate.
“Per questo siamo…” qui. Intendo noi giornalisti. Qui al processo. Per documentare cosa si dice e cosa si ascolta e perché ciò che viene detto e fatto sia raccontato con una pluralità di voci che aiuti tutti a capire e poi a farsi un’idea.
Il secondo caso appare altrettanto serio e preoccupante. Al termine della deposizione di un testimone (Domenico Sestito) Giuseppe Iaquinta, seduto di fianco al proprio avvocato Carlo Taormina, ha iniziato ad agitarsi e a commentare. Il presidente Caruso lo ha richiamato ma quando il PM Mescolini ha informato la corte che quattro testimoni della difesa erano stati indagati per false dichiarazioni, si è alzato e ha inveito contro lo spesso procuratore. Frasi per le quali è stato allontanato dall’aula: “Questo è accanimento”, “Non tiri fuori niente, non hai niente in mano”, “Lei mi ha rovinato la vita, mi avrà sulla coscienza per tutta la vita”. Da dietro le sbarre è arrivato pure un commento: “Se ce l’ha una coscienza”.
Mentre usciva scortato da due agenti, e Caruso stava dettando la trascrizione delle frasi pronunciate contro Mescolini, è arrivato da Iaquinta l’attacco più pesante, sempre con tono di sfida e lo sguardo rivolto al procuratore antimafia: “Ci hai pure tu una famiglia. Vedrai!”
Anche il figlio, l’ex calciatore Vincenzo, in una recente udienza si era alzato ed era uscito brontolando a voce alta contro l’accusa mentre Mescolini interrogava un testimone. Sarà un vizio di famiglia, sarà “lo sfogo di una persona disperata”, come commentato dallo stesso Iaquinta e dal suo difensore Taormina dopo l’episodio, ma quell’ultima frase, a chi l’ha sentita, ha fatto una notevole impressione. Io ero a tre metri da lui quando l’ha pronunciata: mi è sembrata una minaccia.
Queste due vicende hanno in parte dirottato i riflettori dell’udienza, puntati invece nelle prime ore su due testimoni di particolare rilievo: il sindaco di Reggio Emilia Luca Vecchi e la dirigente del comune di Modena (moglie dello stesso Vecchi) Maria Sergio. A chiamarli a testimoniare e a rivolgere loro domande è stato un solo avvocato, Antonio Piccolo, difensore di Francesco Scida, imputato di modesta importanza nel processo, accusato di avere accettato l’intestazione fittizia di una società che commerciava prodotti per l’edilizia. Una delle tante operazioni pensate da Giuseppe Giglio, il vero proprietario dell’impresa, oggi collaboratore di giustizia, per i suoi tanti affari illeciti e per eludere le norme di prevenzione patrimoniale.
Cosa c’entrano Luca Vecchi e Maria Sergio con i fatti contestati a Scida nel processo? Assolutamente nulla. E infatti le domande dell’avvocato Piccolo non hanno mai chiamato in causa il suo assistito, né le risposte di Vecchi e Sergio lo hanno aiutato a scagionarsi.
E’ stato chiesto invece conto sia al sindaco che alla ex dirigente del comune di Reggio (dal 2004 al 2014) dei loro rispettivi operati, del loro grado di consapevolezza sull’eventuale presenza della ‘ndrangheta a Reggio Emilia, degli eventuali contatti pericolosi con eventuali appartenenti alla cosca. Si è trattato di due esami, più che di due testimonianze; quasi due esami di riparazione, ai quali si è giunti a ben vedere per una unica colpa incontestabile sulla quale hanno cavalcato sia la politica in città che gli accusati di ‘ndrangheta dal carcere negli ultimi due anni: la moglie del sindaco è nata a Cutro.
E poichè sei nata a Cutro, anche se dal paese sei venuta via che avevi solo pochi mesi di vita, un avvocato trova comunque legittimo chiederti oggi se hai avuto dei lutti in famiglia, se al funerale di tuo padre c’era tanta gente, se quel giorno hai riconosciuto per caso un qualche mafioso o imputato in questo processo tra i presenti. Chapeau a Maria Sergio che ha risposto “No” senza perdere la calma.
Processi etnici di triste memoria a parte (ma ricordiamo che un imputato di questo processo, Pasquale Brescia, in una lettera scritta dal carcere e recapitata al Carlino che la pubblicò, si rivolgeva al sindaco dicendogli: “I tuoi figli saranno mezzi cutresi”) giornali e televisioni locali di Reggio hanno ampiamente riportato domande e risposte sulla consapevolezza, in merito all’esistenza della ‘ndrangheta a Reggio Emilia, sia di Vecchi che della moglie. Vale la pena il giorno dopo mettere a fuoco allora, più che i dettagli, il senso complessivo delle cose dette in particolare dal sindaco che anche negli anni del duplice mandato di Delrio era uomo forte (e capogruppo in consiglio comunale) del principale partito di governo. Il cambio del sindaco nel 2004 fu accompagnato ad una scelta di rottura con la precedente visione dello sviluppo urbanistico della città, che faceva crescere la popolazione del comune al ritmo di duemila nuovi abitanti l’anno. Il nuovo piano strutturale ad espansione zero portò a respingere migliaia di osservazioni che chiedevano di costruire nuovi appartamenti e di trasformare aree agricole in edificabili, andando contro ad interessi economici radicati e forti. Ciò creò naturalmente malcontento. Parallelamente si andava rafforzando di anno in anno la consapevolezza di un “serio problema di infiltrazioni” malavitose nel territorio, con dimensioni crescenti testimoniate dal lavoro nero e dalle denunce dei sindacati, dalla stagione dei roghi utilizzati per intimidire, dalle risultanze delle indagini e dei processi elaborate in due inchieste commissionate dal Comune nel 2008 e nel 2010 al prof. Ciconte, dalle relazioni delle direzioni distrettuali antimafia e di quella nazionale, dalle interdittive antimafia che il prefetto De Miro utilizzò per contrastare il diffuso ingresso nelle attività e nei cantieri pubblici di personaggi e società al di sotto di ogni sospetto. Vecchi ha riassunto con rigore di dettagli anche le azioni messe in campo dall’amministrazione di Delrio fino al 2014 e dalla sua negli ultimi tre anni, ma soprattutto ha detto una cosa, una frase, che “non cambia la vita”, per tornare al tema iniziale, ma che non ammette interpretazioni distorte: “Di fronte a quanto stava accadendo, sarebbe stato imbarazzante per un pubblico amministratore non porsi domande”.
L’elenco dei pubblici amministratori che non si sono fatti intimidire dall’imbarazzo, viene allora da dire in conclusione, è piuttosto lungo e…imbarazzante per le nostre terre. Dal sindaco di Brescello Coffrini, che vedeva brave persone al posto di condannati per associazione mafiosa, al sindaco di Mantova Sodano, che mentre la cosca Grande Aracri si prendeva pezzi di città e provincia diceva di non avere “mai sentito nel suo comune il profumo della mafia”, al sindaco di Finale Emilia Ferioli, che nella gestione post terremoto era troppo impegnato a rispondere alle domande di nuovi lavori della Bianchini Costruzioni, esclusa dalla White List per le sue collusioni con le imprese di Giuseppe Giglio e Michele Bolognino, per porsi domande sulle infiltrazioni.
“Per questo noi siamo…” finiti a processo. Perché troppa gente nelle nostre terre non provava alcun imbarazzo nel convivere con la ‘ndrangheta.
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