OM… OMERTHY?… HOMMHERTY?… OMRTII?…
Paolo Bonacini, giornalista
Come si traduce la parola “Omertà” in inglese? O è una parola che NON si traduce? La risposta in un incontro con gli studenti. Tema: il processo Aemilia.
Mettendoli in fila sono più di 700. Ragazzi tra i 15 e i 19 anni che hanno assistito, dal 25 aprile 2016 al 21 febbraio 2017, alle udienze di Aemilia. I primi sono stati 10 studenti dell’istituto professionale Galvani Iodi di Reggio Emilia; le ultime una ventina di ragazze della Filippo Re, sempre di Reggio. Dalla nostra provincia sono arrivati studenti anche dal Matilde di Canossa, dallo Scaruffi Levi Tricolore, dall’Einaudi di Correggio. Poi giovani che frequentano licei e istituti professionali di Modena, Bologna, Cesena, Sassuolo, Castenaso, Brescia, Mirandola. Infine, in due diverse date, 70 ragazzi dell’Iisap, un istituto professionale che ha due sedi in provincia di Ferrara, a Portomaggiore e ad Argenta. Sono gli studenti che il 20 maggio 2016 l’avvocato Luigi Comberiati, difensore dell’imputato Pasquale Brescia attualmente in carcere, ha chiesto venissero allontanati dall’aula delle udienze in quanto minorenni, secondo quanto prevede l’articolo 471 del codice di procedura penale. Il collegio giudicante, ne abbiamo già parlato, rigettò la richiesta dicendo in sostanza che è legittimo derogare dai limiti del 471 in quanto “la partecipazione degli studenti alle udienze è un fondamentale ausilio alla formazione dei giovani alla legalità, visto anche l’interesse particolare riconosciuto al processo Aemilia”.
La “formazione dei giovani alla legalità” è un bisogno primario nei nostri territori, quanto l’acqua da bere per sopravvivere. Rappresenta le fondamenta sulle quali possiamo sperare di costruire una generazione di cittadini maggiormente consapevole dei rischi che la tolleranza verso l’illecito trascina con sé. A questa formazione offrono un grosso contributo di idee e di aiuto logistico i volontari di Libera, l’associazione che andrebbe fatta Santa per quanto impegno profonde nella lotta alle mafie.
Per contro la rete di contenimento del malaffare stesa nella nostra regione ha mostrato nell’ultimo decennio, Aemilia ne è prova e testimone, quantomeno dei buchi enormi attraverso i quali passava di tutto. Stavamo a discutere e a litigare se bastassero gli anticorpi culturali della nostra comunità ad impedire la penetrazione mafiosa o se fosse necessario un ciclo di antibiotici per ricacciarla indietro. E non ci rendevamo conto che intanto il male contaminava tutto il nostro corpo sociale, imponendo cure da cavallo per evitare una brutta fine. Gli studenti, i giovani in genere, sono una componente fondamentale di questa cura da cavallo: “sono loro le coscienze del domani, ed è la loro pulizia morale il peggior rischio per chi conta sul silenzio che deriva dall’omertà e dall’opportunismo” scrivevamo qualche mese fa.
Da quando seguo il processo per la CGIL, prima (se non unica) associazione di massa della nostra provincia a cogliere l’esigenza di un impegno forte, anche autocritico, su questi temi, ho ricevuto diversi inviti per raccontare, con le parole di un giornalista, la storia di Aemilia.
Ho incontrato ragazzi e tutor al Blaise Pascal di Reggio Emilia, che ospita la “Palestra di educazione civile”, alla sede della Rete degli Studenti di Modena, all’istituto Comandini di Cesena con tre incontri da 500 studenti l’uno del liceo linguistico Ilaria Alpi. In una di quelle occasioni, il 13 febbraio, c’era assieme a me un “poeta parlante”: un narratore che non si limita a raccontare storie perché subito dopo “racconta storie sulle storie che racconta”. Si chiama Roberto Mercadini, ha quasi quarant’anni, è simpaticissimo ed è molto bravo a mettere in scena le contraddizioni della nostra società con una piacevole dose di ironia. Nel 2016 ha pubblicato un libro titolato: “Io non scrivo mai niente” e un illuminante saggio: “Sull’origine della luce è buio pesto”.
A Cesena, nella sua mezz’ora di monologo con gli studenti, Roberto gioca con gli ossimori della ‘ndrangheta”, questi “fratelli” che non perdono occasione per “uccidersi a colpi di kalashnikov”, e quando arriva alle caratteristiche del 416 bis, cioè agli elementi che contraddistinguono i reati di stampo mafioso, si chiede: “Come si traduce omertà in inglese?… Forza ragazzi: qualcuno sa come si traduce?”.
Piomba il silenzio tra i cinquecento del liceo e Roberto continua: “Om… Omm… Omerthy forse…? O con la h davanti: Homerthy…? Dai, su, chi sa come si traduce…?”
Nessuno lo sa, perché “omertà” non si traduce. Omertà è una parola solamente italiana. Se andate su Google e attivate il traduttore troverete “omertà = omerta”. Scompare solo l’accento, che tanto a Londra non serve. Se andate sul traduttore I Translate per Mac vedrete la frase: “Cospiracy of silence”, la “Cospirazione del silenzio”. Una perifrasi che sostituisce la parola mancante. Forse perché gli inglesi non conoscono la cospirazione del silenzio; noi sì.
Le sue origini rimandano alla malavita meridionale, dice la Treccani nell’illustrare il significato della parola “omertà”. Mafia e camorra imponevano di mantenere il silenzio sul nome dell’autore di un delitto affinché questi non fosse colpito dalle leggi dello Stato ma soltanto, magari, dalla vendetta dell’offeso. Poi per estensione si intende con “omertà” la solidarietà diretta a celare l’identità dell’autore di un qualsiasi reato. Ancora più attuale è l’idea di una solidarietà, dettata da interessi pratici o di consorteria, unita anche al timore delle rappresaglie, che spinge ad astenersi volutamente da accuse, denunce, testimonianze, o anche da qualsiasi giudizio nei confronti di una determinata persona o situazione. Come si dice: “Tutti sapevano, ma nessuno osò infrangere il muro dell’omertà”.
E chissà perché vengono subito in mente, leggendo questa declinazione moderna del concetto di omertà, certe colpevoli deviazioni nelle scelte strategiche relative ai nostri territori. Tutti sapevano che l’abnorme sviluppo urbanistico spinto dalla politica, dalle istituzioni e dalle associazioni imprenditoriali e cooperative a cavallo del passaggio di millennio celava i rischi di abusi e violazioni delle regole, oltre che di devastazione del territorio; tutti sapevano che con la logica delle gare al ribasso i subappalti avrebbero inquinato il sano mercato della competizione di qualità e del lavoro regolare in settori delicatissimi come le opere pubbliche. Tutti sapevano che presentarsi a Cutro per chiedere voti a Reggio Emilia avrebbe rischiato di gettare un’ombra sulle elezioni amministrative ed europee del giugno 2009 eppure tutti ci andarono, come racconta anche l’avvocato Liborio Cataliotti in aula il 7 febbraio: da lui a Filippi, dalla Spaggiari a Del Rio, da Motti a Scarpino ad Olivo. Tanto che al procuratore antimafia Mescolini viene da interromperlo con una battuta: “In Emilia è rimasto qualcuno ad amministrare le città?”.
Tutti sapevano, ma nessuno o quasi osò infrangere, per usare i termini del vocabolario, il muro degli interessi economici e politici prevalenti sul principio della prevenzione della legalità.
E’ il male dei nostri tempi, che finisce inevitabilmente per offrire solidi approdi a chi naviga nel mare magnum degli interessi privati e di parte, a scapito di quelli collettivi.
Nell’ultimo incontro con gli studenti al quale ho partecipato, nel complesso del Blaise Pascal di via Makallé, ad un certo punto mi hanno chiesto chi c’è normalmente in aula ad assistere alle udienze del processo.
“Di solito ci siete voi studenti” rispondo “poi i famigliari degli imputati, il presidente regionale e i volontari di Libera che non mancano mai, quattro giornalisti stabili ed altri a spot”.
“E le istituzioni?”
“C’è molto spesso il sindaco di Castelnovo Monti, Enrico Bini, che a forza di denunciare le infiltrazioni mafiose nella nostra provincia ha rotto le scatole a molta gente. Prova ne è una poco edificante conversazione intercettata dalle forze dell’ordine tra il capogruppo Pdl in Provincia Giuseppe Pagliani e l’avvocato Antonio Sarzi Amadé: mettere assieme un dossier contro Bini era l’obbiettivo comune. Altri due sindaci si vedono con una certa frequenza: Paolo Colli di Montecchio e Andrea Carletti di Bibbiano. Poi poco altro: ho visto due volte il sindaco di Scandiano Alessio Mammi, una volta quello di Rubiera Emanuele Cavallaro, quello di Quattro Castella Andrea Tagliavini, il presidente della provincia Giammaria Manghi. Il sindaco di Reggio Luca Vecchi c’era il giorno del Viaggio Legale, quando la Mehari del giornalista ucciso Giancarlo Siani è arrivata davanti al tribunale. Dentro non l’ho mai visto. Ma anche io non ci sono sempre: a qualche seduta non ho partecipato.”
I ragazzi mi guardano un po’ perplessi. “Un po’ poco” sembrano dire i loro occhi.
E allora aggiungo: “Pensate invece che bello se ad ogni udienza ci fossero in aula 42 fasce tricolore e una fascia azzurra in rappresentanza di tutti i Comuni e della Provincia. E magari anche le fasce tricolore degli altri comuni capoluogo dell’Emilia Romagna. Non è necessario che vengano i sindaci; basterebbe mandare un assessore, un dirigente, un funzionario. E pensate che bello se ad ogni udienza ci fossero anche i rappresentanti di tutte le organizzazioni sindacali, non solo della CGIL. E della Associazione Industriali, e di Legacoop, e della CNA, e avanti che c’è posto…”
E’ l’idea che conta: l’idea che ci siamo e ci facciamo vedere, non solo con i nostri avvocati di parte civile, ma con la parte civile della nostra comunità.
L’idea che qui da noi non c’è, perché è stata sconfitta, la Cospiracy of Silence”.
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