LIBERTA’ E LAVORO

18 Aprile 2017

Paolo Bonacini, giornalista

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Dietro le storie di Aemilia ci sono persone vere, con nome e cognome: alcune di queste sono vittime, che hanno subito le prevaricazioni, le intimidazioni, a volte anche le azioni violente della ‘ndrangheta.

I lavoratori sono il fronte più esposto, soprattutto in un mercato come quello dell’edilizia che di per sé non brilla per chiarezza e certezza del diritto. Un comparto nel quale in archi temporali ristretti si consuma il rapporto di lavoro ed è più facile imporre a chi ne ha bisogno, di lavorare, le regole che non stanno scritte sui contratti collettivi ma nella testa di chi ha l’unico obbiettivo di spendere il meno possibile.

Le testimonianze delle ultime settimane, incentrate in particolare sulle infiltrazioni mafiose nelle opere di ricostruzione post terremoto, ne sono una prova. I lavoratori che (secondo la Direzione Antimafia) Michele Bolognino metteva a disposizione della Bianchini Costruzioni srl, sono le persone vere che hanno dovuto accettare la regola della ‘ndrangheta: “Prendi questi contanti e accontentati. In caso contrario sei licenziato e se ti lamenti…”

Uno di loro si è lamentato ed ha nome e cognome: Antonio Balzano, 33 anni, originario di Gonzaga. Assunto per tre mesi, formalmente dalla Bianchini srl, pagato come gli altri secondo la DDA con finte buste paga inferiori ai mille euro, nelle mani come gli altri del boss Bolognino denominato “il re dei cantieri”. Antonio Balzano è l’unico lavoratore che si è costituito parte civile al processo, chiedendo un risarcimento danni allo stesso Bolognino, ad Augusto Bianchini, al figlio e alla moglie dell’imprenditore di San Felice Sul Panaro che per anni, prima e dopo il terremoto, ha fatto il bello e il cattivo tempo tra le imprese destinatarie di appalti e subappalti in Emilia Romagna. Spesso con la compiacenza di amministrazioni, politici, cooperative e rappresentanti dello Stato sui quali forse ci diranno di più i processi Aemilia 3 e Aemilia 4 dei quali si parla con insistenza in questi ultimi tempi nell’aula bunker.

Da Antonio Balzano gli investigatori hanno raccolto “sommarie informazioni” il 12 marzo 2016, che confermavano l’impianto accusatorio relativo agli illeciti guadagni del sodalizio Bolognino/Bianchini realizzati sulla testa dei lavoratori. E nelle ultime due udienze a cavallo di Pasqua, giovedì 13 e martedì 18 aprile, Balzano è venuto in aula per rispondere su quel tema ad accusa e difesa. Alla fine il manovale non se l’è sentita di ribadire quanto detto un anno prima ai carabinieri, ma non se l’è sentita neppure di smentire la propria testimonianza.

Ha detto: “Tengo famiglia, ho dei figli, ho paura”. Ha detto le cose che dice normalmente chi ha subito intimidazioni o è stato minacciato. E ad Antonio Balzano le minacce debbono essere arrivate dopo la sua costituzione di parte civile. Il collegio dei giudici si è ritirato per valutarne la testimonianza ed ha deciso che bastavano le semplici parole pronunciate in aula: Balzano è vittima di illecite pressioni, l’unica sua testimonianza credibile ai fini processuali resta di conseguenza quella della primavera di un anno fa. Gli imputati che seguono l’udienza dietro le sbarre hanno iniziato a protestare. Il giudice ha fatto allontanare uno di loro, gli altri lo hanno seguito. Solidarietà tra detenuti. Per la prima volta ad Aemilia le gabbie sono rimaste vuote.

Balzano è un lavoratore, e i lavoratori sono le prima vittime della ‘ndrangheta.

Nel giorno in cui iniziano a deporre le parti civili è il segretario regionale della CGIL Luigi Giove a spiegarne le ragioni, di fronte a tanti funzionari e dirigenti del sindacato mescolati agli studenti tra il pubblico. Prima di lui passano davanti al collegio dei giudici alcuni sindaci reggiani e il presidente della Provincia Gian Maria Manghi, che ricorda l’alba del 28 gennaio 2015, quando il comando dei Carabinieri lo informò degli arresti in corso in tutta la regione: “Da quel giorno è iniziata un’altra storia per il nostro territorio. Stava succedendo qualcosa che non era mai accaduto”.

Per le amministrazioni locali il 28 gennaio 2015 è il giorno del “risveglio”, come dice Manghi con una immagine efficace, ma per chi lavora nei cantieri e per chi cerca di rappresentarli e difenderli sul fronte dei diritti la storia inizia prima. Il segretario regionale Luigi Giove ricorda la denuncia presentata il 24 luglio 2013 alla Procura e alla Questura di Modena da Tania Sacchetti e da Marcello Beccati per conto della CGIL. Si informavano le autorità dei metodi poco trasparenti attraverso i quali la ditta Fratelli Baraldi spa, grande impresa di costruzioni con sede a Staggia di San Prospero (MO), cercava di ottenere la riammissione alla White List, utilizzando i servizi di una società di investigazioni, la Safi Service, che vantava agganci in Prefettura. E lo stesso Beccati racconta come dopo l’esclusione della Bianchini Costruzioni dalla White List, nel 2013, dieci dei tredici lavoratori dell’impresa abbandonarono il sindacato al quale erano tutti iscritti, la CGIL. L’idea che passava in molti cantieri, che la stessa ‘ndrangheta aveva evidenti vantaggi ad accreditare, era che la presenza del sindacato e le sue rivendicazioni mettessero in crisi la compatibilità degli appalti e a rischio i rapporti di lavoro. Intanto, ricordano sia Giove che Beccati, nelle buste paga spuntavano come funghi le voci “anticipi” dietro le quali stava un pezzo del salario che spesso non veniva in realtà pagato. Nessun lavoratore lo ammetteva mentre era in piedi l’attività, tutti lo denunciavano quando a lavoro concluso si rivolgevano al sindacato per denunciare le irregolarità. E’ quanto, per fare un esempio, avveniva alla Bianchini Costruzioni secondo le ricostruzioni dei Carabinieri di Modena.

Tra il 2008 e il 2012, con la crisi del mercato dell’edilizia, avviene una mutazione profonda delle imprese che operano sui nostri territori. La richiama lo stesso Beccati: sempre più società provenienti da fuori regione, in particolare dal Sud, di dimensioni sempre più piccole, e sempre più imprese locali che entrano in crisi con sempre più lavoratori in cassa integrazione. E’ il contesto ideale per le infiltrazioni malavitose e per la distruzione degli strumenti collettivi di tutela dei lavoratori. Il segretario regionale Luigi Giove sintetizza indirettamente quanto accadde in quegli anni rispondendo alla domanda dell’avvocato Libero Mancuso: “Quali motivazioni hanno spinto la CGIL a costituirsi Parte Civile in questo processo?”

“La CGIL si regge sulla libera partecipazione dei lavoratori, che può essere esercitata solo in un contesto di vera democrazia”, risponde.

“Ma se il lavoratore non può parlare, perché teme le ritorsioni dell’impresa o del padrone; se il mercato è alterato da offerte che non rispettano le regole pur di abbassare i costi e trovano comunque (a volte proprio grazie a questo) la via per aggiudicarsi i lavori; se il confronto tra lavoratori ed impresa non avviene sul piano paritario dei legittimi interessi e diritti ma viene falsato dal ricatto esplicito verso le persone e dai lucchetti ai cantieri per tenere fuori il sindacato; se accadono queste cose non c’è libertà, non c’è democrazia, non si riesce ad esercitare la rappresentanza”.

Prima di uscire, terminata la sua deposizione, scambiamo qualche parola con il segretario regionale e Luigi Giove segna la seggiola dove prima sedeva l’operaio Antonio Balzano: “Noi siamo qui per tutelare i lavoratori anche in un contesto giudiziario come il processo Aemilia. Hai sentito la sua testimonianza drammatica. Loro, i lavoratori, sono minacciati, sono in una condizione di ricatto. E allora la CGIL deve esserci. Per aiutarli”.

E’ già un motivo più che sufficiente.

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