LIBERA DI, LIBERI DA

29 Marzo 2017

Paolo Bonacini, giornalista

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L’articolo scritto il 23 marzo scorso da Tiziano Soresina sulla Gazzetta di Reggio ci ricorda che in questo mese possiamo spegnere la candelina del primo anniversario di Aemilia.

Un processo giovane, che ancora muove i passi incerti dell’infante, se la misura di paragone è l’età umana. Oppure un evento così complesso e ripetitivo, con le sue udienze bisettimanali e i suoi riti (l’appello degli avvocati il mattino, la pausa caffè alle 11,30, i banchi del pubblico semideserti nel pomeriggio…), da sembrare già vecchio e poco attraente, se la misura è l’interesse del grande pubblico, oggi più avvezzo a chattare con poche frasi che a leggersi centomila pagine di atti.

In verità Aemilia è entrambe le cose. E’ talmente giovane che probabilmente una buona fetta della popolazione neppure sa che esiste; un’altra fetta pensa che gli imputati e i fatti del processo non la riguardino; una terza fetta spera di non essere chiamata in causa o di non doversi pronunciare sul merito perché si sa: “quelli lì della ‘ndrangheta non scherzano”.

Ma contemporaneamente Aemilia è anche un punto di non ritorno, soprattutto per la quarta fetta di gente, interessata a capire cosa è successo in queste terre dove un tempo si cresceva educati alla legalità, all’onestà e alla socialità. Aemilia è la testimonianza visiva, con quel bunker infilato a forza nella piazzetta del Tribunale, che qualcosa di grave è accaduto nella nostra regione e che dopo un lungo anno di udienze “Non possiamo più dire: noi non lo sapevamo” come titola appunto la Gazzetta di Reggio.

Ora in qualche modo, e con le opportune lacune e mancanze, anche noi reggiani, noi emiliani, siamo diventati “esperti di mafia e antimafia”. Sappiamo quando e come la ‘ndrangheta è entrata nei nostri territori, a chi si è appoggiata per costruire affari e ricchezze, in quali settori e business si è specializzata, perché e quando ha usato la violenza per regolare i conti al proprio interno o per imporsi all’esterno. Non abbiamo più alibi, neppure quello dell’ignoranza dietro la quale tanti si sono nascosti, a partire dai sindaci di Brescello e Finale Emilia per citare due casi inquietanti.

Un incontro di aggiornamento professionale per giornalisti a Verona ha reso evidente, sabato 25 marzo, quanto sia forte la consapevolezza del problema che il processo Aemilia determina, vedendo per contrasto quanto ancora si illuda di essere immune chi vive a soli quaranta minuti di auto di distanza da Reggio Emilia.

Il tema dell’incontro era “Mafia, antimafia, amministrazione dei beni sequestrati e informazione”.  Il dott. Feederico Loda, commercialista esperto di amministrazione giudiziaria dei beni sequestrati alle mafie, ha spiegato la teoria della legge: cercare nelle aziende la collaborazione dei manager, aumentare la redditività, parlare coi dipendenti e appellarsi al loro impegno per il bene comune. In pratica invece a Montecchio la dottoressa Federica Zaniboni, amministratrice giudiziaria dei beni di Palmo Vertinelli, doveva vedersela con aziende fantasma prive di dipendenti, con le minacce dei titolari, con l’esclusione dalla gestione di attività che continuavano nell’ombra come se nulla fosse. In teoria nel Veneto il “rischio di infiltrazioni mafiose è alto”, è stato detto; in pratica in Emilia Romagna si è scoperto che non esiste il rischio di infiltrazioni perché c’è la “certezza della inondazione”, con almeno cinquanta famiglie di ‘ndrangheta, camorra e mafia siciliana che hanno piantato radici stabili nelle province da Piacenza a Rimini. In teoria anche una querela per diffamazione, unico caso citato nel seminario, è uno strumento di intimidazione verso i giornalisti. In pratica le minacce di morte e regolamento di conti, le spranghe di ferro brandite contro i cameraman, gli inviti a non scrivere che arrivano da amici poliziotti (amici dei mafiosi) alzano in Emilia il livello della sfida per chi racconta i fatti di mafia.

A Verona ci hanno pensato due nomi di peso a riportare nella giusta dimensione economica e politica la diffusione delle mafie nel paese. Sono l’ex parlamentare Elio Veltri (autore del saggio “Mafia Pulita” che nel 2009 anticipava quanto reso poi evidente dalle vicende di casa nostra: “Oggi la mafia non ha più bisogno di uccidere: compra”) e lo storico Franco La Torre (Figlio dell’ex segretario Pci della Sicilia Pio La Torre, ucciso nel terribile 1982, a cui si deve l’introduzione nel codice penale italiano del reato di associazione di stampo mafioso: la legge “Rognoni – La Torre”).

Ma che il Veneto, come tutto il nord Italia, sia ben oltre il semplice rischio di “infiltrazioni”, lo dicono anche i dati sui beni frutto di attività mafiose e sottoposti a sequestro nei diversi distretti. Tra il 2013 e il 2015 sono stati complessivamente 732 a Bologna per l’Emilia Romagna e 1091 a Venezia competente per il Veneto. Un buon 30% in più di là dal Po nonostante di qua la Direzione antimafia abbia arrestato la più potente organizzazione di ‘ndrangheta nel nord Italia.

Mal comune non fa comunque mezzo gaudio e i mali nostri (di emiliani) non sono certo attenuati dai problemi altrui. L’elenco di cose che non vanno in casa nostra lo riassume come dicevamo, ad un anno dall’avvio del processo ordinario, Tiziano Soresina sulla Gazzetta e ad esso mi permetto di aggiungere solo qualche ulteriore segnalazione, seguendo la scaletta sintetica ma molto chiara dell’articolo.

SINDACI LATITANTI. Scrive Soresina: “Il sindaco antimafia Enrico Bini ha più volte chiesto una presenza a rotazione dei primi cittadini reggiani. Finora non s‘è vista. Eppure sarebbe importante vedere al processo più fasce tricolore”. Siamo d’accordo, tanto d’accordo che lo abbiamo scritto più di una volta, rispondendo alla domanda: “E le istituzioni, dove sono?” che gli studenti spesso ci rivolgono quando andiamo a parlare del processo nelle scuole: “Pensate che bello se ad ogni udienza ci fossero in aula 42 fasce tricolore e una fascia azzurra in rappresentanza di tutti i Comuni e della Provincia. E magari anche le fasce tricolore degli altri comuni capoluogo dell’Emilia Romagna. Non è necessario che vengano i sindaci; basterebbe mandare un assessore, un dirigente, un funzionario. E pensate che bello se ad ogni udienza ci fossero anche i rappresentanti di tutte le organizzazioni sindacali, non solo della CGIL. E della Associazione Industriali, e di Legacoop, e di Confcommercio e della CNA, e avanti che c’è posto…”. A questo punto delle due l’una: o i sindaci, le istituzioni e le associazioni non leggono i giornali e non ascoltano la domanda di presenza che arriva dai cittadini, o leggono e ascoltano ma se ne fregano.

CRONISTI. Sempre dalla Gazzetta di Reggio: “Il maxi processo, va detto chiaramente, a parte all’inizio, non ha la copertura mediatica nazionale che ci si aspettava. Le udienze-fiume spaventano, è un grosso sacrificio seguirle per i cronisti, un processo così complesso e dai ritmi altissimi richiede organizzazione, competenze e redazioni solide. Da questo punto di vista la Gazzetta ha la coscienza a posto”. E’ vero, perché i giornalisti della Gazzetta sono sempre presenti in aula, come i giornalisti di Carlino Reggio. Ma se il sacrificio, l’organizzazione e le competenze le mettono in campo i due giornali, e con loro anche la CGIL, che pur non essendo un editore ha deciso di fornire agli iscritti la propria lettura del processo, lo possono fare anche altri. Non è scritto da nessuna parte che il giornalismo non debba affrontare temi scomodi, complessi o che richiedano sacrifici. Anzi. Non è scritto da nessuna parte che ai “mercoledì rosa” in piazza i giornalisti non possano mancare mentre ai “martedì grigi” in Tribunale invece sì. E’ solo una questione di scelte editoriali. E se qualcuno pensa che sto parlando anche della televisione che ho diretto per vent’anni, Telereggio, non si sbaglia.

VOLONTARI ANTIMAFIA. Soresina: “Sempre presenti in aula con i loro volontari un paio di associazioni antimafia. Sono Libera e Agende Rosse: la prima accompagna le classi ad Aemilia nell’ambito di un collaudato progetto sulla legalità. Mentre la seconda ha creato un sito Facebook in cui è possibile seguire in diretta il processo”.  Entrambe le associazioni fanno parte di quella “antimafia sociale” che sopperisce ai terribili vuoti della politica e dell’impegno istituzionale quotidiano. Nel giorni scorsi si è celebrata la “XII giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime di mafia”. A Locri con don Ciotti, il fondatore di Libera, erano in 25mila. Ma anche a Rimini, per la manifestazione regionale, non hanno scherzato: settemila ragazzi, con tanti pullman anche da Reggio Emilia, organizzati oltre che da Libera anche dalla CGIL. E pure nella nostra città, con le bandiere di Libera, alcune centinaia di studenti hanno circondato con una catena umana il Tribunale sabato 18 aprile. Il coordinatore regionale di Libera Daniele Borghi tutte le mattine del processo arriva con mezz’ora di anticipo per spiegare agli studenti chi e cosa vedranno in aula; lo ha già fatto con più di mille di loro. E al suo fianco ci sono sempre Cristina e Claudia che non perdono una udienza. Cristina Solustri è consigliere comunale a Scandiamo e volontaria di Libera. “Mi spingono responsabilità, senso civico e necessità di capire in prima persona” mi dice. “Noi siamo testimoni di un percorso di ricerca della verità nei modi giusti e con grande rispetto per tutti.”. Poi conclude: “Non mi sembra di fare niente di speciale. Seguo ciò che mi dice la coscienza: esserci e battersi per difendere la libertà e la dignità di ciascuno”.

Come l’associazione Libera in cui si riconosce Cristina è “Libera da” (mafie e interessi  sporchi) ed è “Libera di” (pensare, fare, denunciare).

Più che speciale è quasi eccezionale.

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