LE NUOVE PROFESSIONI: IL FACILITATORE

1 Luglio 2017

Paolo Bonacini, giornalista

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Oltre al libro “Fuoco Criminale” di Rossella Canadé vi consiglio una lettura, per le vostre vacanze, incentrata sul sempre attuale tema della lotta tra il bene e il male. E’ un’opera fresca di stampa, piuttosto corposa secondo lo stile di moda tra i narratori contemporanei: 965 pagine. Che scorrono però veloci svelando capitolo dopo capitolo fatti, protagonisti, azioni e reazioni di un universo apparentemente senza fine (come si conviene ad un buon universo) e in larga misura sconosciuto all’incolpevole lettore.

La singolarità di questa opera è che il suo contenuto non è frutto della fantasia dell’autore e non è neppure tratto da una storia vera. Il contenuto “è” la storia vera.

La storia, riferita all’anno che va dal 1 luglio 2015 al 30 giugno 2016, delle “dinamiche e strategie della criminalità organizzata di tipo mafioso”. Affiancata alla parallela storia delle attività svolte in contrasto alla suddetta criminalità dalla Direzione Nazionale Antimafia e dalle 26 direzioni distrettuali che operano sul territorio italiano.

Le 965 pagine sono quella della relazione annuale che scrive il procuratore nazionale della DNA Franco Roberti assieme ai suoi collaboratori e che lo stesso Roberti, con la presidente della Commissione Parlamentare Antimafia Rosy Bindi, ha presentato il 22 giugno alla stampa nella biblioteca del Senato a Roma.

Un posto di particolare riguardo in questa relazione lo meritano l’inchiesta e il processo Aemilia di cui ci occupiamo a Reggio Emilia, ma più si scorrono le pagine più la sensazione di essere “piccoli nell’universo” diventa consapevolezza. Perché “la ‘ndrangheta è radicata ovunque”, per usare una frase ad effetto ripresa da molti giornali, ed è presente in particolare in “tutti i settori nevralgici della politica, dell’amministrazione pubblica e dell’economia”. Ma anche perché la galassia delle cosche e delle mafie non finisce a Cutro e i Grande Aracri sono solo uno dei tanti mondi possibili in cui cresce la cultura dell’antistato.

La relazione inizia proprio con il buon grado di salute della ‘ndrangheta, i cui sodalizi sono attivi in tutte e cinque le province calabresi (Catanzaro, Reggio Calabria, Cosenza, Crotone, Vibo Valentia) dalle quali le attività si diramano in “quasi tutte le regioni d’Italia”. Ma “l’espansione dell’universo” non si ferma, perché oltre le frontiere nazionali ci sono le attività in Europa (in particolare Germania, Svizzera, Olanda) e quelle oltreoceano (Stati Uniti, Canada, Australia, sud America). Oltre le attività tradizionali: edilizia, movimento terra, trasporti, smaltimento rifiuti, logistica, traffico internazionale di stupefacenti (in primis cocaina, affare criminale in cui la ‘ndrangheta continua a mantenere una posizione di assoluta supremazia in tutta Europa), ci sono settori nuovi e fantasiosi di “lavoro”, dai parchi eolici al trasporto marittimo, dalla grande distribuzione alimentare (sequestrati alcuni supermercati al Sud) al traffico di reperti archeologici (la storica famiglia Mancuso di Vibo Valentia aveva scavato un tunnel di trenta metri sotto il sito archeologico dedicato alla ninfa Scrimbia per rubare numerosi reperti di “inestimabile valore storico”.  Qualsiasi attività va bene, dice la relazione in una “amara riflessione”, qualsiasi tentativo di “radicamento capillare nel territorio” e di “controllo di tutte le attività economiche” risponde purtroppo “al bisogno di lavoro che attanaglia gran parte delle famiglie calabresi, soprattutto i giovani”.

Si può andare “oltre” finché si vuole: oltre i Grande Aracri nel distretto di Catanzaro, dove i fratelli Nicolino ed Ernesto rappresentano il punto d’incontro tra tutte le famiglie delle quattro province per “dirimere i contrasti” ma dove resta radicata “la presenza di molteplici sodalizi operativi da decenni, con attività autonome e propaggini nel nord Italia e all’estero”.

Si può andare oltre Catanzaro, guardando ai tre mandamenti della provincia di Reggio Calabria, segnati da una straordinaria raffica di indagini e processi (Crimine, Infinito, Fata Morgana, Sistema Reggio, Mammasantissima, Reghion, Leonia…) riguardanti storiche e potenti famiglie (De Stefano, Tegano, Libri, Condello, Rosmini, Serraino, Raso, Gullace, Albanese, Parrello, Gagliostro, Piromalli…) che hanno fatto emergere l’esistenza di una “struttura riservata di comando”. Un sistema di vertice sconosciuto anche ai gradi intermedi della ‘ndrangheta, dove l’intreccio tra mafia, politica ed amministrazione pubblica si esprimeva ai più alti e segreti livelli, coinvolgendo parlamentari, assessori regionali, massoni, uomini dei Servizi Segreti, tutti di centro destra quando non appartenenti alla estrema destra eversiva.

Si può andare anche oltre la ‘ndrangheta, perché viva e vegeta è “Cosa Nostra” nella Sicilia occidentale: “una presenza diffusa e pervasiva tuttora in grado se necessario (nonostante i continui arresti) di porre in essere azioni violente ed efferate al fine di riaffermare la propria supremazia e di alimentare il flusso dei proventi illeciti”.

Viva e violenta è la Camorra napoletana, che reagisce ai successi delle azioni antimafia innescando nuovi scontri per il controllo del territorio, con 65 omicidi o tentati omicidi nell’ultimo anno.

E rediviva secondo la relazione è anche la Sacra Corona Unita che opera tra Lucania e Puglia. Mai morta in realtà, scrivono nella relazione Mandoi e Pugliese, anche se era interesse dell’organizzazione accreditare l’idea, utilizzando a tal fine anche analisti disponibili, che la cosca mafiosa fosse scomparsa dal Salento.

Si può andare oltre le mafie tradizionali studiando la criminalità organizzata di origine straniera che opera stabilmente nel nostro paese e leggerne gli intrecci con il terrorismo internazionale che pure rientra tra le competenze della DNA (anzi: DNAA, dove AA sta per Antimafia e Antiterrorismo).

Oppure si può andare oltre affrontando i capitoli dedicati all’evoluzione delle tecniche e dei metodi mafiosi. Desta impressione quello dedicato alla “corruzione”, ed è bene fermarsi a leggerne alcuni passi perché è vero che la vastità dell’Universo mette sempre voglia di andare oltre, ma è altrettanto vero che fermarsi prima a capire cosa avviene qui sulla nostra vecchia Terra è indispensabile se vogliamo poi avventurarci consapevolmente negli spazi più lontani.

Dice lo stesso Roberti, nel capitolo in questione: “Sembrano emergere, dalle indagini, figure intermedie nuove e di grande interesse, la cui individuazione è spesso la chiave di volta dei casi di maggior rilievo. Mettere la lente di ingrandimento su queste figure significa arrivare a disvelare, a cascata, una quantità enorme di affari illeciti.”

Questa figura intermedia è simile al broker che mette in contatto domanda ed offerta (ad esempio nel narcotraffico) e viene chiamato “Facilitatore” nei casi di assegnazione degli appalti e dei servizi pubblici (i più rilevanti). Il facilitatore è spesso un professionista qualificato, un politico od ex politico, che ha imparato a conoscere la macchina degli apparati pubblici dove vanta amicizie, che ne conosce i tempi, i meandri, i passaggi.

“La peculiare funzione del facilitatore” dice Roberti, “è quella di fare incrociare la domanda di tangenti e di utilità varie, provenienti dal ceto politico amministrativo disponibile, con quella di appalti, gestione di servizi, incarichi di ogni tipo, proveniente dal ceto imprenditoriale che è spesso mafioso”. La sua opera e il sistema corruttivo-collusivo che la richiede si sono sviluppati in particolare, creando una situazione patologica, “nel sistema delle autonomie locali e regionali rendendole il vero punto critico del sistema. Se infatti i sistemi di controllo per le grandi opere pubbliche di rilievo nazionale si sono via via affinati e l’attenzione dell’opinione pubblica è fortissima, sicchè la penetrazione mafiosa viene contrastata, la quasi totalità delle indagini mostra che è nelle pubbliche amministrazioni locali e regionali che si sviluppa con virulenza il fenomeno criminale” delle mani mafioso sulle pubbliche attività.

Non è più solo un problema di mediocre cabotaggio, un do ut des (Roberti usa l’espressione: “quasi fosse un mercato delle vacche”), perché il facilitatore aiuta anche a capire come e dove reperire i finanziamenti per le opere, lavorando con i politici per “aprire l’immenso, labirintico forziere” della Regione in cui operano sfruttando competenze specifiche: “Capacità, rapidità, aderenze giuste”. E coprendo così il vuoto progettuale e di responsabilità riconducibile ad Enti Locali, Giunte ed Uffici Tecnici comunali che sempre più spesso non possono, non vogliono, o non sono in grado di adempiere alle loro naturali e dovute funzioni.

Poiché, come abbiamo detto, non stiamo parlando di un’opera fantasy ma di ragionamenti che traggono spunto da indagini e pratiche verificate nella vita quotidiana, non sfugge a nessuno la gravità delle implicazioni contenute in questo ragionamento. Ma per essere sicuro che tutti capiscano Roberti va oltre e le rende esplicite, queste implicazioni: “Le indagini hanno mostrato che assai spesso è la stessa organizzazione mafiosa ad individuare i settori nei quali ottenere finanziamenti” e le sue scelte “indirizzano ed impegnano la spesa pubblica”.

E’ un cambiamento radicale rispetto al passato: prima “l’investimento sul territorio veniva deciso dalla politica e l’azione predatoria della corruzione si concentrava sui surplus di spesa”, ora invece “ampie sacche della politica e dell’amministrazione locale si sono retratte, hanno abdicato al loro ruolo, non hanno una propria idealità politica, una propria visione della società, ma non hanno neppure una propria idea o strategia sul come investire il denaro pubblico nel territorio al fine di modificare in meglio la vita stessa dei cittadini.”

E poi la botta finale: “Il politico locale, non di rado, è un mero gestore di un potere autoreferenziale e decide di investire le risorse pubbliche non sulla base dell’interesse generale ma sulla base del suo unico parametro: quanto quell’opera o quel servizio consenta l’autoconservazione del potere”.

Sarà bene a questo punto fermare la lettura, specialmente se si è sotto un ombrellone in spiaggia, e ragionare. “Non può essere così per tutti”, è la prima cosa che viene da dire (almeno a me), “non si può fare di tutta l’erba un fascio”. Dobbiamo credere che c’è ancora chi ha idealità politiche e persegue l’interesse generale; dobbiamo anzi darci da fare perché questi, i giusti, siano sempre di più e sempre più ai posti di comando della cosa pubblica.

Il secondo pensiero va però ai nomi di alcuni personaggi intercettati nelle inchieste e nelle indagini di Aemilia qui da noi e del processo Pesci a Mantova: l’ex senatore Bonferroni e il consigliere comunale di Reggio Emilia Tarcisio Zobbi, indaffarati a Roma nel tentativo disperato di rimuovere un vincolo ambientale che impediva uno scempio urbanistico sui laghi di Mantova. I tecnici di Finale Emilia Giulio Gerrini e Giuseppe Silvestri con un piede dentro al Comune che assegnava gli appalti post terremoto e l’altro nella Bianchini Costruzione che li riceveva. L’assessore comunale di Viadana Carmine Tipaldi, amico degli Arena di Isola Capo Rizzuto, difeso oltre il lecito dal suo sindaco e dal suo partito. L’altro consigliere comunale reggiano Giuseppe Pagliani che prometteva ai capi emiliani della ‘ndrangheta: portatemi voti e io vi porterò lavoro. E poi tre sindaci di quelli che “l’idealità politica e la visione della società” di cui parla Roberti “è ostrogoto”: Sodano a Mantova, Coffrini a Brescello, Ferioli a Finale Emilia.

Penso a loro, penso alla struttura di comando scoperta a Reggio Calabria ma che forse ancora lavora nell’ombra in altre città, e mi dico: “La Direzione Nazionale Antimafia non spara bordate a vanvera. Franco Roberti sa quel che dice”.

E’ tempo di un tuffo nell’acqua fresca.

 

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