LA PARTE SANA DI CUTRO

8 Settembre 2017

Paolo Bonacini, giornalista

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Pasquale Brescia è nato a Crotone nel maggio 1967 e risiede nella frazione di Cella a Reggio Emilia, sebbene dal gennaio 2015 sia rinchiuso nella casa circondariale di Bologna. E’ stato arrestato la notte del blitz di Aemilia con l’accusa di essere un “partecipe” dell’associazione mafiosa riconducibile al clan Grande Aracri che operava in Emilia Romagna.

E’ uno degli imputati eccellenti del rito ordinario di Reggio Emilia, titolare del ristorante Antichi Sapori di Gaida (sequestrato dalla Direzione Antimafia) dove si svolse la famosa cena/incontro del 21 marzo 2012 alla quale partecipò il capogruppo PdL in Provincia Giuseppe Pagliani. E’ anche l’autore della lettera minatoria inviata dal carcere al sindaco di Reggio Luca Vecchi lo scorso anno.

Le prime udienze di settembre dopo la pausa estiva, assieme ad alcune del luglio scorso, hanno consentito di accertare “oltre ogni ragionevole dubbio” che Pasquale Brescia era di casa in questura a Reggio e a Parma, almeno nel primo decennio del Duemila, e non certo in veste di sospettato/indagato/attenzionato/controllato.

Era un “imprenditore stimato”, “amico di Reggio Emilia”, “persona generosa”, “immigrato intraprendente di seconda generazione che si è diversificato”, invitato “sempre presente sul palco della autorità” alle feste della Polizia. Le frasi tra virgolette sono dei testimoni che i suoi avvocati difensori, Viscomi e Comberiati, hanno chiamato in aula. Alcuni di loro hanno titoli professionali che parlano chiaro: l’ex questore di Reggio e Parma Gennaro Gallo, il comandante della stazione carabinieri di Cavriago maresciallo Sebastiano Lo Pilo, l’ex questore vicario di Reggio Emilia Cesare Capocasa (dal maggio 2017 questore di Imperia), l’ex questore vicario di Parma Claudio Sanfilippo (dal 2016 questore di Crotone), l’ex coordinatore della divisione investigativa della questura reggiana Giovanni Ciampi (oggi segretario a Reggio dell’ANPS, l’associazione nazionale degli agenti di pubblica sicurezza a riposo o in congedo).

Tutti loro hanno pranzato o cenato più volte al ristorante Antichi Sapori, spesso senza pagare; nessuno di loro, in quegli anni, ha mai avuto segnali o ricevuto informazioni o raccolto elementi che potessero accendere dubbi sull’operato di Brescia e men che meno sulla sua possibile appartenenza ad una organizzazione di stampo mafioso. Per un ex questore (Gallo) che ha cercato goffamente di minimizzare e rendere casuali gli incontri (senza riuscirci), c’è un ex questore vicario (Capocasa) che ha invece ammesso esplicitamente: “Ho partecipato a tre cene nel ristorante, su invito del questore Gallo, del precedente questore vicario Lemma e del presidente ANIOC (Associazione Nazionale Insigniti di Onorificenze Cavalleresche) Mignacca; ma Brescia mi ha invitato almeno altre 50mila volte”.

La sostanza che emerge non lascia dubbi: Brescia godeva della fiducia e dell’amicizia della questura, era un fornitore a chiamata diretta del comando di via Dante per interventi di manutenzione edile e sistemazione delle aree, ha eseguito lavori in abitazioni private di dirigenti, riceveva regali e gadget (un orologio della polizia, calendari, una conchiglie/souvenir) in occasione delle festività. Il suo nome era inserito nell’elenco delle persone che contano della questura.

Come ci sia arrivato in quell’elenco, inserito da chi, è materia di discussione al processo. Il vicario Cesare Capocasa ha detto che Brescia gli fu presentato non sa bene da chi, ma certamente in questura, tra il 2003 e il 2004. Il dott. Gennaro Gallo, che fu questore dal 2004 al 2008, ha sostenuto che si fidava del suo autista, l’assistente capo Domenico Mesiano (poi condannato ad otto anni e sei mesi di carcere più due di libertà vigilata nel rito abbreviato), al quale attribuisce la relazione originaria con Brescia. Quindi un poliziotto/autista invischiato con la ‘ndrangheta (come sostiene la sentenza di primo grado) apre le porte della questura ad almeno due esponenti di spicco del sodalizio criminale (oltre a Brescia c’è anche Alfonso Paolini, che del questore pare fosse ancora più intimo del primo); il questore ne prende atto e fa tutto ciò che l’autista gli chiede per agevolare i due, compreso il rinnovo del porto d’armi nonostante il parere contrario della prefettura; gli altri dirigenti del comando provinciale ne prendono atto a loro volta e si adeguano senza mai chiedere il perché di un rapporto privilegiato con questi due e non con altri, visto che stiamo parlando di imprenditori edili e ristoratori senza titoli particolari. E nessuno, ma proprio nessuno in tutta la questura, ha dubbi o cerca o trova elementi che colleghino i due alla ‘ndrangheta.

E’ credibile questa ricostruzione?

Sentiremo nelle arringhe di fine anno cosa hanno da dire in proposito sia la Procura Distrettuale Antimafia che gli avvocati difensori, ma c’è una evidenza che merita di essere segnalata, partendo da una domanda: “Perché le difese puntano tanto sulle relazioni e sulla presentabilità dei loro assistiti negli anni precedenti i fatti contestati da Aemilia?”

L’eventuale legame di amicizia e di intimità tra dirigenti delle forze di pubblica sicurezza e alcuni imputati del processo accusati di appartenenza alla ‘ndrangheta sarebbe infatti paradossalmente una aggravante, qualora fosse accolto dai giudici l’impianto accusatorio dei pubblici ministeri. Questi rapporti le difese li hanno voluti esaltare attraverso le ultime testimonianze, sperando forse di offrire così buone credenziali agli assistiti, ma l’accusa non si sogna minimamente di negarli.

Perché Pasquale Brescia (limitiamoci al suo caso) deve rispondere di capi di imputazione che non evaporano se hai amici in questura. E’ accusato, secondo il 416 bis del codice di procedura penale, di essere “a disposizione degli associati” nella cosca Grande Aracri, ed in particolare di tre dei sei “capi”: Nicolino Sarcone, Francesco Lamanna, Antonio Gualtieri. Di avere partecipato alla costituzione di un gruppo di imprese con la presenza diretta di Nicolino Grande Aracri per la realizzazione di impianti eolici e fotovoltaici e la edificazione di villaggi turistici in Calabria. Di avere tentato di influenzare illecitamente le elezioni amministrative del 2012 a Parma; di avere cercato accordi col PdL a Reggio Emilia lo stesso anno per rispondere politicamente alle interdittive della prefettura. Ed è accusato di aver tenuto personalmente i rapporti con esponenti delle forze dell’ordine, condividendoli con chiunque della cosca ne avesse bisogno.

Pasquale Brescia però, stando agli atti del processo, è anche “il proprietario dell’hotel di Reggio Emilia che ha avuto a che fare con degli zingari di Milano”. Lo si legge nella sentenza firmata dal giudice per le indagini preliminari che dispone la sua custodia cautelare in carcere; gli “zingari” sono malviventi lombardi che lo avevano truffato vendendogli per 250mila euro una partita di cocaina con un chilo di “roba” buona e quattro o cinque chili di polvere. Salvatore Oliverio riferisce, stando ai verbali, che Pasquale Brescia (riconosciuto come il proprietario dell’hotel che in realtà è un ristorante) si imbufalì e gli disse di volerne ammazzare uno: “Viene uno zingaro a fregare un calabrese ‘ndranghetista… di una locale di Cutro?!”

“Lui si sentiva toccato nell’orgoglio”, dice Salvatore Oliverio, e non gli interessavano i 250mila euro; era disposto a rimettercene altri centomila per incontrare quello zingaro e scaricargli la pistola in testa”.

“L’immigrato intraprendente e generoso di seconda generazione”, a seconda di chi racconta la sua storia, mostra dunque volti diversi. Questa frase, la più esplicita nel tratteggiare in aula la faccia buona di Brescia, non arriva però da un complice di ‘ndrangheta e neppure da un dirigente della Polizia che tenta di attenuare l’evidenza di una relazione imbarazzante sostenendo che non c’erano ragioni per diffidare. A pronunciarla è stata una persona fino a prova contraria per bene e onesta, Antonio Migale, commerciante di mobili e scrittore di origine cutrese che ha vissuto a lungo a Cadelbosco in provincia di Reggio. E’ il fratello dell’ex sindaco di Cutro, Salvatore Migale, primo cittadino per diciotto anni tra il 1989 e il 2015 prima che la maggioranza di centro sinistra del comune si spaccasse e i consiglieri gli togliessero la fiducia. Antonio ha scritto un libro di recente, titolato “Cutro – Reggio Emilia: dall’emigrazione alla crisi economica”, nel quale ricostruisce la storia del massiccio esodo di cutresi nella provincia emiliana, fino alla rottura del giocattolo provocata dall’implosione dello sviluppo urbanistico. Migale è un sostenitore della teoria già esposta in aula dal consigliere comunale di origini calabresi Salvatore Scarpino: “Dobbiamo rappresentare la parte buona, sana, della comunità cutrese; farla conoscere. Sulla sede del comune giù al sud c’è una targa con scritto ‘Qui la ‘ndrangheta non entra’; c’è una piazza intitolata a Lea Garofalo, collaboratrice di giustizia originaria di Petilia Policastro, in provincia di Crotone, uccisa dalla ‘ndrangheta a Milano. Ci sono beni confiscati alla mafia utilizzati a fini sociali.”

La conclusione di Migale in aula, durante la deposizione di martedì 5 settembre, è amara e sincera, ma non per questo necessariamente corretta: “Dobbiamo sfatare la falsa equazione Cutro uguale mafia. Accomunare tutto in questo modo è dannoso”.

Accomunare tutto??? Ma chi è che accomuna? E che cosa accomuna?

Un processo di ‘ndrangheta non è una indagine sociologica sull’immigrazione e sulle inevitabili derive delle sue conseguenze. E’ un processo alle persone, non alle loro origini. Migale ritiene di avere fatto del bene per la propria comunità intervistando Pasquale Brescia per un giornale del sud come “imprenditore intraprendente di 2° generazione”, ma non si rende conto che facendolo rischia, proprio lui, di accomunare tutti. Onesti con disonesti, criminali con persone rispettose delle leggi, in nome dell’inquietante bene supremo della difesa delle origini.

E questo sì sarebbe razzismo.

C’è un solo modo, come ha fatto osservare in aula il presidente del collegio giudicante Francesco Maria Caruso il 13 luglio scorso, per tutelare e rappresentare una comunità onesta: “Impedire a quella disonesta di prendere il sopravvento”.

Di questo si deve occupare il processo; e dove siano nati gli appartenenti a queste due comunità contrapposte, è solo un fatto secondario.

 

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