LA “DESTABILIZZAZIONE”

13 Novembre 2017

Paolo Bonacini, giornalista

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L’agenzia di stampa Adnkronos scrive il 7 giugno 1999:

“Tre arresti in una delle più importanti operazioni antimafia condotte a Reggio Emilia: con l’accusa di essere gli autori di alcuni gravissimi fatti di sangue e omicidi avvenuti recentemente nel capoluogo emiliano, sono finiti in carcere Paolo Bellini, Giulio Bonaccio e Vincenzo Vasapollo, tutti pregiudicati. Secondo le accuse, i tre uomini sarebbero gli autori degli omicidi di Giuseppe Gesualdo Abramo e Oscar Truzzi, avvenuti rispettivamente il 9 dicembre del ’98 e il 16 aprile ‘99; del tentato omicidio di Antonio Valerio, compiuto il primo maggio ‘99; del lancio di un ordigno esplosivo nel bar ‘Pendolino’, avvenuto nel dicembre del ’98, che ha provocato 14 feriti”.

I quattro episodi fissano sul calendario uno dei periodi più oscuri della storia di Reggio Emilia: sei mesi nei quali le pistole spararono e le bombe esplosero senza che neppure i protagonisti delle storie criminali di ‘ndrangheta insediati stabilmente in provincia capissero bene il chi, come, perché.

Le confessioni del collaboratore di giustizia Antonio Valerio al processo Aemilia tornano spesso su quei fatti, aggiungendo dubbi e inserendo nuove ipotesi che sarà dovere verificare perché l’alternativa che emerge su quell’esplosione di violenza non è da poco.

Fu l’assalto, forse tardivo e disperato, del gruppo Vasapollo Ruggiero al fortino reggiano sempre più solido dei Dragone Grande Aracri, come diamo per scontato dalla lettura storica delle indagini e dei processi?

Oppure si trattò di una abile strategia di “destabilizzazione”, messa in campo dagli stessi uomini del clan Dragone, con l’obbiettivo di portar fuori dal carcere i capi della Famiglia, Antonio e il nipote Raffaele, come pensò allora e ricorda oggi Antonio Valerio?

Partiamo dalla fine, da ciò che racconta il collaboratore di giustizia ai PM tra la fine di giugno e i primi di settembre di quest’anno. Un richiamo c’è anche in aula nell’udienza del 9 novembre, quando il presidente Caruso gli chiede chiarimenti sulla “pistola tedesca che nel 1999 doveva sparare a Reggio Emilia”. Valerio spiega confusamente, alla sua maniera, che temeva ci fosse la mano di Antonio Macrì detto Topino dietro quegli episodi di violenza, con pistole fatte arrivare dalla Germania dove la cosca aveva capacità di rifornimento sulle armi. Ma non spiega mai, in aula, cosa intenda per “destabilizzazione” e quale fosse il fine. Lo fa invece nei verbali degli interrogatori condotti dai procuratori Mescolini e Ronchi.

Dice Valerio il 28 luglio: “Noi eravamo profani e non capivamo cosa stesse succedendo, ma lui, Nicolino Grande Aracri, anche se è in galera lo ha intuito che cos’era. Loro creano questa destabilizzazione…”

“Loro chi?” chiede Mescolini.

“I Dragone. E Topino Macrì. Per quale motivo? Per fare uscire il Dragone di galera. Che si vociferava che doveva uscire però non usciva mai, sto cristiano. Quindi c’era bisogno di un input forte per poter dire: signori, qua c’è il male, c’è la malattia, e qua c’è la medicina. Mi fai uscire? Il gioco era quello lì, un dare per avere. Secondo la loro logica ci poteva essere una trattativa.”

Ma con chi, viene da chiedersi e gli chiede Marco Mescolini. Valerio sguscia via come spesso fa e non risponde immediatamente, ma sul tema si torna più avanti lo stesso giorno e in altri interrogatori, dando più concretezza all’idea di una strategia in tre fasi.

Primo, creo scompiglio e morte; secondo, offro i nomi degli autori di questo macello e la promessa di smetterla; in cambio, terzo, ottengo indulgenza verso i nostri capi in carcere.

Se non è trattativa Stato/mafia questa, poco ci manca.

Aggiunge Valerio lo stesso 28 luglio: “Topino aveva fatto accordi con Bonaccio per fare dei baratti e avere, come dire, dei reali e concreti accordi con le forze dell’ordine, come per barattarsi la galera. Cercavano di barattarsi la galera facendo questa destabilizzazione su a Reggio Emilia. Cioè praticamente cercavano di fare questi atti forti per poi dire: c’è questa pistola che spara, noi ti facciamo trovare o ti diamo la soluzione, e in cambio…”

L’urgenza di fare uscire Raffaele Dragone dalla galera è spiegata in modo molto chiaro: “Raffaele era diabetico, aveva dei problemi a livello detentivo. C’era la paura che non superasse la questione, che poteva collaborare. O come Mimmo Lucente che dopo la condanna definitiva si impiccò in cella. Quindi erano due le alternative: o collaborava e accusava i suoi parenti o…”

Ronchi: “O ci uccideva”.

Valerio: “Sì, e lui aveva pensato di uccidersi”.

Collaborare, per Raffaele Dragone, avrebbe significato dire nomi e cognomi di chi partecipò agli omicidi eccellenti avvenuti a Reggio Emilia nel 1992: Antonio Vasapollo e Giuseppe Ruggiero. Per entrambi i delitti erano in carcere come mandanti lo stesso Raffaele Dragone e Domenico Lucente, condannati in via definitiva all’ergastolo nel 1997, senza che si conoscessero gli esecutori materiali. Morto Lucente, solo Raffaele poteva fare quei nomi; da qui l’ansia di farlo uscire di galera, perché i nomi identificavano pezzi da novanta. Sono emersi solo ora dall’inchiesta “Aemilia 1992” avviata dopo le deposizioni dei pentiti Angelo Salvatore Cortese e Antonio Valerio: tra gli altri c’erano Nicolino Grande Aracri e Nicolino Sarcone.

Fare uscire Raffaele Dragone era dunque importante ma in un altro interrogatorio, quello del 28 giugno, Valerio spiega che l’obbiettivo era fare uscire anche il capo assoluto, Antonio Dragone: “Doveva uscire Antonio Dragone, giusto. Ecco perché io usavo la parola destabilizzazione, per poi vendere chi ha fatto l’azione e far risolvere la questione per poi avere un premio, fare uscire Dragone, perché Dragone doveva uscire ma non usciva mai. Quindi questa era una forzatura come per dire: mandiamo qualcuno al macero, facciamo fare dei fatti. Perché erano fatti a casaccio, non c’era un legame l’uno con l’altro.”

Ronchi: “Questi fatti, sono l’omicidio di Abramo Giuseppe, l’omicidio Truzzi, l’attentato al bar Pendolino?”

Valerio conferma e aggiunge: “Non c’è nessun legame. Ecco perché la mia acrobazia mentale mi porta… ad un ragionamento molto più ampio. Poi, se contorto, tante volte a pensare male ci si azzecca. E tante volte ci ho azzeccato”.

La dottoressa Ronchi gli chiede se questo ragionamento lo fece anche allora e se lo condivise con qualcuno. Valerio le risponde ricordando i giorni in ospedale, dopo il tentato omicidio di maggio ad opera di Paolo Bellini dal quale scampò miracolosamente: “Ci ho provato a condividerlo, ma mi sono fermato subito. Perché vennero ad interrogarmi quelli dello Sco di Roma (il Servizio Centrale Operativo dell’Anticrimine) nella persona di Francesco Gratteri che mi fa delle domande da cui capisco che ero intercettato. Io ho paura che potessero attentare a mio fratello e a mia moglie, e allora mi diedi disponibile e gli dissi i passaggi quali erano. Ma io non volevo collaborare; mi interessava solo vendermi Bellini, ecco, detta come va detta. E l’ho venduto”.

Francesco Gratteri, per inciso, dovrebbe essere l’ex direttore dello Sco condannato definitivamente a quattro anni per le violenze sui no global alla scuola Diaz in occasione del G8 di Genova nel 2001.

Valerio ebbe dunque paura, allora, e dopo l’attentato si tenne per sé le riflessioni sulla trattativa. Che tira fuori nuovamente solo oggi dopo il pentimento, durante gli interrogatori estivi, senza farne poi alcun accenno in aula.

In questo lungo mese di deposizioni in videoconferenza Antonio Valerio ci ha abituati a dichiarazioni non sempre coerenti o verificabili, nonostante la struttura della sua narrazione sia molto attendibile ed abbia già prodotto effetti concreti come appunto i nuovi rinvii a giudizio per gli omicidi del 1992.

Un modo per valutare la sua teoria della trattativa può essere allora quello di compararla ai fatti certi che accaddero dopo quel periodo di sangue.

Partendo dalla rapidità delle indagini: il primo maggio c’è il tentato omicidio di Valerio, il 6 giugno c’è l’arresto di Bellini, Vasapollo e Bonaccio.

“Il primo a fare il nome di Bellini agli inquirenti sarebbe stato nientemeno che Raffaele Dragone” racconta il giornalista Domenico Policastrese sul “Crotonese” nel dicembre 2001, riferendosi all’interrogatorio del boss effettuato nel carcere di Sollicciano a Firenze dal sostituto procuratore Maria Vittoria De Simone. “Dragone avrebbe detto chiaramente di indagare su Bellini”.

E Giulio Bonaccio? Come fa uno degli autori del progetto di trattativa ad essere arrestato per i fatti di sangue di cui è ideatore? Nessuno “manda al macero sé stesso”, per usare l’espressione di Valerio. Ma Bonaccio non lo incastra Dragone dal carcere; è una microspia messa sull’auto di Bellini, che parla sempre troppo, a portare la polizia su di lui. Bellini è insieme a Vasapollo il 3 giugno del 1999 e si dice preoccupato del fatto che i Dragone abbiano capito chi sta cercando di sterminarli, perché per Bellini il lavoro sporco di quei mesi è indirizzato proprio a fare fuori i Dragone. Parla dell’agguato contro Valerio e dice: “Gli sono arrivato a dieci centimetri dalla testa. Eh, si vede che non era la sua ora. L’ho detto a Giulio”. E Giulio, cioè Bonaccio, finisce così incastrato.

Ma l’arresto è una cosa, il processo un’altra. Nel luglio del 2002 Bellini viene condannato dalla Corte d’Assise di Reggio Emilia a 23 anni, Vincenzo Vasapollo a 14, mentre Bonaccio si prende solo 20 mesi per il possesso di un silenziatore da pistola. Il 21 novembre di un anno dopo la corte d’appello di Bologna cambia la sentenza in una condanna a 13 anni e 8 mesi e Bonaccio, prima libero, si costituisce dopo 11 giorni di latitanza. Il 21 gennaio 2005 arriva la sentenza definitiva della Corte di Cassazione che annulla la condanna d’Appello e annulla anche quella di primo grado per il silenziatore. Giulio Bonaccio, uno dei presunti autori della trattativa, torna definitivamente libero.

Liberi a quella data sarebbero anche Raffaele Dragone, figlio di Antonio, lo stesso Antonio e l’ideatore della trattativa Topino Macrì, se non fossero tutti e tre morti. Il figlio Raffaele viene ucciso il 31 agosto 1999 a Caravà di Santa Severina nel crotonese, lontano dal carcere. Sono passati solo quattro mesi dall’attentato a Valerio che chiude la stagione di sangue a Reggio. Il padre Antonio esce nel dicembre 2003 e viene freddato il 10 maggio del 2004 mentre sta percorrendo la vecchia statale che da Cutro scende sulla costa a Steccato, a bordo della sua Lancia blindata. Il suo corpo verrà ritrovato nei campi vicino all’auto con il colpo di grazia sparato da una pistola in mezzo agli occhi. Nell’agosto del 2000 scompare Antonio Macrì detto Topino, seppellito sotto 17 metri di terra, sapremo poi, perché il cadavere non venisse mai ritrovato.

Tutti e tre erano liberi, con o senza il patto tra ‘ndrangheta e forze dell’ordine di cui parla Valerio negli interrogatori. Ma tutti e tre non avevano fatto i conti con il nemico che si erano allevati in casa: il signor Nicolino Grande Aracri. “Nicolino per l’anagrafe e per i giornalisti” dice Valerio, “ma Nicola per tutti noi. Perché al boss non ci si può rivolgere con un  vezzeggiativo”.

 

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