LA CRIMINAL POP E IL PROBLEMA VALERIO

25 Ottobre 2017

Paolo Bonacini, giornalista

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“Ok Huston, qui abbiamo un problema”

Ricordate la frase pronunciata il 14 aprile 1970 dal comandante dell’Apollo 13 in rotta verso la Luna? Fu resa famosa dal film di Ron Howard del 1995 sul pericoloso rientro della navicella dopo una esplosione nello spazio.

Per analogia possiamo dire, mentre volge al termine nel processo Aemilia la testimonianza in aula del collaboratore di giustizia Antonio Valerio: “Ok Reggio Emilia, qui abbiamo un problema”.

Il problema per la città è lui; è la necessità di comprendere quanto siano veri e verificabili i suoi racconti che ci propongono una ‘ndrangheta reggiana molto più attiva ed introdotta (nell’economia, nel mercato del lavoro, nelle strategie politico/amministrative, nei fatti di sangue) di quanto lo stesso impianto accusatorio del processo ipotizzasse.

Il problema per la Direzione Distrettuale Antimafia che deve eventualmente aprire nuovi filoni d’indagine è capire quanto sia attendibile la “Criminal Pop” dalla quale attinge spesso Valerio, soprattutto nelle sue schermaglie al fioretto con gli avvocati difensori che conducono in questi giorni il controesame.

Cominciamo col chiederci cos’è la “Criminal Pop”, espressione che suona bene in bocca al pentito. Sa tanto di incrocio tra la “Criminalpol” che si occupa dei collaboratori di giustizia, dunque anche di lui, e la “Pop Art” che legge la società dei consumi con i filtri della creatività.

Valerio usa il termine almeno tre volte durante le sue confessioni estive ai PM Mescolini e Ronchi, e ne richiama il contesto di riferimento almeno cento volte in aula durante le risposte a chi lo interroga.

Il 30 giugno sta spiegando ai procuratori antimafia chi e perché delle persone a processo è appartenente alla cosca. “Michele Bolognino è uomo di ‘ndrangheta” dice, e aggiunge che la cosa si sapeva, che glielo confermarono Nicolino Sarcone e Gaetano Blasco, che Bolognino era salito di valore e di grado perché aveva sposato una nipote di Mico Megna. E precisa: “La vox populi che girava nella Criminal Pop era questa”.

Criminal Pop, uguale: ambiente criminale, voci di corridoio, dialoghi in carcere, passaggi di informazioni tra affiliati, sguardi, capannelli, silenzi. Quasi un gazzettino della ‘ndrangheta a parole e gesti, senza pagine scritte, senza date e riscontri oggettivi, ma con un realismo di fondo indiscutibile per chi ci tiene ad aggiornarsi sulle evoluzioni della Famiglia se vuole campare a lungo.

Dice ancora Valerio riferendosi all’espressione appena pronunciata: “Usiamo termini moderni, in modo che capiate che siamo davanti ad una mafia molto evoluta”.

Criminal Pop. E’ quasi il nome ideale di una testata giornalistica. Un “Eco della ‘ndrangheta” che per ovvie ragioni non si compra in edicola ma si ascolta con le orecchie tese a ciò che sussurra la comunità degli affiliati.

Che la Criminal Pop non racconti bufale lo dice, stando proprio alla velina su Bolognino, l’operazione Calypso che nel 2010 svelò i legami tra la Sacra Corona Unita pugliese e la ‘ndrangheta calabrese. Il collaboratore di giustizia Ercole Penna, uomo di spicco del potente clan che operava a Mesagne in provincia di Brindisi, detto “Linu lo biondu”, raccontò che spacciava cocaina e hashish assieme ai capi della Sacra Corona: Daniele Vicientino, Massimo Pasimieni e Antonio Vitale. Per la merce si rifornivano in Albania e ancora più spesso in Calabria, dalla ‘ndrina di Papanice guidata da Domenico Megna detto “Mico”. Gli avevano ammazzato il figlio nel 2008 a Mico, e ferito gravemente la piccola figlia di cinque anni, inaugurando una scia di morti incrociate che riempì le cronache per anni. I Megna sono fratelli di sangue dei Mesagnesi, secondo Ercole Penna, e i rapporti risalgono “alla mia detenzione nel carcere di Foggia dove conobbi il nipote di Mico Megna, Michele Bolognino, che fu poi trasferito a Bologna dove conobbe anche Vicientino. Più volte poi Vicientino mandò i suoi ragazzi in Calabria per ricevere stupefacenti dagli affigliati ai Megna”.

La Criminal Pop non mente e a volte mette in gioco le vite delle persone. E’ lei a diffondere la voce del contrasto tra Palmo Vertinelli e Nicolino Grande Aracri sull’asta pubblica per l’affare immobiliare di Le Castella, ad Isola Capo Rizzuto. I Vertinelli vincono ma il boss non gradisce e farà capire alla famiglia di Montecchio che la sua ascesa ai vertici della ‘ndrangheta cutrese non ammette concorrenza interna. Dice Valerio il 5 luglio: “Qual è la verità? E’ che il Vertinelli non dava credibilità alla famiglia Grande Aracri, nel senso di autorità giù in Calabria, perché nella Criminal Pop Le Castella stava sotto Isola. E ad Isola, ma non solo ad Isola, in tutto il crotonese, la famiglia per eccellenza, per antonomasia, era quella degli Arena”.

Palmo Vertinelli commise allora un errore a sfidare Nicolino Grande Aracri, e gli andò grassa di non aver pagato quella sfida con la vita. Se la Criminal Pop fosse stata aggiornata, forse quel rischio non l’avrebbe corso.

E allora sarà bene andare a verificare la terza notizia pubblicata da Valerio durante l’interrogatorio del 5 luglio scorso, quando si parla di una famiglia che contende ai Muto il record di affiliati e parenti dallo stesso cognome: gli Arabia.

“Ci sono quattro fratelli” racconta il maresciallo Emidio D’Agostino in aula il 20 aprile 2017, titolari della ditta Artedile srl di Quattro Castella: Pasqualino, Salvatore, Antonio e Giuseppe Arabia. E’ la società messa sotto accusa dall’indagine Grande Drago della Direzione Antimafia di Catanzaro nel 2004 perché ritenuta a disposizione del boss Antonio Dragone, ucciso il maggio di quell’anno. La figlia di Giuseppe Arabia, Filomena, ha sposato Giambattista Di Tinco, 42 anni, nativo di Reggio Emilia, nelle grazie di Nicolino Grande Aracri, titolare di una sfilza di società che hanno operato nella nostra provincia e delle quali racconta il collaboratore Giuseppe Giglio facendo l’elenco delle aziende a disposizione per gli affari: DG Service con sede a Calerno, Immobiliare Il Tiglio srl, Nuova Caffetteria Roma sas, Gemma Immobiliare srl, Arte Block snc, solo per citarne alcune.

Tra i fratelli amministratori c’è un Antonio Arabia che vive nel mantovano, arrestato nel 2008 per avere tentato di uccidere a coltellate a Reggio Emilia un 28enne rivale in amore. C’è un Salvatore Arabia ucciso a 38 anni il 20 agosto del 2003 a Steccato, la spiaggia di Cutro, dove d’estate gestiva un chiosco di bibite. D’inverno viveva invece a San Bartolomeo tra le nostre nebbie. Poco prima delle 10 di sera aveva chiuso il chiosco quando due uomini in moto con i caschi lo avvicinarono e gli svuotarono addosso l’intero caricatore di una calibro 9. Aveva moglie e tre figli.

La Criminal Pop, parlando di quelle storie, dice che la famiglia Arabia e la famiglia Brescia erano molto intime e amiche anche perché, sottolinea Valerio, a Cutro “Chi è che non ci si conosce attraverso i padri, i nonni, i bisnonni? Siamo tutti parenti, perché Cutro nasce sulle quattro case fatte con le tavole di legno”.

E sempre la Criminal Pop informa dell’omicidio non si sa di chi e forse neppure commesso da chi, giù a Reggio Calabria, ma sempre legato a Reggio Emilia: “Arabia (Valerio non dice il nome ma a volte lo chiama “petti i palumba”) dava del filo da torcere a tutti qui. Era il luogotenente di Totò Dragone. In quel periodo c’erano lui e Turrà, Roberto intendo, e presero quota sia l’uno che l’altro. E Turrà gli fece un omicidio… di impeto lo fece.”

“E che omicidio era questo?” gli chiede il maresciallo D’Agostino che partecipa all’interrogatorio del 5 luglio.

“Non lo so! Io non seppi mai chi fu la persona. Però nel Criminal Pop si diceva così: che fu ucciso perché inveiva sull’Arabia Salvatore (quello ucciso a Cutro) e allora lui gli sparò un colpo in testa a questo qua. E non so se occultarono il cadavere o che cosa. Ma so che gli spararono”. Chi è il lui che sparò, se Arabia o Turrà, non è chiaro dai verbali.

Ce n’è insomma, di materiale per il lavoro della DDA, che esce dalla memoria di Antonio Valerio e dagli archivi della Criminal Pop.

Nelle ultime udienze, specialmente in quella di martedì 24 ottobre, gli avvocati difensori (dei fratelli Vertinelli, di Brugnano, Cannizzo, Silipo, Iaquinta, Amato, ecc.) incastrano spesso Antonio Valerio sulla sua incapacità di ricordare con precisione date, luoghi, numeri, fatti certi alla base delle sue affermazioni. E ne nascono battibecchi che il presidente Caruso fatica a sedare, come quando Valerio, messo alle corde dall’avvocato Migale che gli chiede dettagli delle sue affermazioni, replica accusando lo stesso avvocato di avergli rivolto la parola per conto di un altro imputato mentre era dietro le sbarre ad una precedente udienza. Cosa “illegale”, sbotta il PM Mescolini, e la faccenda potrebbe avere conseguenze future.

Scintille a parte, i frequenti “non so” e i “non ricordo” di Valerio sono comunque spesso controbilanciati dalla forza della sua narrazione complessiva; dal valore di questa Criminal Pop di sottofondo alla quale lo stesso presidente Caruso accredita una legittimità giuridica quando sostiene, in sostanza, che esiste una consolidata giurisprudenza sul valore delle informazioni che circolano in un determinato ambiente criminale e di cui vengono a conoscenza i partecipanti a quell’ambiente.

Se così è, ci sono tanti aspetti della narrazione di Valerio sui quali non si potrà passare sopra alla leggera. Dal lavoro nero e dalle pratiche diffuse di caporalato in edilizia alla corruzione di funzionari cooperativi, dai favori fatti a quelli ricevuti all’interno del Comune a Reggio Emilia, dalle porte aperte al riciclaggio negli sportelli bancari e postali ai delitti violenti e in alcuni casi anche mortali di cui prima non si era a conoscenza. Il 30 giugno, mentre ancora descrive negli interrogatori riservati ai PM le caratteristiche criminali dei protagonisti del processo, dice Valerio parlando del suo rapporto con Eugenio Sergio: “Lui partecipa a tutto con me: andiamo a picchiare gli Arena, scende giù con me anche da coso, giù a casa di Nicolino Grande Aracri, viene ad incendiare tutto quanto. Sembriamo Nerone a Reggio Emilia, sembriamo”.

E siccome Nerone non scherzava con gli incendi, ci sarà da guardare bene anche cosa e quanto hanno bruciato assieme Valerio e Sergio.

Toccherà a nuove indagini farlo, come già hanno fatto in due casi riscontrando la veridicità delle affermazioni di Valerio. Gli omicidi commessi a Reggio nel 1992, per i quali sono ora imputate altre tre persone già in carcere (tra cui Nicolino Grande Aracri), e la catena di legami parentali della moglie del sindaco di Reggio Maria Sergio, verificata attraverso le ricerche negli uffici anagrafici.

Mentre la Direzione Antimafia lavora, e visto che anche il procuratore capo di Bologna Giuseppe Amato ritiene “assolutamente affidabile” Antonio Valerio, non sarebbe male se anche centri importanti di governo e di gestione della comunità locale si dessero da fare nel capire se, quando e chi è rimasto coinvolto in affari con la ‘ndrangheta negli anni passati, prendendo spunto dalle dichiarazioni del collaboratore. Non dovrebbe essere difficile risalire ai due geometri delle cooperative Rinascita e Coopsette che ricevevano regali in cambio di lavori, ammesso che sia vero, per sapere se agivano per conto proprio o dentro un sistema più articolato. E cercare anche di capire cosa avessero a che fare Vincenzo Marchio e Luigi Spagnolo tra il 1998 e il 2000 con le cooperative Unieco, Coopsette e San Possidonio, tutte e tre poi chiuse o fallite. I due secondo Valerio sono degli “Sfaticati. Uno dava soldi a strozzo, l’altro giocava a carte. E stavano sempre al bar Pendolino di Carmine Romano. Mi hanno fatto conoscere Antonio Guerriero, uno di Napoli, ed ho fatto dei lavori per loro che erano ben inseriti nelle cooperative. Ho lavorato a costruire l’hotel Ramada, alle vasche dell’Agac a Mancasale. Poi avevano gli appalti per i Mc Donald di Reggio e di Parma, per le Rsa”. La cosa interessa alla Lega delle Cooperative?

Analogamente non dovrebbe essere difficile capire se davvero l’impresa di un consigliere comunale di Reggio Emilia ingannò la pubblica amministrazione nel 2008, fornendo attestazioni non vere per ottenere un certificato di conformità edilizia e di agibilità, come sostenuto dalla procura di Reggio che lo rinviò a giudizio, oppure quel certificato arrivò come sostenuto da Valerio per gli aiuti più o meno leciti che l’ente locale era solito concedere allora a certe imprese edili amiche. La cosa interessa all’attuale amministrazione?

Intanto Antonio Valerio ha altri problemi e chiede alla dottoressa Ronchi il 5 luglio scorso: “Ma quanti anni di carcere mi sto tirando addosso con le cose che racconto?”

Risposta: “Meno di quanti se ne sarebbe tirato se non si fosse pentito”.

Commento finale del Nerone collaboratore di giustizia: “Quante vite devo avere per scontare…”. Sottinteso: le mie colpe.

 

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