LA COMUNITA’ REAGISCE

6 Giugno 2017

Paolo Bonacini, giornalista

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L’incontro promosso dalla CGIL regionale nell’aula magna dell’Università di Reggio aveva un titolo di quelli che fanno ben sperare: “La comunità reagisce”. Reagisce alle infiltrazioni mafiose, si intende, alla penetrazione della ‘ndrangheta nei nostri territori.

E quando, per richiamare alcuni termini efficaci usati dal segretario provinciale Guido Mora, “c’è una guerra in corso” e più che di “infiltrazione” si dovrebbe parlare di  “insediamento”, di “integrazione”, reagire è d’obbligo per non perdere la battaglia.

Sul titolo tutti d’accordo, quindi, nella lunga maratona di interventi di lunedì 5 giugno: il segretario generale della CGIL Susanna Camusso, quello regionale Luigi Giove, Guido Mora, il sindaco di Reggio Luca Vecchi, il presidente della provincia Giammaria Manghi, il presidente della regione Stefano Bonaccini, lo scrittore Enzo Ciconte, il giornalista Michele Albanese e la segretaria della CGIL di Modena Manuela Gozzi a coordinare l’incontro.

I distinguo e soprattutto le differenti sottolineature di alcune delle tante facce del problema sono venuti naturalmente con le riflessioni che ciascuno ha proposto, partendo da ruoli e sensibilità differenti ma cercando anche, in questa occasione più che in altre, di trovare la strada comune per combattere il fenomeno mafie al nord.

C’è chi, come Bonaccini e Manghi, ha voluto sottolineare soprattutto ciò che i rispettivi enti “hanno fatto” in questi anni e per lo svolgimento a Reggio del processo Aemilia; chi, come Luigi Giove ed anche come il sindaco di Reggio Luca Vecchi, ha messo invece in luce ciò che “non è stato fatto”. Chi ha infiammato la platea, il giornalista del “Quotidiano del Sud” Michele Albanese, minacciato dalla ‘ndrangheta e sotto scorta, dicendo una cosa semplice e straordinaria allo stesso tempo, che dovremmo fare nostra a Reggio Emilia: “Vivo e voglio tornare al mio lavoro di giornalista in Calabria. Dovrei forse andarmene via io dalla mia terra, per paura o per convenienza, o se ne debbono piuttosto andare i mafiosi che l’hanno avvelenata? Io resto qui a combattere, come i nostri nonni restarono a combattere sulle montagne contro l’invasione nazista”. Più chiaro di così…

Cosa “Non abbiamo fatto”?

Abbiamo vissuto anni, dice Giove, durante i quali molti settori delle nostre comunità erano impegnati più a scongiurare il “rischio allarmismo” che a combattere l’illecito e la “domanda” di illecito nella nostra regione. Con la sola preoccupazione di salvaguardare (con un metodo sbagliato) la nostra immagine, la nostra economia, le nostre istituzioni.

Irregolarità e furbizie per evadere le norme ed abbattere i costi erano note in tutta la filiera dell’edilizia, ma anche nel comparto della macellazione e della trasformazione delle carni, anche nella logistica, nei trasporti, nel facchinaggio. E la malavita organizzata si è inserita con facilità in queste logiche, anzi: “molte imprese” dice il segretario regionale “non hanno subito la ‘ndrangheta, ma le hanno chiesto favori”. Arriva di conseguenza una domanda, che Luigi Giove manda a chi non è nell’aula magna e non si vede mai neppure al processo: “Perché le aziende che risultano colluse con la ‘ndrangheta non vengono espulse dalle associazioni imprenditoriali? Perché nessuno lo chiede?” Gli farà eco più tardi Susanna Camusso: “Immaginate cosa scriverebbero se un dirigente sindacale venisse implicato in storie di mafia. E allora perché di un dirigente nazionale di Confindustria indagato per collusione nessuno ne parla?” Il riferimento è presumibilmente ad Antonello Montante, presidente degli industriali di Sicilia.

“Cosa non abbiamo fatto” è il filo conduttore anche dell’intervento di Luca Vecchi, meno istituzionale, meno “sulla difensiva” di quanto detto in gennaio in occasione del passaggio da Reggio della Mehari di Giancarlo Siani. Vecchi allora, in un analogo convegno, si concentrò sulle cose messe in campo dalla propria amministrazione; oggi va oltre e confida di possedere un livello di consapevolezza del problema molto più alto di quanto non fosse tre anni fa al suo insediamento in Municipio. “E’ dalla esperienza quotidiana che matura la consapevolezza” dice, e se questa coscienza sta piantando radici a Reggio Emilia un merito grande va riconosciuto all’azione forte e rigorosa della Prefettura (quella guidata durante gli anni della inchiesta Aemilia da Antonella De Miro) che ha saputo creare “quella discontinuità dalla quale nascono cultura e appunto consapevolezza”. Vecchi apre le braccia alla collaborazione, citando due nomi impegnativi del passato: “Se Moro e Berlinguer avessero usato la lotta alla strategia della tensione per farsi battaglia politica, avrebbero distrutto il paese. La sfida per tutte le istituzioni e le rappresentanze è dunque quella del combattere assieme.”

E infine propone un terreno di discussione e di riflessione fino ad oggi tabù: “la comunità calabrese che vive nella nostra città”. L’immigrazione forte degli ultimi decenni non è stata gestita correttamente, dice; si è creata una comunità dentro la comunità con insufficienti livelli di integrazione e il rischio è che oggi la lotta alla ‘ndrangheta crei un solco profondo tra reggiani e calabresi d’origine. La parte migliore di quella comunità calabrese, le migliaia di persone che vivono e lavorano qui onestamente, debbono uscire allo scoperto e condividere con la parte migliore della comunità di origine reggiana l’impegno per la convivenza civile.

E un obbiettivo a pensarci bene per niente impossibile: basta applicare le tre parole d’ordine che il presidente della regione Bonaccini indica come direttrici dell’azione amministrativa ma che valgono anche e soprattutto nella vita quotidiana delle persone: onestà, sobrietà, rispetto delle regole.

O per meglio dire: “Legalità”.

Quella legalità che “viene prima” delle altre cose, segnala in conclusione Susanna Camusso richiamando una campagna della CGIL. Quando non c’è legalità non c’è libertà e non si può parlare di diritti del lavoro.

“Parole come capolarato o sfruttamento non sono retaggi del passato” dice il segretario generale “ma realtà del presente che vanno spesso d’accordo con le attività della criminalità organizzata”.

Legalità al contrario è difesa della democrazia e applicazione delle regole. E allora, conclude Susanna Camusso, per passare dalle parole ai fatti, “aspettiamo tutti a Roma il 17 giugno alla manifestazione nazionale in difesa del lavoro e dei diritti”.

Perché legalità significa avere “Rispetto!” (è la parola d’ordine) per il lavoro, per la democrazia, per la costituzione. Cambiare invece le norme per impedire il referendum ma poi ricambiarle per reintrodurre i voucher non è la strada giusta per camminare nella legalità.

La lotta alla ‘ndrangheta, dice il suo appello finale, passa anche da qui.

 

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