LA BIRO NERA

3 Ottobre 2017

Paolo Bonacini, giornalista

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La telecamera che ci mostra di spalle Antonio Valerio, durante la sua deposizione nell’aula bunker del tribunale reggiano, non ci permette di vedere con che biro il collaboratore di giustizia scriva i suoi appunti sopra i fogli bianchi che ha davanti. Ma possiamo scommettere che si tratti di una biro blu.

Il motivo è presto detto.

Nella tarda mattinata del 7 luglio scorso, mentre raccontava ai PM Marco Mescolini e Beatrice Ronchi come si può imbastire una truffa da 2,8 milioni di euro con la interessata compiacenza di bancari, imprenditori e agenti immobiliari, Antonio Valerio si lasciava andare ad una sorprendente riflessione: “Ho cambiato il colore della biro perché ormai ‘sto nero non lo sopporto più. Faccio tutto in blu. Non riuscivo a leggerlo l’altra volta il nero”.

Perché il nero nella sua vita, pare di capire, ha raggiunto il livello di saturazione. Incassi, pagamenti, riscossioni, debiti e crediti, operazioni bancarie, fatturazioni: tutto sempre regolato con false operazioni e “in nero”. Tutto per creare o togliere disponibilità finanziarie immediate e per contante.

La frase esatta che dice Valerio, riferendosi ad un non meglio precisato “venditore della villetta in via Guibichi” (che io immagino sia in realtà via Wybicki a Rosta Nuova) è: “Lui ha preso del nero e me lo aveva girato a me. Ecco perché ho detto che il nero ormai non lo posso avere più. Scrivo blu. Neanche riesco a leggerlo questo nero. Detesto pure il nero, adesso”.

Al di là del colore (blu o nero con cambia la terrificante sostanza dei fatti narrati) questa curiosa precisazione di Valerio ha il pregio di riportarci alla sostanza delle cose: al vero obbiettivo di tutta questa folle storia di mafia, ammazzamenti e colonizzazione del nostro territorio che ha segnato gli ultimi quarant’anni della nostra vita.

I soldi.

Per fare soldi e per moltiplicare i soldi, la ‘ndrangheta sfrutta e utilizza ogni mezzo illecito. Per intercettare soldi, o i piaceri che i soldi garantiscono, un numero imprecisato ma scandalosamente grande di persone all’apparenza insospettabili cede spesso e volentieri alle sue lusinghe (della mafia).

Solo per stare alle dichiarazioni dell’ultima udienza di martedì 3 ottobre, con i soldi, oliando a dovere due geometri della Cooperativa Rinascita prima, e della Coopsette dopo, Luigi Muto ottiene i subappalti delle grandi cooperative, dice Valerio. Per i soldi, in quella truffa milionaria raccontata il 7 luglio, stimati manager e colletti bianchi cedono al canto delle sirene mafiose. Per generare nuovi soldi, grazie all’allargamento di un mercato che si amplia togliendo di scena il 50% degli operatori presenti (una delle due famiglie di ‘ndrangheta), tre leader della cosca reggiana: Gaetano Blasco, Nicolino Sarcone e Alfonso Diletto, finanziano con 200mila euro l’omicidio di Antonio Dragone concepito e realizzato in Calabria il 10 maggio del 2004. Significa che il guadagno negli affari, anche in Emilia, si prevede di gran lunga maggiore.

Il racconto di Antonio Valerio si arricchisce di nuovi elementi che vanno a chiudere il cerchio dell’impianto accusatorio costruito dalla DDA di Bologna. Dopo i capitoli del romanzo storico che arrivava a fine secolo, nell’ultima udienza è entrata in scena la “storia contemporanea”, introdotta da quell’omicidio clamoroso che azzoppò i Dragone e incoronò Grande Aracri capo indisturbato di Cutro. I suoi seguaci reggiani divennero di conseguenza liberi di governare le attività della cosca in Emilia per l’intero decennio a venire, quello sotto accusa in Aemilia.

Prima di vedere nei dettagli la struttura e i nomi di questa organizzazione vale però la pena di illustrare in sintesi la storia della truffa, sfiorata a fine udienza nell’ultima deposizione in aula di Valerio, anche per prendere consapevolezza delle tante altre sorprese che potrebbero emergere dalle prossime sedute.

Siamo nel 2009 e stando al capo di imputazione (il n.21) abbiamo a che fare con una usura ai danni di un imprenditore del comprensorio ceramico, Sauro Guidelli, che cerca risorse per pagare i debiti accumulati e si rivolge a Valerio. Gli lascia come garanzia un assegno di 120mila euro (scoperto, altrimenti non avrebbe bisogno dei soldi!) e ne ottiene in cambio 55mila in tre tranche. Per il prestito Valerio pretende la restituzione di 80mila euro, con un tasso evidentemente usuraio. I movimenti degli assegni sono tutti documentati presso le banche d’appoggio dei due: Unicredit e Banca di Credito Cooperativo Reggiano per Guidelli, agenzia 1 di Reggio Emilia del Credem per Valerio.

“Non è vero”, dice Valerio ai PM nell’interrogatorio del 7 luglio (e ribadisce in aula alla fine dell’udienza del 3 ottobre). Questa ricostruzione è falsa e la realtà è ben peggiore.

L’elemento di congiunzione tra lui e Guidelli, racconta il pentito, è un agente immobiliare di nome Antonello Di Carlo, che utilizzando aziende di comodo, tra cui la Andromeda di Guidelli, emette assegni fasulli, che chiama “formaggio avariato”, da portare poi all’incasso (il 70% consegnato immediatamente in contante, senza verificare la copertura dell’assegno) presso sportelli bancari compiacenti. Per realizzare il progetto basta “comprare” qualche dirigente o cassiere di banca.

Le persone giuste, secondo il racconto di Valerio, sono “il direttore della filiale di Novellara di Banca Carifirenze” e un dirigente che “lavora per il Credem, che ha però dei contatti bancari, con dei tecnici bancari, dei direttori e robe varie che avevano voglia di…”

Di che cosa avevano voglia? Basta un pranzo per capirlo.

“Per arrivare al direttore c’è voluto poco”, dice Valerio. Uno del loro gruppo, un certo Bonfrate, aveva dei centri di benessere tra Parma e Reggio, “e portò un paio di ragazze carine e disponibili. E ‘ste ragazze, mentre si pranza, piedino sotto, piedino qua, piedino là, questo qua comincia a perdere il lume della ragione”.

Questo qua è poi il direttore della filiale: “Lo abbiamo lasciato un po’ da solo con le ragazze… poi la questione si porta sopra il ragionamento di aprire un conto bancario ad una società, portare eventualmente sconti fattura, e questo qua che non capiva dove si trovava, e comunque con quel mondo fantasmagorico che si era creato lì, dice: va beh, qual è il problema? Porta la società, la visioniamo, la giriamo, facciamo e voltiamo.”

Il gioco è fatto e la macchina del “formaggio avariato” che diventa denaro contante comincia a girare. Tanto bene che Valerio dice a Di Carlo: “Ma scusa, se noi mettiamo un assegno da 100 e me ne danno 70 subito, allora metti 200 e ce ne danno 140! Scusa, il direttore fa finta di non vedere, il vicedirettore la stessa cosa, il cassiere si piglia pure il suo, voglio dire, ma che ti frega a te.” E così un assegno da trasformare in contante lo fanno pure da 300mila euro e Valerio esce con tanti soldi in tasca da avere paura di una rapina. Cercano addirittura di far passare un assegno fotocopiato, ma questo proprio non si può.

Il risultato? “Alla fine”, dice Valerio, “penso che come danno gli abbiamo fatto alla Carifirenze circa 2milioni e 800mila euro. Ho preso solo io 200mila euro”.

Se la storia di Valerio è vera (contiene anche nomi e cognomi, che aspettiamo di sentire in aula), Sauro Guidelli non è una vittima ma “fino a quel punto lì un ottimo imprenditore, che lavorava per la Cooperativa Muratori Reggiolo, per la Unieco. Lui aveva conoscenze, tantissime, e io” aggiunge Valerio “l’unico vantaggio che potevo avere da lui era che mi presentasse alla Unieco dove speravo di entrare per i ponteggi”.

Se la sua storia è vera cambia anche il profilo di Antonello Di Carlo, che racconta ai Carabinieri di Reggio Emilia la versione dell’usura. Valerio lo dice in aula il 3 ottobre: “E’ venuto a testimoniare il falso.”

In attesa dei dettagli e dei riscontri in aula, torniamo alla storia della ‘ndrangheta reggiana. Nell’udienza del mattino, il 3 ottobre, Valerio inquadra il gruppo che a suo dire ha gestito tutte le attività illecite della cosca negli ultimi dieci anni a Reggio, dal 2004 agli arresti del gennaio 2015.

Una struttura più orizzontale che verticale nei ruoli e nelle responsabilità, sempre legata a Cutro ma molto autonoma nel decidere se e cosa fare, rubare, minacciare, ammazzare…

Ai vertici cita tre nomi: Alfonso Diletto (Bassa reggiana), Francesco Lamanna (capo anche a Cremona e Piacenza), Nicolino Sarcone (Reggio Emilia). Poi tutti gli altri, a scendere, da Gaetano Blasco a sé stesso, da Michele Bolognino ad Antonio Gualtieri, dai fratelli Vertinelli (che cita solo alla fine perché i loro nomi li dava per scontati), a Turrà, Arena, Sergio, Muto, Paolini, Brescia, Iaquinta, Silipo, Cappa, Belfiore, Mancuso e tanti altri.

E’ un elenco straordinariamente simile a quello che si ottiene mettendo assieme i nomi fatti dai giudici per gli arresti di gennaio 2015, quelli dei rinvii a giudizio del rito ordinario nel 2016, quelli delle due sentenze del rito abbreviato di Bologna.

Segno che la DDA ha messo a fuoco con molta precisione l’attività, la misura, la dimensione e i personaggi della cosca emiliana. E’ lo stesso Valerio a riconoscerlo nei verbali: “Vi faccio i complimenti, avete lavorato bene.”

E dire che nelle carte giudiziarie i nomi sono scritti ad inchiostro nero.

Quello che ad Antonio Valerio non piace più.

 

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