IN GALERA!

14 Luglio 2017

Paolo Bonacini, giornalista

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Sono circa le 18 di giovedì 13 luglio quando nel prefabbricato del tribunale di Reggio che ospita il processo alla ‘ndrangheta va in scena la seconda offensiva degli imputati di Aemilia contro il lavoro dei giornalisti che raccontano le udienze. La prima risale al gennaio 2017, quando gli avvocati difensori si fecero portavoce di una singolare richiesta al Tribunale: fuori la stampa e processo a porte chiuse. In subordine, proposta ancora più singolare: al mattino prima del dibattimento leggiamo gli articoli per valutare la correttezza di ciò che è stato riportato.

Una sorta di processo alla stampa da anteporre al processo agli imputati.

Il collegio guidato dal presidente Francesco Maria Caruso rigettò quella richiesta e lo fece, per una fortunata coincidenza, proprio il giorno del ricordo, davanti al tribunale di Reggio, di un giovane e bravo giornalista ucciso dalla camorra napoletana: Giancarlo Siani. La sua auto, una Mehari verde, in quelle settimane percorreva simbolicamente la via Emilia da Piacenza al mare per ricordare a tutti noi emiliano romagnoli che senza una libera informazione non c’è una libera società. E che in difesa di questo valore c’è chi ha pagato con la morte.

Giovedì la replica, dicevamo, in una forma completamente diversa: una sollevazione (apparentemente) spontanea, scatenata durante la deposizione del consigliere comunale Salvatore Scarpino dall’avvocato difensore di Gianluigi Sarcone, Stefano Vezzadini, che ha detto più o meno: “Lo vediamo tutti i giorni anche in questo processo che i giornali scrivono cose non vere; l’ultima è di ieri l’altro”.

A quel punto l’aula di Aemilia è diventata il classico bar della periferia emiliana dove ognuno, mentre si gioca la partita di scopone, dice la sua sulla politica italiana o sulle tensioni internazionali tra Stati Uniti e Russia, alzando anche volentieri la voce e mandando altrettanto volentieri a quel paese chi la pensa diversamente.

A mandare a quel paese, anzi: “In galera!” i cronisti del processo Aemilia, ci hanno pensato gli imputati dietro le sbarre, con gli sguardi e le braccia tesi verso i tre giornalisti in quel momento seduti a prendere appunti (il sottoscritto, Benedetta Salsi di Carlino Reggio, Iacopo Della Porta per la Gazzetta di Reggio). Questo invito/speranza dei detenuti è volato ben chiaro per l’aula, ma Benedetta e Iacopo hanno colto anche un’altra frase che io (un po’ sordo) non ho sentito: “Siete falsi, scrivete articoli falsi”.

Ad uscire dal bar per ritornare nell’aula del tribunale ci hanno pensato alla fine due semplici frasi del presidente Caruso e del PM Mescolini. Il primo ha detto: “Basta” ricordando che ci sono norme e strumenti precisi a cui ricorrere per contestare il contenuto di un articolo. Il secondo ha tirato fuori il semplice buon senso dicendo: “Errori negli articoli ci possono essere ma qui si dà l’idea, inaccettabile, che ci sia una persecuzione degli organi di stampa nei confronti degli imputati”.

Chi non commette errori scagli la prima pietra. Io ho pubblicato sul sito della CGIL (e sul giornale on line 24emilia.it) una quarantina di articoli da quando seguo il processo e di errori ne ho commessi diversi. Di alcuni mi sono accorto io stesso, altri mi sono stati segnalati, ed in entrambi i casi ho provveduto a correggere o ad aggiungere le doverose precisazioni.

Ma di fronte all’accusa: “I giornalisti scrivono cose non vere” (Vezzadini), come fa uno a verificare se e dove ha sbagliato e a correggere? La domanda successiva è di conseguenza: all’avvocato Vezzadini interessa veramente che i giornalisti non commettano errori, che rimedino agli errori eventualmente commessi, o gli interessa semplicemente “sparare nel mucchio”? Vendere l’idea di una informazione “falsa”, visto e scontato che le cronache (vere) delle udienze di Aemilia, con dovizia di dettagli, riscontri e testimonianze, raccontano la presenza reale, diffusa, profondamente radicata, della ‘ndrangheta nei nostri territori declinando nomi e cognomi dei protagonisti di questa storia?

Se all’avvocato, come a qualunque protagonista del processo, interessa veramente ripristinare una verità deformata da un articolo di giornale, perché dice in aula: “L’ultimo articolo falso è stato scritto ieri l’altro”, senza spiegare scritto da chi, su quale testata, su quale argomento e con quali elementi scorretti?

Farebbe un servizio molto migliore al suo assistito (se danneggiato da quell’articolo) indicando i dati precisi del presunto errore e chiedendo una rettifica alla testata. Ma io dopo un anno di udienze non ho ancora sentito (ammetto che potrei sbagliarmi o non saperlo) di una sola richiesta di rettifica su quanto riportato dai giornalisti che seguono il processo. Ho sentito molto bene invece l’auspicio “In galera!” rivolto dai detenuti a noi giornalisti, ed è inevitabile mettere in risalto il paradosso: loro che sono a processo e dietro le sbarre, che vivono con i diritti e le restrizioni garantiti e stabiliti dalla legge, in attesa dei risultati di un giusto processo, hanno già raggiunto all’unanimità il verdetto nei confronti dei giornalisti: “Siete falsi!” e stabilito la pena: “In galera!”. E nell’urlare verdetto e pena sanno benissimo che i giornali li riporteranno rendendo edotta della cosa l’intera comunità.

C’è da augurarsi a questo punto che alla prossima udienza l’avvocato Vezzadini intervenga difendendo con eguale veemenza il diritto dei giornalisti ad un giusto processo senza anticipazioni arbitrarie di sentenze o accuse non provate riferite con parole al vento (le sue) nell’aula di un tribunale.

Ma fermarsi qui sarebbe molto riduttivo perché non è un caso che l’attacco al giornalismo sia arrivato nel momento in cui il teste Salvatore Scarpino, consigliere comunale a Reggio Emilia (oggi dell’MPD, ieri del PD, dal 2004 in sala del Tricolore nelle file della maggioranza) stava mostrando grande difficoltà nel rispondere alle domande del presidente Caruso e del PM Mescolini.

Il suo racconto ha (a mio modesto parere) dell’incredibile. Scarpino ha ripetuto una decina di volte “sono orgoglioso di essere cutrese”, come se questo fosse un dato importante ai fini processuali o per la valutazione del suo operato da consigliere comunale. Se dico che anch’io sono orgoglioso di essere nato a San Maurizio, divento più bravo come giornalista? Oppure l’orgoglio mi giustifica se non pubblico la notizia di un omicidio solo perché l’assassino era nato come me a San Maurizio? Partendo da questo orgoglio Scarpino sostiene che contattò nel 2011 gli altri consiglieri comunali originari della Calabria (Antonio Olivo e Rocco Gualtieri), con loro andò dal sindaco Graziano Delrio, poi con il sindaco e gli altri due andò dal prefetto Antonella De Miro, il tutto per raccontarle che lui, Scarpino, era “molto preoccupato” della relazione 2011 del procuratore generale sull’anno giudiziario nella quale si parlava di ‘ndrangheta facendo riferimento non alle singole Famiglie mafiose ma ai cutresi in generale. Una generalizzazione “inaccettabile” per Scarpino, il quale però non riesce a collocare bene questa relazione, non specifica se si riferisce a quella del procuratore generale presso la Corte di Cassazione Vitaliano Esposito che apriva l’anno 2011, o alla relazione annuale della Direzione Nazionale Antimafia per le attività investigative e repressive sulla ‘ndrangheta, o a quella del procuratore generale presso la corte d’appello di Bologna che apriva l’anno giudiziario. E alla fine ammette addirittura di non averla letta, quella relazione, ma di avere preso per buono un articolo di giornale (non precisa quale) che la riferiva. L’ha preso per buono, quell’articolo, nonostante più avanti racconti di non avere un buon rapporto con i giornali e con i giornalisti dei quali evidentemente non si fida (tranne quando gli consentono di esternare il proprio orgoglio di cutrese). L’ha presa per buona, quell’idea che nella relazione ci fosse un termine che accusava i cutresi in quanto tali, e ci ha costruito sopra una grande campagna politica di difesa della comunità calabrese, arrivando appunto a portare la sua “grande preoccupazione” al Prefetto. Ma le domande impietose del presidente hanno in seguito messo in risalto che Scarpino non aveva, in quegli anni, una analoga “grande preoccupazione” per le manifestazioni della parte mafiosa di origine cutrese che operava a Reggio Emilia. A lui importava di più difendere i cutresi dalle generalizzazioni.

Era talmente preso da questa idea, viene da commentare amaramente, che finiva per generalizzare e per considerare nemici dei cutresi, o dannosi per l’immagine dei cutresi, anche coloro che operavano per la legalità e per l’isolamento del crimine e dei criminali. Quella relazione del 2011 magari raccontava di arresti, condanne, successi nella lotta alle mafie, recupero di beni patrimoniali da restituire alle comunità ferite e saccheggiate, ma aveva la colpa mortale, per Scarpino, di avergli provocato la “grande preoccupazione” di un’ombra gettata sui cutresi tout court, del cui buon nome egli si era erto a paladino.

Il suo infelice pomeriggio non termina però con la propria deposizione perché dopo di lui viene chiamata a parlare Sonia Masini, ex presidente della Provincia di Reggio. Che ricorda benissimo, con dovizia di particolari, date e luoghi, le volte in cui è stata aggredita verbalmente dallo stesso Scarpino, dall’altro consigliere PD Olivo, dall’avv. Migale, dai fratelli Gianluigi e Nicolino Sarcone. Per aver detto, dopo le interdittive e il cambio di passo imposti nella lotta alle mafie dal nuovo prefetto Antonella De Miro, “Cutresi parlate”.

La deposizione di Sonia Masini ha rappresentato un momento significativo del processo ed ha offerto chiavi di lettura importanti dei fatti che hanno segnato la nostra storia recente: meriterà un approfondimento a parte.

E se intanto Aemilia ci aiutasse a smetterla di parlare per “comunità” sarebbe un bene. O si è onesti o si è disonesti. O si è bravi politici o cattivi politici. L’orgoglio per le origini viene dopo e rischia di essere solo un alibi inammissibile.

 

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