IL SALAME DI BRESCELLO

7 Agosto 2017

Paolo Bonacini, giornalista

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In via Carducci a Brescello, a venti metri di distanza dalla casa di Peppone, ci sono gli uffici del patronato INCA/CGIL, aperti ogni giovedì dalle 8,30 alle 12,30. Nei giorni scorsi, mentre il caldo violento della bassa reggiana opprimeva le sponde del Po, un pensionato apriva la porta ed entrava con un sacchetto in mano. E’ uno dei tanti cittadini che si rivolgono all’Istituto Nazionale di Assistenza, i cui servizi spaziano dalla verifica delle posizioni previdenziali alla compilazione degli assegni familiari. Tornava a Brescello dalla Calabria, questo signore settantenne, e si era portato con sé da Cutro il sacchetto che teneva in mano.

“Questo è un presente per te”, dice al funzionario che lo riceve allo sportello, e tira fuori dal sacchetto un bel salame nostrano lungo una ventina di centimetri.

Un bel gesto di cortesia? Il segno di una sensibilità che si va sempre più perdendo nelle relazioni tra la gente?

Può darsi. Ma può darsi anche che quel salame abbia un significato diverso.

In primo luogo perché non siamo in una piazza qualsiasi ma in quella di Brescello, comune in cui “sono emerse forme di ingerenza della criminalità organizzata che hanno esposto l’amministrazione a pressanti condizionamenti, compromettendo il buon andamento e l’imparzialità dell’attività comunale”. Lo scrive il 20 aprile 2016 il Presidente della Repubblica nel decreto che affida per 18 mesi le gestione dell’ente ad una commissione straordinaria composta di tre persone, dopo lo scioglimento del consiglio comunale deciso dallo stesso Presidente due mesi prima, il 24 febbraio.

Poi c’è un secondo problema, per il funzionario che riceve quel salame: chi glielo offre. Ha un legame familiare con Francesco Grande Aracri, che vive come lui a Brescello. E’ un libero cittadino, come peraltro è oggi libero di muoversi lo stesso Francesco, che ha scontato la pena in carcere alla quale era stato condannato per associazione mafiosa dopo l‘inchiesta Edilpiovra. Liberi, ma uno è parente della moglie di Francesco, che a sua volta è pur sempre il fratello del capo cosca Nicolino Grande Aracri.

Il funzionario della CGIL sa chi ha davanti e sceglie di essere cauto: “La ringrazio…” (gli dà del Lei, mentre l’altro gli dà del Tu) “…ma non lo posso prendere”.

L’altro però insiste (in fondo cosa c’è di male a donare, o ad accettare, un salame?): “Prendilo; io mi considero un po’come tuo fratello maggiore. E’ il regalo di un fratello maggiore”.

Ma siccome il funzionario CGIL è cocciuto (benché garbato) nel dire di no, decide lui come risolvere la querelle: lascia lì il salame, sul tavolo del patronato INCA, e se ne va, dopo aver concluso: “E’ per te. Tienilo. E se proprio non lo vuoi, dopo buttalo via”.

I salami vanno tenuti al fresco ma questo è un salame “che scotta”, viene da dire con una battuta. Il funzionario ci pensa un po’ sopra, poi chiama la responsabile di zona a Guastalla, che a sua volta espone il problema al Segretario provinciale della Camera del Lavoro a Reggio.

E alla fine del consulto la decisione (saggia) è di rispedire il salame al mittente con una raccomandata postale e con la motivazione (saggia): “Non è prassi di INCA/CGIL e dei suoi addetti accettare regali per i servizi resi”.

Di riflessioni questa piccola storia (vera) ne stimola tante ma la morale di fondo è abbastanza semplice: in un contesto di lotta alla mafia, in un territorio fortemente condizionato dalla presenza di famiglie e di attività mafiose, le cautele non sono mai troppe. E la cautela che nei comportamenti di un semplice cittadino è governata normalmente dalla coscienza e dall’istinto, negli atti di una istituzione con funzioni pubbliche non può essere lasciata alla sensibilità delle reazioni individuali. Va codificata in regole, protocolli, norme, che garantiscano trasparenza e indipendenza, che tutelino e mettano al riparo dai cedimenti individuali (alle lusinghe come alle pressioni, alle regalie come alle intimidazioni).

Se a questo principio di buon governo (e di autotutela) si fossero attenute le amministrazioni del comune di Brescello almeno negli ultimi due decenni, forse non si sarebbe arrivati allo scioglimento e al commissariamento. Ma nella migliore delle ipotesi sindaci, assessori, giunte e consigli vedevano volare per il paese innocenti salami con le ali, senza porsi il problema del chi e perché li distribuisse con tanta generosità.

Come è scritto nella relazione inviata dalla Prefettura di Reggio Emilia al ministro dell’Interno Alfano il 20 gennaio 2016: “L’atteggiamento iniziale di probabile inconsapevolezza dell’ambiente politico locale si è tradotto col tempo in acquiescenza dalla quale si è poi sviluppata una situazione di vero e proprio assoggettamento al volere di alcuni affiliati alla cosca, nei cui confronti il Comune, anche quando avrebbe dovuto (intervenire), è rimasto ingiustificatamente inerte”.

E più avanti: “La consorteria ‘ndranghetista presente sul territorio ha trovato nel Comune non solo una continuità di indirizzo politico favorevole ma anche una struttura disponibile e non impermeabile al suo volere. Ciò sicuramente per amore del quieto vivere, tradottosi nel tempo in un condizionamento inerte e passivo, ma anche, verosimilmente, per il timore di doversi confrontare con personaggi dallo spessore forte ed impositivo appartenenti alla cosca.”

Per amore del “quieto vivere”, dunque, si scambiavano salami con i Grande Aracri, senza che assessori e sindaci si ponessero grandi interrogativi sul prezzo reale che la comunità locale stesse pagando. Oppure mettendo sull’altro piatto della bilancia, per scacciare questi interrogativi, “il peso non indifferente, sul piano elettorale, che la componente calabrese, parte consistente della popolazione locale, ha rappresentato e rappresenta tuttora a Brescello”, come dice sempre la relazione prefettizia.

L’elenco delle contestazioni è noto. Tralasciando gli elementi che documentano la presenza e l’attività in paese di personaggi legati alla cosca (a partire dalle famiglie di Francesco Grande Aracri e di Alfonso Diletto), la lista del dare e avere (contenuta nella relazione inviata dal ministro Alfano l’8 aprile 2016 al Presidente della Repubblica) tra loro e l’amministrazione comunale è piuttosto corposa. “Ingerenze” della malavita nelle elezioni comunali del 2014, “attribuzione di lavori da parte del comune” a ditte poi colpite da interdittive, “minacce ad amministratori”, capacità della cosca di “acquisire appalti pubblici e privati”, dichiarazioni del sindaco (Marcello Coffrini) di “grande rispetto verso il capocosca locale”, ricambiata da una raccolta di firme a suo favore, “molte delle quali appartenenti a soggetti vicini o contigui alla consorteria”, un consigliere comunale di maggioranza con i piedi in due staffe: “membro della commissione permanente urbanistica del comune e responsabile tecnico di una ditta” (interdetta) che sponsorizzava opere pubbliche. Ma anche un altro sindaco (Ermes Coffrini, padre di Marcello) che teneva pure lui i piedi in due staffe, oltre a tenerli saldamente (per 19 anni) nell’ufficio del primo cittadino. Dal 2002 al 2006 tutelò, per una causa davanti al TAR di Catanzaro, Francesco e Antonio Grande Aracri, che nel frattempo vennero arrestati nel 2003 (Edilpiovra). Erano suoi concittadini, suoi sostenitori, suoi clienti, suoi fornitori per lavori nell’abitazione privata…

Si potrebbe proseguire, ma ancora oggi nel paese di Peppone e Don Camillo in tanti sostengono la “teoria del complotto”, che in epoca di bufale e controbufale trova sempre nuovi adepti in tutto il mondo sui temi più vari. E’ un complotto cinematografico lo sbarco degli americani sulla Luna; è un complotto delle case farmaceutiche la propaganda che i vaccini salvino la vita; ed è un doppio complotto politico l’idea che a Brescello viva un gruppo ‘ndranghetistico e che l’amministrazione comunale ne abbia sottovalutato la portata finendone succube.

La tesi del complotto è sorretta da una argomentazione apparentemente solida: “Se fosse davvero così, se le amministrazioni del comune avessero ceduto alle pressioni mafiose, ci sarebbero indagati, rinviati a giudizio, ipotesi di reato. Invece nessun sindaco e nessun assessore o dirigente del comune ha ricevuto contestazioni penali per i fatti di cui si parla”.

Basta però prendere la sentenza con la quale il TAR del Lazio il 22 marzo scorso ha rigettato la richiesta di annullamento del commissariamento, presentata dall’ex sindaco Marcello Coffrini, per trovare un opposto e ben più solido argomento che sgombera il campo dalla teoria del complotto. Dice il TAR, facendo riferimento ad una sentenza del Consiglio di Stato (2013): “Lo scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose è una misura straordinaria di prevenzione…per rimediare a situazioni patologiche di compromissione del naturale funzionamento dell’autogoverno locale… E’ un atto di alta amministrazione, perché orientato a determinare la tutela di un interesse pubblico, legato alla prevalenza delle azioni di contrasto alle mafie rispetto alla conservazione degli esiti delle consultazioni elettorali”.

Le vicende che costituiscono il presupposto dello scioglimento, dice un’altra sentenza (2011) richiamata dal TAR, “devono essere considerate nel loro insieme… Ne consegue (sentenza del 2014) che assumono rilievo situazioni non traducibili in episodici addebiti personali ma tali da rendere, nel loro insieme, plausibile, nella concreta realtà contingente e in base ai dati dell’esperienza, l’ipotesi di una soggezione degli amministratori locali alla criminalità organizzata e ciò pur quando il valore indiziario degli elementi raccolti non sia sufficiente per l’avvio dell’azione penale o per l’adozione di misure individuali di prevenzione”.

Il senso di questa sentenza firmata dal Presidente Carmine Volpe è chiaro e logico: non è nell’arbitrio ma è nel Diritto, che traduce in norme una primaria esigenza di difesa della legalità, che trova fondamento la possibilità di sciogliere e commissariare un Comune anche in assenza di rilievi penali individuali. Come non era arbitrio ma prevenzione prevista dalla norma la firma delle tante interdittive antimafia da parte del prefetto De Miro.

Fortunatamente in Italia in nome della paura, in questo caso della paura della mafia, “non si possono calpestare le garanzie costituzionali” come ama sottolineare il Procuratore Nazionale Antimafia Franco Roberti. Che poi aggiunge: “Noi siamo riusciti a sconfiggere il terrorismo interno con la sola applicazione del diritto ordinario, senza ricorrere a misure straordinarie né tantomeno a mezzi di coercizione diversi rispetto a quelli già previsti dal codice, o comunque lesivi della dignità umana. E’ bastata la forza del diritto.”

E di certo la normativa italiana, aggiunge il Procuratore, è una delle più moderne ed avanzate in materia di contrasto al terrorismo e alle mafie.

L’atto dello scioglimento del consiglio comunale di Brescello e del commissariamento per mafia non è dunque per il TAR una forzatura legislativa contraddittoria. Si inserisce perfettamente nelle misure di “alta amministrazione” messe a fuoco dai legislatori ed applicate dalle autorità competenti per contrastare un fenomeno malavitoso e di coercizione dei legittimi poteri che sta massacrando l’intera Italia.

Accettare questo principio significa riconoscere il “rigore della legalità” in risposta alla cultura dello “scambio di salami”. Questo dovrebbe essere il tema di fondo della campagna elettorale che si aprirà a Brescello in vista del voto di primavera, quando scadrà la proroga del commissariamento affidato a Michele Formiglio, Antonio Oriolo e Giacomo Di Matteo. Magari accompagnato, come suggerito recentemente dall’avv. Enza Rando, legale di parte civile per Libera al processo Aemilia, da un corso di formazione, sui temi del contrasto alle mafie nella pubblica amministrazione, per il personale dipendente del Comune.

Intanto l’ex sindaco Marcello Coffrini ha fatto ricorso al Consiglio di Stato dopo aver fatto ricorso al TAR e pare intenzionato, se perderà nuovamente, a rivolgersi anche alla Corte Europea. Pare anche intenzionato, se sarà possibile, a presentarsi nuovamente con una sua lista alle prossime elezioni; così almeno hanno detto a me persone a lui vicine.

I diritti non si discutono e Coffrini potrà esercitare i suoi senza ascoltare pareri discordi.

Poi ci sono anche i doveri. Per chi è stato amministratore di cosa pubblica, e volesse riprovarci, il principale dovere, se non altro morale e politico, sarebbe quello di rispettare le sentenze e le decisioni degli organi dello Stato senza soffiare sul fuoco di chi, non gradendo quelle sentenze, grida al complotto.

Perché la teoria del complotto nuoce prima di tutto a chi la professa.

Rende difficile distinguere tra vero e falso, tra legalità e illegalità, tra un salame profumato da affettare in compagnia e un salame avvelenato da buttare nel pattume.

E infine perché complotto chiama complotto. Quello di cui si accusa la famiglia Coffrini: essersi gestita il suo Comune privato per troppi anni, gira da tempo sulle bocche di tanti.

 

 

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