IL LAVORO FERITO

14 Luglio 2017

Paolo Bonacini, giornalista

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I capi di imputazione al processo Aemilia sono 201. Si va dal 416 bis, il più importante (appartenenza ad una associazione di stampo mafioso), a reati contro persone e cose: estorsioni, usure, danneggiamenti, riciclaggio del denaro sporco, frodi fiscali, minacce a giornalisti, possesso illegale di armi, utilizzo illecito di poteri da parte di funzionari pubblici e uomini delle forze dell’ordine, ingiusti profitti, violazioni delle norme sulle misure di prevenzione patrimoniale, commercio di stupefacenti, intestazioni fittizie di società.  Uno spaccato di quanto sia articolata la “ragione sociale” della cosca Grande Aracri in Emilia Romagna e di quanto estesa sia la rete dei “soci di minoranza” saliti sul carro della ‘ndrangheta nel corso degli anni o comunque disponibili a spianarle la strada per tornaconto personale.

Altrettanto folta e articolata è la rete delle vittime e dei danneggiati, che facciamo prima a riassumere nell’insieme della “comunità locale”, violentata e impoverita dai metodi mafiosi e dagli effetti economici delle loro azioni.

Le Parti Offese (semplificando: chi ha subito materialmente la lesione di un diritto tutelato dallo Stato) sono 78; le Parti Civili (i soggetti singoli e collettivi ammessi al processo in quanto “danneggiati”, che chiedono il risarcimento o la restituzione del maltolto) sono 32.

Pochi? Tanti? E’ come chiedersi se il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto, ma certamente un buon numero di enti locali (dieci tra Comuni e Province più la Regione), istituzioni statali, rappresentanze sociali, si sono costituiti; meglio di quanto avvenuto nel parallelo processo Pesci in corso di svolgimento a Brescia sulle infiltrazioni della cosca Grande Aracri nel mantovano e in bassa Lombardia.

Tra le Parti Civili ci sono CGIL CISL e UIL dell’Emilia Romagna e la CGIL in particolare è presente anche con le Camere del Lavoro di Reggio e di Modena, province nelle quali si sono contati i danni maggiori inferti al “lavoro” e alle sue rappresentanze.

La sentenza di primo grado del rito abbreviato, a Bologna, aveva riconosciuto alle Camere del Lavoro (e ai sindacati regionali) un indennizzo tra i 10 e i 15 mila euro, in riferimento ad uno solo di quei 200 capi di imputazione di cui parlavamo: il n.90, che ricostruisce le azioni messe in campo nel post terremoto del 2012. Il reato commesso è quello previsto all’art. 603 bis del codice penale che punisce l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro, in riferimento all’utilizzo da parte della Bianchini Costruzioni srl, nei cantieri della ricostruzione, di muratori e carpentieri forniti da Michele Bolognino, considerato uno dei capi della cosca. Vicenda per la quale nel rito abbreviato sono già stati condannati Giuseppe Giglio e Giuseppe Richichi, mentre lo stesso Bolognino e la famiglia Bianchini verranno giudicati nel processo in corso a Reggio Emilia.

Bene, dissero i legali della CGIL dopo quella sentenza, ma la nostra organizzazione si ritiene danneggiata anche in relazione ad altri capi di imputazione, ed in particolare dall’esistenza stessa e dell’azione della cosca mafiosa nel territorio; in relazione a quel “Capo n.1” che mette alla sbarra “l’associazione mafiosa denominata ‘ndrangheta, autonomamente operante nelle province di Reggio, Modena, Parma e Piacenza”.

E’ questo il tema al centro delle conclusioni che i legali della CGIL, Mancuso e Ronchi, hanno presentato il 21 giugno 2017 al processo d’appello del rito abbreviato a Bologna, giunto ormai alle arringhe finali (la sentenza probabilmente a settembre).

“La consorteria mafiosa non solo era esistente” scrivono i legali, “ma incideva principalmente nel tessuto dell’economia, modificando attraverso il metodo mafioso le regole della concorrenza e quelle del mercato, comprese quelle del mercato del lavoro. Aveva una finalità di più ampio respiro, volta alla gestione delle attività economiche” individuando nell’impresa, con particolare riguardo all’edilizia e ai trasporti, i settori principali nei quali utilizzare “la potenza del clan che ha generato un serio pregiudizio alla libera concorrenza”.

Una “profonda penetrazione in interi settori dell’economia emiliana”, scrive Libero Mancuso, “nei quali il Sindacato ha storicamente svolto un ruolo di rappresentanza dei lavoratori e di mediazione tra questi e la parte padronale”.

Il processo d’appello e le conclusioni dell’accusa hanno rafforzato il quadro di responsabilità emerso in primo grado, aggiungono i legali, dimostrando come le infiltrazioni della ‘ndrangheta siano state in grado di “egemonizzare interi settori del mercato, sostituendo i meccanismi concorrenziali con quelli intimidatori propri del metodo mafioso. E dunque impedendo nella sostanza l’esplicitarsi dell’azione sindacale, che ha necessariamente bisogno della possibilità di partecipazione libera dei lavoratori, di una democrazia vera e non solo formale. Il compito dell’organizzazione sindacale è organizzare lavoratori liberi, non ricattati o ricattabili, mettendo in campo forti azioni, anche di conflitto, ma in un ambito in cui vengano riconosciute quanto meno le prerogative costituzionali dei lavoratori”.

Al contrario, i fatti accertati al processo mostrano come al Sindacato venisse “financo interdetto l’accesso ai luoghi di lavoro e quindi ogni pur preliminare verifica delle condizioni lavorative ed ogni contatto con i propri rappresentati”.

La CGIL, le Camere del Lavoro, il sindacato di categoria degli edili FILLEA, non hanno potuto di conseguenza esprimere la loro “capacità di proselitismo”, subendo un grave danno “in termini di reputazione di un soggetto storicamente così presente in un territorio che ne aveva visto la nascita ed improvvisamente scomparso di fronte all’azione mafiosa”.

Quanto vale questo danno?

La CGIL ha chiesto di quantificarlo al prof. Alessandro Santoro, dell’università di Milano “La Bicocca”, che ha prodotto una ricerca illustrata in aula a Reggio Emilia nei giorni dei testimoni convocati dalle Parti Civili.

E’ una stima quantitativa degli effetti che l’azione criminale in regione ha prodotto a partire dal 2004 nel solo settore edile, riferita ai potenziali iscritti al sindacato e in particolare alla CGIL. Una ricerca che segue le metodologie utilizzate da Banca d’Italia per stimare i maggiori costi gravati sulle regioni del Mezzogiorno causa la presenza del crimine organizzato.

Il risultato in estrema sintesi è che “la penetrazione criminale ha ridotto sensibilmente la capacità di rappresentanza del sindacato nel settore edile e nella regione Emilia Romagna in misura pari a circa il 10% in 10 anni (dal 2005 al 2014). Proiettando questo dato alle provincie di Reggo Emilia e Modena, la perdita di rappresentanza si è tradotta in un danno per il sindacato stimabile in 10.511 minori tesseramenti che vogliono dire 1.042.742 euro di perdita.

Da qui la richiesta in appello dei risarcimenti che l’avvocato Andrea Ronchi ha quantificato in 200mila euro di danno morale e 472mila euro di danno patrimoniale per la Camera del Lavoro di Reggio Emilia, 195mila e 585mila sulle stesse voci per la CdL di Modena.

Ma non è solo una questione di soldi, come ha scritto Libero Mancuso: “Se non altro, in nome della storia che rappresenta e del valore di rango costituzionale che i nostri Padri costituenti intesero attribuire al lavoro, fonte di dignità della persona umana, al riconoscimento della libertà sindacale, all’affermazione del diritto di sciopero, al diritto alla tutela della salute del lavoratore, al diritto ad una retribuzione equa. Un ruolo, quello della tutela dei diritti dei lavoratori, che ha visto il Sindacato rivestire gli abiti del protagonista assoluto nella difficile, tormentata storia del nostro Paese, nel quale l’illegalità ha dilagato. Una illegalità che non ha visto all’opera solo i colletti bianchi, ma assai spesso una torbida alleanza tra padronato, politica, crimine organizzato”.

“Torbida alleanza” è espressione forte, ma è francamente difficile trovarne una migliore per descrivere certi accordi “pappa e ciccia” raccontati al processo, certi abusi di potere messi in campo a vantaggio di presunti esponenti della consorteria da parte di eletti, rappresentanti delle istituzioni, addirittura di tutori dell’ordine e della legalità. Abbiamo di recente parlato della imbarazzata e imbarazzante deposizione dell’ex questore di Reggio Emilia dott. Gennaro Gallo, della sua “assoluta fiducia” nell’autista poliziotto Domenico Mesiano, condannato nel rito abbreviato a otto anni e sei mesi più due di libertà vigilata. Grazie a Mesiano Alfonso Paolini, Antonio Muto e Pasquale Brescia avevano una corsia preferenziale in questura che consentiva loro di ottenere il porto d’armi senza passare al vaglio dell’ufficio competente: bastava la firma diretta del Questore su richiesta di Mesiano. Ma questa pratica non si interruppe quando il dott. Gallo lasciò la questura di Reggio per andare a dirigere quella di Parma. Fu infatti il suo successore Francesco Perucatti dal 2008 a ribaltare più di una volta il parere negativo che il nuovo prefetto di Reggio Emilia, Antonella De Miro, inviava in questura in merito al rinnovo di quei porto d’armi. “Si rifiuti” diventava “si accetti” per volontà del nuovo questore, che al parere e alle argomentazioni del prefetto De Miro dava evidentemente lo stesso peso del vecchio questore nei confronti del vecchio prefetto Bruno Pezzuto. “Era stato sbianchettato” disse in aula testimoniando la funzionaria Orietta Giacomini: si riferiva alla dicitura “si rifiuti”, al parere negativo sul porto d’armi per Antonio Muto.

Su questa storia è lo stesso Alfonso Paolini ad aggiungere dettagli conversando nelle pause del processo. “Di lavori in questura ne ho fatti tanti e non me li hanno mai pagati. E quando il dott. Gallo dice che mi ha incontrato solo una volta o due…”.

Sorride Paolini, e ricorda i suoi trascorsi da imprenditore legato al calcio, i suoi viaggi verso il sud con ospiti a bordo che approfittavano della sua auto di lusso per un passaggio verso Roma…

Promette di raccontarle in aula, Alfonso Paolini, le sue tante occasioni d’incontro con il questore (o i questori). Saremo lì ad ascoltarlo.

 

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