“FALSA TESTIMONIANZA”

31 Gennaio 2017

Paolo Bonacini, giornalista

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Nell’ultima udienza di gennaio al processo Aemilia il Procuratore antimafia Beatrice Ronchi contesta la falsa testimonianza con l’aggravante del metodo mafioso ad un imprenditore della Val d’Aosta in affari con Palmo Vertinelli . E il giudice rincara la dose: “Non siamo qui a farci prendere in giro”

“Chiunque, deponendo come testimone innanzi all’Autorità giudiziaria, afferma il falso o nega il vero, ovvero tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali è interrogato, è punito con la reclusione da due a sei anni.”

E’ l’art. 372 del codice penale, più volte evocato nel processo Aemilia dal presidente del tribunale dott. Caruso di fronte alle reticenze e ai “non ricordo” di tanti testimoni, senza tuttavia mai arrivare (per quanto ne sappiamo) ad una formale incriminazione.

Ma tanto tuonò che piovve.

Nella udienza pomeridiana di martedì 31 gennaio, alle 16 circa, il pubblico ministero Beatrice Ronchi termina bruscamente il proprio interrogatorio di Francesco Curcio, imprenditore della Val d’Aosta originario di Crotone, amministratore del consorzio Gecoval di Saint Vincent al quale aderiva nel 2015 anche la società Opera srl di Montecchio. Termina e chiede al Presidente di trasferire gli atti dell’interrogatorio al Tribunale di Bologna con l’ipotesi di reato dell’art. 372, aggravato dall’art.7 della legge 203/91, cioè l’aggravante del metodo mafioso.

La richiesta arriva dopo una mezz’ora di scintille con domande e “non risposte” riguardanti i rapporti tra il testimone e i fratelli Palmo e Giuseppe Vertinelli, imputati nel rito ordinario del processo Aemilia. La dottoressa Ronchi si concentra in particolare sui giorni “caldi” attorno alla notte degli arresti, quella del 28 gennaio 2015 quando le forze dell’ordine si mossero dentro e fuori l’Emilia Romagna per eseguire 117 ordini di custodia cautelare. Palmo Vertinelli, imprenditore cutrese di 55 anni residente a Montecchio, non era in casa quella notte. Restò latitante poco più di due settimane, poi si presentò spontaneamente alle autorità. Arrestato e rilasciato dal Tribunale della Libertà, tornò nuovamente in carcere nel settembre dello stesso anno al termine di una operazione dei Carabinieri che ha portato al sequestro di società, immobili, auto di lusso e conti bancari per 35 milioni di euro. Dietro le sbarre con lui anche il fratello Giuseppe.

Francesco Curcio era in affari con le imprese di Palmo Vertinelli, definito dal giudice Ziroldi “la forza economica” di Nicolino Grande Aracri in Emilia. Il problema più grosso per l’imprenditore calabrese residente tra le alpi a Montjovet è che la sua Audi A6 nel 2015 era tenuta sotto controllo e le sue telefonate, come quelle di Palmo, erano intercettate e registrate dalle forze dell’ordine. Secondo la DDA i due erano assieme su quell’auto a Roma nei giorni precedenti gli arresti del 28 gennaio, e a bordo c’erano Palmo e Giuseppe anche qualche giorno dopo. Poi ci sono gli affari comuni collegati al consorzio Gecoval che riunisce imprese del settore edile impegnate a gestire appalti in giro per l’Italia. La copertura del palaghiaccio di Courmayeur, ad esempio, affidata alla impresa Opera srl di Montecchio, oggi sotto sequestro. Gecoval detiene il primato della prima impresa colpita da interdittiva antimafia in Val d’Aosta, presumibilmente perché a guidarla era proprio quel Francesco Curcio, già condannato per tentata estorsione dopo aver perso un appalto per sgombero neve, considerato “amico degli imprenditori amici” di Nicolino Grande Aracri.

Logico che la Procura intenda chiedergli conto dei suoi rapporti con i Vertinelli e la sua deposizione è iniziata con domande molto semplici. Purtroppo anche le risposte sono state molto semplici, rendendo subito evidente al Tribunale la piega della conversazione.

Ronchi: “Ci può dire come ha conosciuto Palmo e Giuseppe Vertinelli?”
Curcio: “Non ricordo”
Ronchi: “E quando li ha conosciuti?”
Curcio: “Non ricordo”
Ronchi: “Ma almeno sa chi sono?”
Curcio: “Ho letto qualcosa sui giornali, o forse in internet”.
Ronchi: “Sa che hanno avuto dei sequestri di beni per cifre importanti?”
Curcio: “Forse, dai giornali, non ricordo”
Ronchi: “Non l’ha saputo da loro?”
Curcio: “Non ricordo”.
Ronchi: “Ha messo lei in contatto i Vertielli con esperti commercialisti per il problema dei beni posti sotto sequestro?”
Curcio: “Non credo”.

Bastano pochi secondi per spingere il procuratore antimafia dott.ssa Ronchi a chiedere al Tribunale di valutare seriamente l’ipotesi prevista dall’art. 372 del codice penale. Ma prima di farlo il giudice Caruso, come già altre volte con altri imputati, prova ad incalzare “a modo suo” il testimone, per fargli capire cosa rischia e per rendere evidente anche a lui che non siamo al bar ma in un’aula di giustizia, che non stiamo parlando della partita di calcio ma di un delitto tra i più gravi: l’associazione di stampo mafioso.

Caruso: “Guardi signor Curcio che noi non possiamo continuare a farci prendere in giro da lei. Questo è un Tribunale della Repubblica e non ci facciamo prendere in giro da un Curcio qualunque… E’ spaventato? Le hanno dato dei soldi?”.

Ma Curcio non ricorda, o non sa, o nega, o si azzarda a rendere normale e lecito ciò che normale o lecito non può essere per i comuni mortali e per le leggi, come un versamento da soci per 20mila euro in aumento capitale che il giorno dopo torna indietro senza fatture né pezze giustificative:

“Si vede che gli servivano…” dice l’amministratore della società. A chi, e per che cosa, e chi glieli ha dati, e chi ha controllato, sembrano cose superflue per Curcio, che anzi non ha chiaro neppure se lui era o no l’amministratore del consorzio. E che dice tra l’altro, in un crescendo di fantasia: “Non c’è la fattura perché le fatture non servono”.

Ce n’è abbastanza per il procuratore Ronchi che si ferma e dice al Tribunale:

“Non posso continuare”. E chiede l’invio degli atti a Bologna per falsa testimonianza con l’aggravante del sostegno alla mafia. Le difese non dicono nulla, il giudice nulla aggiunge se non l’ultimo invito a Francesco Curcio: “Lei se ne può andare”.

E’ una pagina triste quella letta e ascoltata oggi pomeriggio in Tribunale; ma non era stata più allegra neppure quella del mattino quando la dott.ssa Federica Zaniboni, commercialista reggiana e amministratrice giudiziaria dei beni sequestrati ai Vertinelli, aveva raccontato delle difficoltà e dei “bastoni tra le ruote” incontrati nello svolgere il proprio lavoro. Si è mossa con rigore professionale nel mondo di società che ruotava attorno ai Vertinelli: Top Service, Secav, Opera, Millefiori, Ediliza Vertinelli, Impresa Vertinelli, ecc. ecc. Ma tra le persone incontrate c’è ancora chi non ha cambiato casacca, c’è ancora chi “non ricorda, o non sa, o fa finta che sia normale ciò che non lo può essere”.

Alcuni difensori non la volevano a testimoniare la dott.ssa Zaniboni, perché ritenuta “di parte”, consulente dell’accusa. Ma il collegio giudicante ha rigettato la richiesta, con la motivazione che “L’eccezione difensiva si basa su un presupposto erroneo: il teste deve essere imparziale. Ma il dovere del teste non è quello; l’unico suo dovere è dire la verità.”

L’esatto contrario del “non ricordo”.

di Paolo Bonacini

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