DELITTO E CASTIGO – parte prima

27 Settembre 2017

Paolo Bonacini, giornalista

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“Signor Valerio, lei come si dichiara rispetto alle accuse che le vengono rivolte?”

“Colpevole”

“Anche del primo capo di imputazione, l’appartenenza alla associazione mafiosa?”

“Sì, colpevole”

Quasi come la fine di un film di Perry Mason, ma qui siamo solo all’inizio.

L’inizio, alle 11,40 di martedì 26 settembre, della deposizione di Antonio Valerio, il secondo imputato del processo Aemilia divenuto collaboratore di giustizia, un anno dopo Giuseppe Giglio. Risponde alle due semplici domande del PM Beatrice Ronchi, poi arriva le terza, meno specifica: “Ci dica come è entrato lei a fare parte della ‘ndrangheta”.

E il suo racconto diventa romanzo.

E’ una enciclopedia parlante, Valerio, e nelle prime 8 ore di testimonianza srotola una infinità di nomi, dettagli, eventi e omicidi che caratterizzano la storia e le faide della ‘ndrangheta cutrese giù in Calabria e qui a Reggio Emilia a partire dagli anni Settanta. Una storia che in provincia di Crotone inizia con la descrizione delle grandi famiglie mafiose presenti quando Antonio ancora piccolo, a soli dieci anni, perde il padre: morto “da eroe” perché “attinto sotto l’occhio” (gli hanno sparato in faccia) da Rosario Ruggiero il falegname, detto “tre dita” per la mano rovinata da un incidente sul lavoro. E che continua fino ai primi anni Novanta, fermandosi alla vigilia della vendetta consumata a Brescello nel 1992 quando a morire sotto i colpi d’arma da fuoco è il cugino di Rosario, Giuseppe detto Pino, uno dei due Ruggiero residenti in provincia (l’altro è Turuzzo che vive a Poviglio).

Un romanzo che unisce violenza e dramma, codici d’onore e leggi ferree dello Stato Sovrano della Mafia, dove una riunione a Reggio Emilia (primi anni Ottanta!) tra i grandi boss al confino Totò Dragone, Pasquale Voce e Antonio Arena è definita “il G7 o G8 della ‘ndrangheta”; dove essere ammessi al pranzo di Antonio Pelle, la “Mamma di S.Luca” che governa i conflitti tra le Famiglie, è come trovarsi “davanti al Presidente della Repubblica”; dove il sospetto di azioni potenzialmente pericolose di personaggi ambigui o non fidati genera “Indagini” che portano ad “Attenzionare le persone”: proprio come fanno le forze dell’ordine nello Stato parallelo e meno sovrano (per la cosca) che si chiama Italia.

Ed è solo il primo giorno di deposizione, nel quale si accenna all’esperienza giovanile sulle colline crotonesi (Petilia Policastro, San Mauro, Mesoraca) e all’accumulo di “crediti criminali” (omicidi che si porteranno all’incasso) dell’uomo destinato poi a fare piazza pulita dei Ciampà, dei Dragone & compagnia, per affermarsi come boss indiscusso di Cutro e dintorni (Reggio Emilia compresa): Nicolino Grande Aracri.

Un capitolo iniziale che promette scintille in quelli a venire e che già richiama e approfondisce storie coperta dalla polvere degli anni: il tentato omicidio davanti al Redas di Montecchio di un Nino D’Angelo siciliano che “non è il cantante, signor Presidente, ma uno spacciatore di droga che mi faceva concorrenza in val d’Enza: uno dei due era di troppo”; la latitanza dal maggio 1991, dormendo in case amiche tra Correggio, San Marino e Mesoraca, con in tasca un documento falso ma vero perché firmato da Nicolino Grande Aracri, dopo una rocambolesca fuga dalla polizia tra il Foro Boario e Sant’Ilario con la macchina crivellata di proiettili; il rogo del ‘79 al night Pink Pussycat in pieno centro a Reggio che costò la vita a Giuseppe Vasapollo (bruciato) e a Paolino Lagrotteria (ucciso perché scappò lasciando a bruciare l’amico/complice).

Poi verranno, da giovedì prossimo, le altre storie: i due omicidi di Pino Ruggiero e Nicola Vasapollo, la guerra e le alleanze tra le Famiglie, la faida che sporcherà di sangue il nuovo millennio mettendo fine (per ora) alla partita con la supremazia dei Grande Aracri, il rafforzamento della cosca al nord e la nuova cultura imprenditoriale del crimine fatta propria dagli uomini di Reggio Emilia, le vicende al centro di Aemilia.

Valerio parla di spalle in videoconferenza da un luogo protetto. Ha davanti a sé l’avvocato difensore che lo invita semplicemente, ogni tanto, a calmare il fervore narrativo e ad ascoltare le domande che arrivano dall’aula bunker. E’ come se volesse correre perché ha troppa roba da raccontare: “E’ un mezzo secolo, signor Presidente!”

Un bel pezzo di storia. Sul quale dopo l’accusa vorranno tornare legittimamente anche tutte le difese. E il processo si allunga.

Ma si possono comprendere e assimilare le storie di mezzo secolo attraverso il racconto per quanto lucido di un loro protagonista? E’ impresa ardua e la prova si è avuta in questa prima udienza, con talmente tanti elementi intrecciati, nomi che si ripetono, ricordi contraddittori, fatti da precisare, date che si accavallano e salti in avanti e indietro nel tempo, da mandare nel pallone anche i più attenti ascoltatori (pubblico, avvocati, Pubblica Accusa o Giuria non fa differenza).

Nonostante ciò la testimonianza di Antonio Valerio è ritenuta importante e segna un nuovo punto di svolta del processo: prova ne sia il palpabile nervosismo tra i detenuti che lo descrivono nei commenti fuori onda con espressioni colorite: “è un ubriacone”, “è fatto di droga”, solo per citarne due.

Andiamo con ordine e approfondiamo uno alla volta i capitoli più avvincenti del romanzo cominciando dall’infanzia, da una famiglia di Cutro soprannominata “i pulitini”, composta da marito, moglie e tre figli: il grande di 17 anni, la piccola di 4, e in mezzo lui, Antonio Valerio, che a 10 anni resta senza padre.

Gigi Valerio viene ammazzato dopo una assurda escalation di contrasti e sgarbi con Rosario Ruggiero dettati da futili motivi. Il 20 luglio 1977 il padre di Antonio percorre in auto via Nazionale a Cutro quando all’altezza della piazza principale del paese, dove si va piano, Rosario “tre dita” si affianca e si aggrappa allo specchietto retrovisore. Ha un’arma in mano.

“Mio padre apre la portiera e si getta verso di lui lasciando correre da sola l’auto che andrà a sbattere trecento metri più avanti. Era un “malandrino” mio padre (un coraggioso): non è scappato, anche se l’altro aveva la pistola; non aveva paura della morte. E per la ‘ndrangheta scappare è una vergogna. Ruggiero lo ha “attinto” (chissà perché Valerio usa sempre questo termine: forse per sottrarre violenza all’immagine di un proiettile che entra nella testa) sotto l’occhio e mio padre è morto da eroe. Ma ha lasciato in casa sua tre figli orfani”.

Piange a questo punto Valerio, e se le lacrime vanno ritenute sincere quanto il dolore per un padre morto, la spiegazione della commozione lascia qualche dubbio in chi ascolta: “Non piango per me ma perché penso al male che ho fatto agli altri”.

La vita di Antonio Valerio comunque cambia radicalmente da quel giorno: il fratello grande Gaetano vive già a Reggio Emilia (si fidanzerà con Antonietta Vertinelli, sorella di Palmo) e lui resta l’unico uomo in casa con la madre e la piccola Annamaria. “Sono cresciuto senza padre ed anche se gli zii non ci hanno fatto mancare il loro aiuto c’era da lavorare. Andavo a raccogliere pomodori, finocchi, bietole; a zappare la terra.”

Ma in paese c’era sempre l’ombra di Rosario “tre dita” ad oscurare il cielo. “Lo hanno condannato a 14 anni riconoscendogli le attenuanti per la provocazione, e siccome era un falegname che lavorava nella bottega del carcere, dopo solo cinque anni me lo ritrovo fuori in semilibertà che ricomincia a provocare la mia famiglia. Lui era stato battezzato, era uomo dei Ciampà/Dragone, e pretendeva rispetto e spazio”.

Quello spazio che non c’è più per Valerio, stando al suo racconto. La madre capisce che per il figlio “è tempo di partire” e lo manda su a Reggio Emilia, sotto l’ala protettiva dei Vertinelli. Arriva una domenica di settembre del 1983 e il giorno dopo, lunedì sera, è già in manette. Perché questo non è il libro Cuore, è Delitto e Castigo. Il primo delitto a Reggio Emilia è passare la prima sera con amici che trafficano in armi, fanno baldoria e si ubriacano divertendosi a sparare raffiche di mitra dalla bocca di lupo di un seminterrato. I proiettili forano la vetrata di una casa vicina e la mattina dopo arrivano i carabinieri con una 127 blu per capire cosa succede. Palmo e Giuseppe Vertinelli, Antonio Valerio e il fratello Gaetano, vengono portati in caserma per accertamenti e Palmo, “che aveva in auto una pistola 635 e dei proiettili, mi ha indottrinato sulle cose da raccontare. Però qualcosa è andato storto perché alla fine mi hanno chiuso in camera di sicurezza e ci sono rimasto 26 giorni. Così ho fatto la conoscenza con il carcere di San Tommaso a Reggio Emilia e poi con quello di Bologna”.

“Ma lei allora era minorenne?” chiede il presidente Caruso.

“Sì, avevo 16 anni”.

Se non era segnato prima, il destino di Antonio Valerio inizia ad esserlo qui. Negli anni successivi lavora ancora con Palmo e Pino Vertinelli, i fratelli imprenditori di Montecchio che si sono visti sequestrare immobili, conti bancari, società e auto di lusso per oltre 35 milioni di euro. “Palmo faceva già le false fatturazioni per sé e per le altre società” ammette candidamente “e all’epoca c’era pure il caporalato per cui ti dò il lavoro, da mangiare e da dormire, e poi ti pago quello che voglio io detratte le spese che ho sostenuto”.

Prima di fare il pugile, prima di andare a militare, prima di iniziare ad acquistare e vendere droga pesante tra Parma e Reggio Emilia, prima “di iniziare anche io a perdere la ragione” dice di sé stesso riferendosi agli anni 86/87, Antonio Valerio era dunque, stando al suo racconto, più una vittima predestinata che un protagonista consapevole delle logiche di ‘ndrangheta. I suoi veri delitti iniziano dopo, dagli anni Novanta. Ma prima di ripercorrerli, anche attraverso le sue testimonianze, varrà comunque la pena tenere a mente i fatti concreti che gli sono addebitati nel processo Aemilia.

Sono una quindicina i capi di imputazione di cui deve rispondere, e se il primo è il più importante: appartenenza con il ruolo di organizzatore (sono in cinque, tre dei quali già condannati nel rito abbreviato) alla organizzazione criminale di stampo mafioso operante in Emilia Romagna, tra gli altri ci sono forse i più odiosi.

Perché è Antonio Valerio a prendersela spesso, tra le carte di Aemilia, con i personaggi più deboli o più indifesi. E’ lui che nel 2010 assieme ad Antonio Turrà dice a Nierzgoda Beata di Campagnola Emilia, alla quale sta cercando di portare via l’azienda agricola: “Noi la terra non la concimiamo con sangue di bue; usiamo il sangue buono!”. Ed è sempre lui assieme a Gaetano Blasco due anni dopo a mandare in scena il teatrino del buono e del cattivo con l’onesto costruttore reggiano Brenno Cerri, che si lamenta di lavoro fatti mali in edilizia. Blasco fa per rompere in testa a Cerri un’ascia da cantiere e Valerio lo blocca. Poi però è lo stesso Valerio a buttare Cerri giù per le scale con una spinta, mandandolo all’ospedale. “Perché non esistono buoni e cattivi” scrivevamo in quell’articolo che raccontava la Spoon River emiliana delle vittime di ‘nrangheta: “esiste solo la cosca”.

Il castigo di Antonio Valerio sarà presumibilmente più corto dopo la sua decisione di collaborare, come avvenuto anche per Giuseppe Giglio nel rito abbreviato. Ma per ora è ancora tempo di soffermarsi sui delitti: quelli commessi da lui e quelli di altri che la sua narrazione può aiutare a mettere a fuoco. Una cosa del suo racconto della prima udienza forse è sfuggito ai più e merita attenzione: la decisione di uccidere Pino Ruggiero a Brescello non nacque solo dal desiderio di vendetta per la morte di papà Gino Valerio. I Grande Aracri la sostennero e i Ciampà e gli Arena la sponsorizzarono, mettendoci soldi, perché era di dominio pubblico negli ambienti criminali della bassa reggiana che Pino e Turuzzo Ruggiero avevano acquistato con 40 milioni di lire armi deputate ad una resa dei conti con le famiglie rivali. Siamo nel 1992 e siamo già alla faida lungo il grande fiume. Facciamolo sapere, nella Bassa, a chi ancora oggi sostiene: qui la ‘ndrangheta non c’è.

 

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