DELITTO E CASTIGO – parte seconda

29 Settembre 2017

Paolo Bonacini, giornalista

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Ci eravamo lasciati, nel primo capitolo del racconto in aula di Antonio Valerio, neo collaboratore di giustizia del processo Aemilia, all’inizio degli anni Novanta, quando l’uomo “neutro”, come lui ama definirsi (cioè capace di tenere i piedi in due staffe: i Vasapollo/Ruggiero e i Dragone/Grande Aracri), finisce in carcere dopo una rocambolesca fuga e la successiva latitanza legati allo spaccio di droga.

La trama si sviluppa sempre sui piani paralleli di due storie che offrono infiniti punti di incontro: quella personale del narratore e quella collettiva delle grandi famiglie mafiose piantate a Cutro e impiantate a Reggio.

Antonio Valerio il 7 luglio 1992, mentre noi manifestiamo per onorare i martiri della lotta al governo Tambroni in piazza, esce di galera in libertà vigilata e si sistema in via Samoggia a Reggio Emilia, dove si prepara ad assistere e partecipare da protagonista ai fatti di sangue che scuoteranno la provincia a partire da settembre. Nonostante le ferie estive si mette immediatamente al lavoro, trasforma l’appartamento in cui vive in un ufficio ed apre diversi rami di attività, dimostrando quanto possa essere produttivo chi ha voglia di fare, benché costretto agli arresti domiciliari.

I fronti sono tutti redditizi, se non in soldi almeno in crediti criminali:

  1. Una “centrale operativa” con licenza di ‘ndrangheta avendo il suo titolare conseguito il grado di “Quartino”.
  2. Una attività di indagine, analisi e pianificazione specializzata in omicidi (con Bellini per uccidere Lagrotteria, con altri per uccidere Bellini, con Antonio Macrì detto Topino per uccidere Nicolino Sarcone, ecc.).
  3. Una attività di spaccio e smistamento della droga che è bene ricominciare dopo la parentesi dietro le sbarre sia per ragioni puramente economiche che di controllo del mercato: “La tagliavo io in casa; era una droga di eccellentissima qualità, davvero stupefacente” spiega Valerio, che evidentemente possiede anche il senso dell’humor.
  4. A tempo perso, per guadagnare quei tre/quattro milioni di lire al mese in più che rappresentano la sua parcella, compila fatture false per conto di Palmo Vertinelli e le tiene nascoste, prima di portarle all’incasso, dentro una busta di plastica nell’intercapedine di un sottofinestra.

Quell’appartamento al numero 91 del condominio di via Samoggia nell’estate del ’92 è un vero porto di mare. A trovare Valerio ci vanno Raffaele Dragone, Floro Vito Giuliano, Nicolino Sarcone, Paolo Bellini, Vincenzo e Giuseppe Vasapollo, Alfonso Diletto detto Lascimmia, Lucente, Le Rose, Rosario Sorrentino detto Sainedda, Angelo Salvatore Cortese. Ci va con la moglie un Nicolino Grande Aracri in grande ascesa che gli porta un milione di lire e gli dice “Ti mando io soldi e gente”, e in più gli fa portare la droga in conto vendita, mentre i Vasapollo tengono chiuso il cordone della borsa e sulla droga si muovono da soli.

Ma la generosità di Nicolino ha sempre un fine, si intuisce dal racconto di Valerio. Perché in contemporanea nell’agosto dello stesso anno giù a Cutro Paolo Bellini corre ad ammazzare Paolo Lagrotteria, che tredici anni prima aveva abbandonato da vigliacco un altro Giuseppe Vasapollo a bruciare nel rogo del Pink Pussycat in via Emilia San Pietro. Ma lo fa alla Bellini, fregandosene delle regole sacre e degli equilibri di ‘ndrangheta, senza informare e senza chiedere il permesso, come doveroso, ai grandi capi del paese d’origine.

Nicolino soffia sul fuoco che sta accerchiando i Vasapollo, coinvolge nell’insofferenza verso queste azioni irrispettose gli Arena, i Ciampà e i Dragone, alletta il “neutro” Valerio verso una scelta definitiva e decisiva per il controllo di Reggio Emilia.

“Scatena un conflitto che indebolirà tutti”, dicono gli atti degli interrogatori di questi mesi, “tranne proprio la cosca Grande Aracri”.

Si comincia a sparare da Cremona a Cutro per regolare i conti e finalmente (per Valerio) anche Rosario Ruggiero detto Tredita, l’assassino di suo padre, viene “attinto”. Ma la notizia più inquietante riportata dal tam tam della comunicazione interna al mondo criminale è la pianificazione di un attacco diretto al cuore dei Ciampà: l’idea concepita da Paolo Bellini e Nicola Vasapollo di lanciare una bomba davanti all’abitazione della famiglia che si affaccia sul centralissimo Corso Nazionale di Cutro, e poi essere pronti a finire col mitra eventuali sopravvissuti che si dessero alla fuga. Valerio lo viene a sapere dall’amico Vincenzo Vasapollo e “si gioca la notizia” con Raffaele Dragone e Nicolino Grande Aracri. E’ in questo contesto che matura la decisione dei due omicidi eccellenti compiuti nel reggiano.

Della morte di Nicola Vasapollo e Giuseppe Ruggiero abbiamo ampiamente parlato dopo la deposizione in aula di Angelo Salvatore Cortese, braccio destro di Grande Aracri fino al 2008 quando iniziò a collaborare con la giustizia. Il presidente Caruso chiede espressamente a Valerio:

“Lei sta trattando gli stessi argomenti che abbiamo sentito raccontare qui da Cortese. Ha avuto modo di ascoltare le sue parole? Sono vere?”

“Assolutamente sì signor Presidente. Certamente. Quello che ha detto Cortese è tutto vero”.

A partire dalla conferma che furono Nicolino Sarcone e Topino Macrì a sparare materialmente a Vasapollo nell’appartamento in cui era ai domiciliari a Pieve Modolena. Con tanta foga da rischiare “che per un pelo Topino non piglia anche me”, dirà Sarcone a Valerio.

Passa appena un mese e il 22 ottobre viene ucciso Ruggiero a Brescello con il commando travestito da carabinieri e un’auto riverniciata ad hoc nel capannone artigianale di Franco Giambattista a Cella. Il lungo racconto di Valerio si sofferma sui dettagli di quella notte: Nicolino Grande Aracri in attesa sulla Modena Brennero per lo “scappotto”, cioè la fuga verso Milano, Raffaele Dragone e Angelo Salvatore Cortese alla guida di due auto d’appoggio, Valerio a fare da autista con il cappello da carabiniere e i tre che andarono travestiti a bussare alla porta di casa e poi uccisero Ruggiero: Angelino Greco detto Linuzzo, Antonio Lerose detto René e Aldo Carvelli detto Manolesta. Non andò tutto liscio quella notte; anzi, la foga e la tensione giocarono brutti scherzi al commando; ma la morte di Ruggiero, davanti agli occhi della moglie, scherzo non fu.

“Le armi le buttammo via, ma poi andò a recuperarle Alfonso Diletto detto Lascimmia. La mia non fu mai trovata.”

La scia di morte non finisce qui, perché la guerra è innescata. Muore l’amico di Valerio Antonio Macrì detto Topino, il cui corpo non verrà mai ritrovato. Dice il collaboratore (lo seppe poi) che lo uccisero in un garage a Cutro e poi consegnarono il cadavere ai Petiliani che lo portarono via nel cassone di un trattore pieno di letame. Lo seppellirono 17 metri sotto terra perché allora gli strumenti della Scientifica arrivavano ad individuare corpi umani solo fino a 15 metri.

Ma le pistole non tacciono soprattutto perché in giro c’è un Paolo Bellini imprevedibile: “Bellini considerava Nicola Vasapollo un amico caro. Lui era convinto di combattere i Dragone, invece combatteva i capricci personali di Bonaccio e di Turuzzo, il Ruggiero fratello di Giuseppe che si voleva vendicare”. Lo “usano” per uccidere a Viadana Domenico Scida che “non aveva fatto niente”. Ma Bellini quel giorno uccide anche un altro “per caso”, così come aveva ucciso “senza motivo” un giovane che lo aveva infastidito per strada a Cutro quando era sceso nel ’90 per commettere un delitto andato storto. Poi va sottocasa dei Dragone a Cavriago e sale spesso le scale di via Samoggia per incontrare “l’amico” Antonio Valerio. Tra i due la fiducia è esaurita e inizia una sorta di “sfida all’Ok Corral”. Valerio invita Bellini a casa sua nei momenti in cui la moglie non c’è proponendosi di ucciderlo.

Chiede il presidente Caruso: “E come pensava di fare, lì a casa sua, in un condominio? Qualcuno se ne sarebbe accorto.”

Risponde Valerio che ha una pistola col silenziatore ed ha preparato un sacco in cui mettere il corpo dopo la chiusura della storia: “Queste cose si potevano fare. Si facevano. E’ stato fatto.”. Bellini però non è scemo e non si fida: salta gli appuntamenti fissati presentandosi solo all’improvviso quando c’è sempre la moglie in casa e l’altro non può “spararlo”. Fanno finta di essere ancora amici, e tornano alla mente le parole di Salvatore Cortese: “Tutti hanno paura di tutti, nessuno si fida di nessuno…”

“Un giorno” dice Valerio, “mia moglie ha salvato me. Perché Bellini è arrivato all’improvviso e sono convinto che fosse venuto lui per uccidermi. E’ rimasto fermo a pensare sulla porta, quando ha visto che mia moglie era in bagno, poi è andato via”.

La resa dei conti tra i due avverrà nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio di sei anni dopo. In mezzo c’è un nuovo arresto e una lunga detenzione sempre legata allo spaccio di droga. Nel ’97 Valerio esce e riprende a collaborare con i Vertinelli, ma siccome non arrivava al “minimo sindacabile” si mette in proprio fondando una azienda e lavorando dal bar Pendolino a Santa Croce a gestire “usura, false fatturazioni, gioco d’azzardo, recupero crediti”.

Il bar, gestito da Romano Carmine “che insieme ai Vasapollo incendiò il locale da ballo Ciao Ciao” a Reggio, è una sorta di Camera di Commercio dell’illecito, dove ai tavoli si discutono e si gestiscono le attività tipiche della ‘ndrangheta. Il 22 dicembre ’98 il bar esplode per una bomba e tra le macerie e il sangue si contano 13 feriti, due dei quali gravi. Allora ancora non si sa, ma quella bomba porta la firma di Bellini.

Che qualche mese più tardi aspetta alle 10 di sera Antonio Valerio nel parcheggio sotto casa di via Samoggia dove il futuro collaboratore di giustizia mette normalmente l’auto prima di rincasare. Mentre Valerio è in retromarcia Bellini sbuca dal camioncino che lo protegge e spara. Valerio cerca di schiacciarlo contro il muro ma non riesce. Una pallottola gli perfora il braccio e si ferma nel collo. Marcia avanti, zig zag per rendere mobile il bersaglio. Due colpi lo raggiungono alla testa e Valerio mostra in aula, quasi orgoglioso, i segni che sono rimasti sul cuoio capelluto.

“Poi sono svenuto, l’auto si è schiantata contro un muro, le ruote giravano a vuoto e sono scoppiate”.

A salvare Valerio, secondo il suo racconto, sono stati il rumore dell’esplosione della gomma, l’arrivo rapidissimo di un poliziotto amico che abita di fronte a casa sua, la fortunata presenza in un vicino ristorante di un gruppo della Croce Rossa che gli ha dato immediato soccorso. Paolo Bellini non può sparare il colpo di grazia e scappa. Antonio Valerio finisce per un mese in ospedale sotto arresto.

Il secondo capitolo di questo reggianissimo “Delitto e Castigo” può finire qui, con le ferite mortali visibili a Reggio della guerra di ‘ndrangheta scatenata negli anni ’90. Sullo sfondo c’è il volto di Grande Aracri che sorride. Sembra essere l’unico ad avere una percezione strategica di ciò che sta accadendo. Ha un obbiettivo assoluto: controllare Cutro e Reggio Emilia. Ha un passato che toglie spazio ad ogni dubbio, se è vero che “Solo nel periodo in cui ha vissuto a Petilia Policastro ha guadagnato un sacco di crediti. Con 60 o 70 omicidi”.

Parola di Antonio Valerio.

 

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