CASE POPOLARI E CARTE FALSE

6 Dicembre 2017

Paolo Bonacini, giornalista

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Francesco Lamanna, classe 1961, nativo di Cutro e residente a Cremona dal 1986, secondo la Direzione Antimafia è uno dei sei capi della ‘ndrangheta emiliana legata ai Grande Aracri. Nel settembre scorso si è visto confermare dalla Corte d’Appello di Bologna la condanna di primo grado a 18 anni di galera, ridotti di un terzo nel rito abbreviato. Altri 10 anni e 4 mesi li aveva rimediati al processo Pesci che indaga le infiltrazioni della mafia nel mantovano. Attualmente Lamanna è rinchiuso nel carcere di Spoleto ma prima degli arresti del 2015 era il comandante assoluto delle attività della consorteria nelle province di Cremona e Piacenza.

Non per questo era sconosciuto a Reggio Emilia, anzi: “Alcune persone anziane magari non conoscevano Nicolino Sarcone (il punto di riferimento per la città), ma conoscevano Lamanna”.

Le persone di cui parla Salvatore Muto, collaboratore di giustizia imputato di Aemilia, non sono cittadini qualsiasi ma gli uomini e le donne della ‘ndrangheta. “Non c’era persona che non conoscesse Lamanna a Reggio” aggiunge Muto in un altro passaggio del suo interrogatorio di ottobre, perché era l’uomo di Nicolino Grande Aracri al nord, il suo braccio destro, e perchè: “Ha una famiglia grandissima, ci ha tanti cugini e parenti, soprattutto a Reggio Emilia. E anche come amicizie Lamanna a Reggio ne conosceva”.

La statura di questo capo, prima abbastanza in ombra nel processo reggiano, si eleva ogni giorno di più con le deposizioni in aula del collaboratore che fino a ieri era il suo portavoce. Ha tre fratelli, Benito, Giuseppe e Salvatore, ed ha raggiunto nella consorteria il grado di “padrino” come Nicolino Sarcone. La parità però non lo soddisfaceva e nel 2011 Lamanna decise di correre a Cutro per approfittare di uno dei rari periodi in cui Nicolino Grande Aracri era fuori di galera. Il boss gli conferì allora una “dote” in più e il diritto di sostituirlo in caso di nuovo arresto.

“Per questo Nicolino Sarcone era un po’ invidioso di lui”, dice Muto, “perché Lamanna era il preferito e Grande Aracri gli diceva: quando non ci sono io tu sei il padrone della mia casa”.

Di questa invidia, o gelosia, Nicolino Sarcone mise al corrente Michele Colacino, uomo e prestanome della consorteria residente a Bibbiano molto vicino a Francesco Lamanna, del quale aveva assunto alle proprie dipendenze la figlia Carolina. Colacino corse a dirlo subito al capo e Lamanna si arrabbiò, tanto da convocare tutti i Sarcone attorno ad un tavolo per fare chiarezza.

“Giuseppe, Carmine e Gianluigi gli diedero ragione” racconta Muto in aula, segno che l’autorevolezza di Lamanna arrivava a spaccare anche la naturale solidarietà di famiglia.

A scanso di equivoci andò poi comunque a fuoco l’auto di Michele Colacino, forse per autocombustione o forse perché l’uomo parlava troppo; ed è accertato nella ‘ndrangheta che parlare troppo è un accelerante dei roghi non meno pericoloso delle taniche di benzina.

Di riunioni attorno ai tavoli Lamanna ne faceva molte, con il fido Salvatore Muto spesso al suo fianco, e quando c’erano problemi da risolvere arrivava a Reggio Emilia o chiamavi gli altri verso Cremona e bastava una telefonata perché tutti si presentassero: dai Sarcone a Diletto, da Paolini a Brescia. I luoghi preferiti di ritrovo erano i due ristoranti “Antichi Sapori” a Villa Gaida e “Al solito posto” sulla via Emilia a Fidenza.

Non era un grande esperto di economia Francesco Lamanna; Salvatore Muto usa un paragone colorito per spiegarlo: “Era come Ernesto Grande Aracri, il fratello di Nicolino, che se gli davi mille euro lui se li teneva e basta. Non capiva niente di questioni societarie e di finanza”. In più non aveva formalmente alcun lavoro.

Suo padre era un commerciante, il suo negozio era “un carretto con la frutta che portava in giro per i paesi nel circondario di Cutro: da Mesoraca a Petilia Policastro, da San Leonardo a Isola a San Mauro Marchesato, dove tutti rispettavano lui e la sua famiglia”.  E si badi bene che in questa storia il termine “rispettato” significa “rispettato dalla ‘ndrangheta perché è uomo di ‘ndrangheta”.

Francesco Lamanna al nord non si intenderà di questioni societarie ma come si fanno soldi lo capisce bene. Guadagna molto e sperpera altrettanto per soddisfare la sua passione preferita che sarebbe meglio definire malattia: il gioco alle slot machine. Non si fa mancare niente e possiede anche un cavallo che gli ha regalato Pasquale Brescia, sebbene i due non siano molto in confidenza. Vive con la moglie che lavora in un’azienda dove si confezionano pasti per le scuole elementari e dell’infanzia.

Abita in un modesto appartamento di edilizia residenziale pubblica, ottenuto grazie ad una dichiarazione dei redditi da nullatenente: paga un affitto da 150 euro al mese.

Ride Salvatore Muto quando lo racconta: “150 euro, non bastano neanche per… però quando arrivava San Silvestro Francesco Lamanna tornava giù a Cutro e organizzava tutti gli anni una grande festa nella sua villa con almeno 100 invitati. Era uno spettacolo, perché spendeva ogni volta almeno 10mila euro solo per i fuochi di artificio.”

Questo signore abitava dunque nelle “case popolari” a Cremona e festeggiava il fine anno nella sua villa in Calabria come fosse a Versailles. Fa parte di una consorteria che riesce a realizzare alti profitti grazie ad una sperimentata serie di attività molto differenti tra loro ma sempre caratterizzate da due fattori di eccellenza: silenzio e solvibilità. Salvatore Muto lo spiega con eccezionale “rigore imprenditoriale” nella prima deposizione in aula del 20 novembre 2017. Ci sono in sostanza tre grandi aree di business: falsa fatturazione, acquisizione appalti, caporalato.

  1. Falsa fatturazione. Attraverso le fatture per operazioni in realtà inesistenti, la cosca garantiva sulle diverse province della regione e con nomi e società differenti da zona a zona, un servizio al top anche in caso di controlli od indagini. Dice Muto: “Davamo le fatture false e contemporaneamente i soldi (contanti) per pagarle; in questo modo le imprese non rischiavano finanziariamente ma potevano scontare il credito d’Iva. Il nostro guadagno era una percentuale sull’Iva e l’aggancio di personaggi che restavano sempre ricattabili, che poi ci portavano nuovi clienti anche per prestiti e superfatturazioni. Le nostre società che facevano falsa fatturazione erano tante e con nomi sempre diversi, per garantire ai clienti la maggior protezione possibile. Nel caso qualcuno venisse beccato o scattassero dei controlli, mettevamo subito in campo altre persone e altre società”.
  2. Appalti e subappalti pubblici e privati. “Portavamo a casa le commesse perché impedivamo agli altri di prendere i lavori. Cioè sbarravamo la strada agli altri proponenti. Non partivamo armati, semplicemente facevamo capire a cosa andavano incontro se si fossero presentati come concorrenti. E se nelle gare incontravamo altre Famiglie di mafia, intervenivano i capi decidendo a chi andava la gara. Lo capivamo, se si trattava di imprese mafiose, perché tra di noi ci conoscevamo tutti per le amicizie strette in ambiente carcerario. Nel settore dell’edilizia la nostra attività era molto diffusa a Reggio, Parma, Cremona e nella bassa Lombardia. Spesso arrivavamo alla fine che c’era solo la nostra azienda a prendere l’appalto, e se c’erano altri noi potevamo fare offerte sempre più basse perché non versando l’Iva e pagando in nero i lavoratori siamo i più competitivi”. Poteva anche succedere che qualcosa andasse storto, che un committente o una stazione appaltante non pagassero, come a Castelvetro Piacentino dove la ‘ndrangheta ha lavorato alla nuova mensa di un asilo pubblico. L’impresa di Trento che si è aggiudicata l’appalto non paga gli albanesi e i rumeni che Lamanna manda a lavorare e allora il capo si presenta dal sindaco del paese assieme a Salvatore Muto che racconta il colloquio ai pubblici ministeri: “Lamanna, quando andammo dal sindaco, gli si rivolse e disse: mi conosci. Noi non è che possiamo perdere i soldi a casa nostra. Gli disse queste testuali parole. E il sindaco si giustificava che non c’entrava, che il Comune di Castelvetro aveva onorato la ditta. Ma comunque Lamanna gli disse che il Comune doveva garantire il pagamento alle persone”. Colloquio evidentemente nella norma per un sindaco che a detta di Salvatore Muto conosceva bene il curricolo mafioso di Lamanna.
  3. Caporalato. La storia dei lavoratori prestati (e umiliati) dal capo ‘ndrangheta Michele Bolognino alla Bianchini Costruzioni srl nei lavori post terremoto 2012 l’abbiamo già raccontata ma secondo Muto non è l’unico caso: “Alla BRC di Genova si facevano gli stessi discorsi come sono stati fatti nella Bianchini, anzi di peggio. Ci ha chiamato Floro Vito Gianni e siamo andati a fare i lavori. Anche io. Ci assumevano per tre giorni la settimana, poi ci licenziavano e ci riprendevano. Ma eravamo obbligati a lavorare tutta settimana, anche alla domenica. Ci pagavano a metro (di costruito) e poi ci davano il fuori busta. Questa azienda è grossa ma lavora male, di sicurezza non se ne parla. Nel palazzo che stavamo costruendo doveva scendere una vasca piena di materiale, che pesava, e andava fatto tutto a mano. I lavoratori poi gli dovevano restituire a Floro Vito anche la cassa Edile e il TFR. Io no. Ci lavorava anche Gaetano, il fratello di Alfonso Paolini che, poverino, non aveva neanche i soldi per mangiare, eh. Bisogna considerare anche questo. Cioè li trattavano un po’ come schiavi voglio dire. Se fosse stato per me li prendevo a calci e me ne andavo”.  A Finale Emilia era Michele Bolognino, capo cosca della ‘ndrangheta, ad avere dubbi nel lavorare con la impresa modenese Bianchini Costruzioni srl che era stata esclusa dalla white list e godeva dunque di cattiva fama. A Genova si lamenta Salvatore Muto per una grossa impresa di costruzioni, la BRC spa, che a suo dire trattava i lavoratori come schiavi. Siamo al paradosso dei paradossi, ai ruoli invertiti, ai criminali che diffidano delle imprese formalmente sane del territorio. “Questa BRC” dice nell’aula di Aemilia Salvatore Muto il 30 novembre “era un ditta buona. L’avevamo conosciuta in Emilia Romagna nel post terremoto. Avevamo già fatto dei lavori per lei e qualche falsa fatturazione”.  Abbiamo verificato che la BRC si era aggiudicata nell’ottobre 2012 un appalto per la realizzazione di interventi post sisma nella scuola primaria Anna Frank e nella secondaria Gasparini a Novi di Modena. Nel settembre 2014 è stata siglata con la stessa impresa una variante per lavori supplementari nelle medesime scuole del valore complessivo di 2 milioni e 238 mila euro. Nell’atto, firmato dalla dott.ssa Balboni, delegato del Commissario per il sisma della regione Emilia Romagna, c’è scritto all’art. 8 che la Prefettura di Modena ha rilasciato liberatoria definitiva di informazione antimafia per la ditta BRC spa.

Ciò per dire che le norme sugli appalti e sulla prevenzione dalle infiltrazioni mafiose sono importanti, ma non può bastare una regola scritta a tutelare la legalità. Vantarsi di avere adottato buoni protocolli e fermarsi lì è una risposta insufficiente e inadeguata alla sfida.

Che le fatture false volino e gli operai vengano trattati da schiavi, non viene autorizzato da nessun protocollo o legge, tanto di oggi come di ieri.

Eppure succede, ci racconta Aemilia.

 

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